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Ultrafinanza/Ultraviolenza

Per salvare le banche dalla crisi che le loro stesse operazioni finanziarie hanno prodotto nel 2008 e nel 2009, gli Stati si sono massicciamente indebitati. Il che vuol dire semplicemente che hanno impoverito le persone -i loro cittadini- a tutto vantaggio di un potere internazionale fuori controllo: «Ciò a cui stiamo assistendo è dunque proprio il grande ritorno sulla scena del sistema dell’usura. Quello che Keynes chiamava “un regime di creditori” corrisponde alla definizione moderna dell’usura. I modi di procedere usurai li ritroviamo nel modo in cui i mercati finanziari e le banche possono far man bassa degli attivi reali degli Stati indebitati, impadronendosi dei loro averi a titolo di interessi su un debito il cui nucleo principale è costituito da una montagna di denaro virtuale che non potrà mai essere rimborsato. Azionisti e creditori sono gli Shylock della nostra epoca» (Alain de Benoist,  Diorama letterario, n. 306, p. 6).
Le posizioni avverse all’ultracapitalismo che ci sta portando nel baratro sono soprattutto tre: l’altermondialismo di Hardt e Negri i quali, sul modello del Manifesto marxiano, giudicano in ogni caso positiva la nascita di un Impero mondializzato rispetto alla permanenza degli Stati nazionali; l’arcipelago politico che spera nell’avvento di un nuovo antagonista di massa capace di opporsi al capitalismo finanziario con azioni di piazza e movimenti di varia natura (Indignados, ad esempio); «un terzo gruppo di posizioni, all’interno del quale si possono situare quelle di Alain de Benoist, fa capo a quanti ritengono, invece, che solo costruendo un nuovo paradigma, un diverso nomos della Terra, una differente modalità di appropriazione, produzione e distribuzione che ponga al centro i concetti di limite e di bene comune, sarà possibile trovare il bandolo della matassa. Vi possiamo inserire, a  titolo puramente esemplificativo, la corrente della decrescita, l’ecologismo più coerente e consapevole, il pensiero meridiano di Franco Cassano, l’alternativa mediterranea propugnata da Danilo Zolo, il Régis Debray che tesse l’elogio delle frontiere, le analisi di François Flahault sul prometeismo occidentale» (Marco Tarchi,  ivi, p. 2).
Le ragioni di quanto sta accadendo sono molteplici e profonde. Sono radicate nelle decisioni assunte dai governi liberisti europei ancor prima della nascita dell’euro e soprattutto nella insensata norma per la quale la BCE può finanziare le banche ma non direttamente gli Stati. In questo modo accade che «le banche hanno prestato agli Stati, ad un tasso di interesse variabile, somme che a loro volta hanno preso in prestito per quasi niente» (A. de Benoist, ivi, p. 11).
Un dialogo apparso sul Manifesto del 1.3.2012 lo conferma: «cinziagubbini: Mmmm…ma il tasso dell’1%? Non è un po’ scandaloso? Leggo che le banche hanno comunque intenzione di tagliare i prestiti…Con i precedenti finanziamenti che ci hanno fatto? Hanno finanziato il sistema produttivo? Oppure ci hanno comprato titoli di Stato che rendono più dell’1% e quindi ci hanno guadagnato?
joseph halevi: La vergogna assoluta della situazione europea, ma anche americana, è che alle banche si dà tutto senza contropartita».
Ormai «la Borsa è sempre più simile a un casinò e la banche hanno abbandonato, di fatto, la loro funzione di raccogliere risparmio e fornire risorse in prestito a famiglie e imprese, per dedicarsi ad attività finanziarie» (Francesco Indovina, Alfalibri, n. 8, p. 14). Gli Stati europei regalano quindi il danaro dei cittadini alla speculazione finanziaria. Un autentico orrore, al quale hanno partecipato attivamente «gli Stati Uniti d’America, che da tempo temono di vedere l’egemonia del dollaro minacciata dalla nascita di una nuova moneta di riserva», una moneta nata di per sé a rischio avendo «artificiosamente legato una moneta unica ad economie divergenti da ogni punto di vista» (A. de Benoist, DL 306, p. 7). Il risultato di tutto questo è ben espresso da Nicolas Dupont-Aignan: «Volendo salvare l’euro i dirigenti ciechi stanno distruggendo l’Europa. Perché l’Europa ha senso solo se consente a ciascun popolo di prosperare più assieme agli altri che da solo isolatamente» (ibidem).
Affamare i popoli per arricchire le banche è una forma di terrorismo attuata dalle istituzioni finanziarie, con l’attiva complicità delle classi dirigenti statunitensi ed europee.  Sul numero 16 (Febbraio 2012, p. 11) di Alfabeta2, Franco Berardi Bifo così sintetizza quanto sta accadendo:

Cosa è uscito dal vertice di Bruxelles che doveva salvare l’Europa l’11 e 12 dicembre 2011? Due decisioni: la prima ha carattere formale, è una dichiarazione di sudditanza della società alla finanza. Ogni paese europeo è chiamato a inserire urgentemente l’obbligo di pareggio di bilancio nelle Costituzioni nazionali. Una misura sistematicamente restrittiva che corrisponde alla filosofia dell’austerità permanente. La seconda è la decisione di investire, attraverso un intervento della Banca Centrale Europea, un’ingente quantità di denaro pubblico nel ripianamento del debito accumulato dalle banche. Senza nessuna contropartita, senza nessun impegno, il sistema bancario europeo gode così di una regalia immensa. I governi nazionali, nel frattempo, stanno rastrellando denaro pubblico per versarlo nelle casse della classe finanziaria. Buon pro gli faccia.
La logica che guida le scelte del vertice di Bruxelles consiste nel dare continuità a un gigantesco spostamento di risorse della società verso il sistema finanziario. Quest’ultimo funziona ormai come un buco nero, un’idrovora che fa sparire il reale: il mondo civilizzato, la scuola, la sanità, il territorio, i saperi -tutto sta scomparendo, disgregandosi a vista d’occhio.
[…] La vecchia borghesia è stata sostituita da una classe deterritorializzata di predoni, il cui potere si fonda sul continuo spostamento del valore, sulla menzogna sistematica, e la simulazione. La sua fortuna economica spesso si basa sulla distruzione della ricchezza altrui.
[…] I segni che un tempo erano indicatori di valore ora sono diventati atti linguistici performativi. Quando un’agenzia di rating è in grado di degradare un paese, o un’azienda, non si limita a funzionare come indicatore, ma diviene un fattore di valorizzazione o di svalutazione.
[…] Dobbiamo ragionare invece in termini di insolvenza sociale perché è l’intera società che deve rifiutarsi di riconoscere il vincolo monetario.

Vale a dire che gli Stati e la società civile dovrebbero rifiutarsi di pagare il debito contratto con gli speculatori, con gli ormai idolatrati “mercati” -con questo Moloch al quale si sacrificano le vite umane- e riappropriarsi, invece, del controllo della moneta.
Karl Marx aveva descritto con chiarezza la logica ultraviolenta e accentratrice del capitale finanziario:

Man spreche noch von Zentralisation! Das Kreditsystem, das seinen Mittelpunkt hat in den angeblichen Nationalbanken und den großen Geldverleihern und Wucherern um sie herum, ist eine enorme Zentralisation und gibt dieser Parasitenklasse eine fabelhafte Macht, nicht nur die industriellen Kapitalisten periodisch zu dezimieren, sondern auf die gefährlichste Weise in die wirkliche Produktion einzugreifen – und diese Bande weiß nichts von der Produktion und hat nichts mit ihr zu tun. Die Akte von 1844 und 1845 sind Beweise der wachsenden Macht dieser Banditen, an die sich die Finanziers und stock-jobbers anschließen.

Che cosa vuol dire accentramento! Il sistema creditizio, che ha il suo centro nelle pretese banche nazionali e nei grandi prestatori di denaro e negli usurai che orbitano loro intorno, costituisce un enorme accentramento e regala a questa classe di parassiti una forza favolosa, capace non solo di decimare periodicamente i capitalisti industriali, ma anche di intervenire nel modo più pericoloso nella produzione reale -e questa banda niente sa della produzione e nulla ha a che fare con essa. Le leggi del 1844 e del 1845 sono una prova della forza crescente di questi banditi, ai quali si uniscono i finanzieri e gli stock-jobbers [speculatori di Borsa].
Il Capitale, libro III, sezione V, cap. 33: «Das Umlaufsmittel unter dem Kreditsystem» (Il mezzo di circolazione nel sistema creditizio).

 

Le armi e i sacrifici

Finalmente anche parte della grande stampa si occupa del vero, immenso scandalo che colpisce economia e società. E che consiste in questo: si chiedono sacrifici ai cittadini, soprattutto a quanti non possono evadere le tasse perché dipendenti pubblici o privati, e si stanziano enormi somme di pubblico denaro per continuare ad acquistare delle armi. Ne parla Il Fatto quotidiano a proposito di ulteriori spese sulle quali il Parlamento è chiamato in questi giorni a pronunciarsi. Si dice, tra l’altro, che «sono soldi che l’Italia spenderà entro fine anno in armamenti e che si potrebbero destinare ad altro subito, oggi stesso. […] Si torna a parlare di manovre “lacrime e sangue”  per recuperare 30 miliardi in due anni. Ma il settore delle spese militari è cresciuto nel 2010 dell’8,4%, con una spesa addizionale di 3,4 miliardi di euro. Il conto generale sale a quota 20.556,9 milioni di euro, corrispondente all’1,283% del Pil e che colloca l’Italia all’ottavo posto al mondo per spese militari. […] Manna dal cielo per chi produce mezzi di questo tipo, cioè tutta la grande industria italiana che va a braccetto con la politica per ottenere commesse sicure in un business sussidiato con soldi pubblici per centinaia di milioni. […] Buona parte delle commesse sono proprio per quella Finmeccanica Spa finita nella bufera per tangenti, finanziamenti illeciti ai partiti e commesse “politiche”». L’articolo ricorda anche l’appello di Alex Zanotelli, che invito di nuovo a sottoscrivere.

Quindi gli amministratori della cosa pubblica mentono, mentono spudoratamente: i soldi ci sono. È che li si vuole utilizzare per la guerra e non per la pace, non per la salute, non per la ricerca, non per la scuola, non per la sicurezza ambientale. Ma per uccidere, ancora. Un dossier apparso sul numero di novembre 2011 di Alfabeta2 è dedicato alla guerra. Tra gli articoli, ne segnalo uno del tutto condivisibile di Alberto Burgio, il quale analizza con lucidità una gravissima trasformazione intervenuta nella società civile: «Grazie all’imponente apparato ideologico e mediatico mobilitato per giustificare le nuove guerre, la guerra ha finito col riconquistarsi un posto al sole nel nostro immaginario. Chi l’avrebbe detto anche solo vent’anni fa? Nei decenni della Guerra fredda la memoria della Seconda guerra mondiale faceva sì che la guerra rappresentasse, agli occhi dei popoli, un male assoluto. La speranza era che grandi conflitti bellici non si verificassero più. La corsa agli armamenti delle due grandi potenze appariva una follia dettata dall’incapacità di trovare terreni altrettanto efficaci su cui misurare le rispettive forze. E le guerre regionali, soprattutto nel Sud-Est asiatico, erano guardate con autentico orrore, considerate intollerabili insulti alla conclamata volontà di pace dell’umanità. […] Oggi, nel grosso della popolazione, prevale il cinico e rassegnato realismo di chi volentieri si risparmia battaglie perse in partenza. La guerra è tornata al centro dello scenario politico, si è normalizzata: perché denunciarne ancora lo scandalo? A chi interessa oggi la causa pacifista? Risulta molto più comodo fingere di credere alle retoriche istituzionali sui diritti umani e l’esportazione della democrazia. […] La caduta della memoria pubblica degli orrori della guerra è un fatto di enorme portata, e stupisce che non se ne parli mai. Stupisce e sgomenta».
Il precedente governo italiano era composto da idioti e da criminali. Che cosa ha da dire e da decidere, invece, su queste assurde spese il nuovo esecutivo? Che cosa le forze politiche che lo sostengono?

I violenti

Qualche settimana fa avevo scritto che «in Italia non ha storicamente senso parlare di rivoluzione» e che «ragioni per attuare almeno una rivolta generalizzata ce ne sono ormai di molto serie». Dopo quanto è accaduto il 15 ottobre a Roma confermo queste parole e mi chiedo “a chi giova tutto questo”? A chi serve un dispiegamento massiccio della stampa e delle televisioni allo scopo di nascondere la povertà culturale ed economica per porre in primo piano le azioni di guerriglia? A chi serve l’invocazione della repressione, la quale -facile previsione- passa facilmente dalla prevenzione delle azioni al controllo sulle idee? A chi serve la paura? Ha ragione Antonio Limonciello -che a Roma c’era- a deplorare la “negligenza ideologica” degli organizzatori della grande manifestazione; ha ragione il (molto) presunto membro dei black bloc che si vanta di aver vinto una battaglia organizzata con metodi militari e che era stata ampiamente e in anticipo resa nota dai responsabili della guerriglia (la soddisfazione di questi soggetti è ben meschina, visto che è ottenuta a danno di altri manifestanti e priva del coraggio di assalire direttamente e da soli i palazzi del potere, le persone dei potenti, come hanno invece fatto gli anarchici nella loro storia). Ma se gli organizzatori possono essere ingenui, non è credibile che lo sia il ministero degli interni. E dunque tutto questo è stato ancora una volta permesso, voluto, favorito dalle istituzioni che hanno bisogno della violenza altrui per giustificare la loro propria e originaria violenza.

La violenza dei corrotti che rubano il pubblico danaro nelle forme più capillari e tenaci, devastando l’ambiente e le sue risorse; l’enorme violenza delle “guerre umanitarie” dichiarate per promuovere gli affari legati all’industria delle armi e del petrolio e per imporre il dominio geostrategico degli USA; la violenza della precarizzazione di massa, che produce povertà economica e squilibrio psicologico; la violenza del danaro sottratto alla sanità, alla scuola, all’università, alla ricerca, all’arte, ai trasporti, alla qualità della vita sociale, per darlo alle banche, ai pescecani della finanza e alle loro truffe speculative; la violenza contro l’ambiente, contro il pianeta, contro la salute e il respiro di tutti noi; la violenza contro il 99% della popolazione mondiale da parte dell’1% dei banchieri, degli amministratori corrotti e collusi con le mafie, dei produttori di armi, degli industriali che dislocano le loro fabbriche dove meglio possono sfruttare. E, infine, la miserabile violenza del vecchio eversore che dichiara «o io lascio, cosa che può essere anche possibile e che dato che non sto bene sto pensando anche di fare, oppure facciamo la rivoluzione, ma la rivoluzione vera…Portiamo in piazza milioni di persone, facciamo fuori il palazzo di giustizia di Milano, assediamo Repubblica: cose di questo genere, non c’è un’alternativa» [Berlusconi in una comunicazione telefonica con Valter Lavitola registrata il 20 ottobre 2009. Fonte: la Repubblica].
A chi affidare il controllo e la repressione di questa immensa violenza non di un sabato pomeriggio ma di tutti i giorni?

Identità e differenza

Ora che con estrema lentezza ma anche con inevitabile parabola il più volgare politico italiano dell’età moderna va dissolvendosi, non bisogna dimenticare che parte dei suoi crimini sono stati e continuano a essere le guerre coloniali in Afghanistan, in Iraq e in Libia. La tragedia dentro la tragedia è che tali crimini sono stati e continuano a essere perpetrati con la complicità convinta del Partito Democratico e del centrosinistra in genere. E  persino con il sostegno di settori della sinistra radicale, come quella che parla in Micromega e nel Manifesto.

Il fardello dell’uomo bianco si espresse una volta sotto il sole trascendente del cristianesimo, poi nella freddezza dello scientismo positivista (del quale l’imperialismo sovietico è stato una potente variante), ora trionfa tramite la menzognera formula della “democrazia” e dei “diritti umani”. Ma si tratta sempre della stessa ossessiva volontà di uniformare il molteplice all’uno, si tratta della stessa mortale presunzione di rappresentare il valore e la verità unica del mondo. Io sono orgoglioso di essere europeo ma lo sono perché l’Europa è stata ed è la terra del tramonto della verità e non il luogo di un’identità dogmatica, che essa sia religiosa, scientifica o politica. Perché la pace sta nelle differenze.

 

Dissolvenze

Museo del Novecento
Milano

Milano, una sera d’estate. Guardo il cielo che offre a occidente gli ultimi bagliori turchesi. Guardo questa luce che si incunea tra i campanili, i palazzi, le guglie del Duomo. La osservo dai piani più alti del nuovo Museo del Novecento, dalla sua terrazza che offre in tutto il suo splendore la visione del cuore della città. L’Arengario, che sta accanto al Palazzo Reale e alla sinistra del grande tempio, è stato ristrutturato a fondo dagli architetti Italo Rota e Fabio Fornasari, che hanno creato una struttura elicolidale che conduce dalla metropolitana e dalla piazza ai piani espositivi, dai quali le grandi vetrate permettono alla luce e alla città di entrare nel Museo. Davvero molto bello, semplice e funzionale.

Nel Museo hanno finalmente trovato sede le collezioni di arte del Novecento e contemporanea di proprietà del Comune di Milano, in particolare quella donata dai coniugi Jucker. Dopo aver percorso la spirale, si viene accolti dal magnifico Quarto Stato di Pelizza da Volpedo (1901), un omaggio divisionista e raffinato al proletariato ma anche alla Scuola di Atene di Raffaello. Si arriva poi alla prima sala che contiene alcuni -pochi- dipinti dei grandi maestri europei del Novecento: Braque, Kandinskij, Picasso, Modigliani, Mondrian, Matisse, Klee.

Inizia così il lungo percorso che dal Futurismo -soprattutto i capolavori pittorici e plastici di Boccioni- attraverso l’esperienza di Novecento, lo Spazialismo, l’Informale, l’Astrattismo, la pittura analitica, l’arte povera, conduce sino al presente. Dopo la prima sala il Museo ospita solo artisti italiani ma certamente ci sono tutti i più importanti e ha poco senso fare dei nomi (segnalo soltanto lo spazio giustamente particolare che viene dato a Lucio Fontana nel piano più alto dell’edificio).

Piuttosto, va ribadita una verità banale ma non per questo meno significativa a proposito della relatività di concetti quali Tradizione, Avanguardia, Moderno. Il percorso testimonia efficacemente infatti, anche per la sua dimensione relativamente contenuta, come le espressioni che in un certo momento appaiono innovative sino alla provocazione -Futurismo, Cubismo, i Concetti spaziali di Fontana, i Corpi d’aria di Manzoni- col passare del tempo diventino dei classici, sostituiti nella loro funzione provocatoria da altre innovazioni che si trasformeranno anch’esse in paradigmi tranquillamente accettati da tutti. Anche per questo nell’ambito artistico -e, in generale, in quello culturale- non hanno alcun senso il tradizionalismo e il rimanere ancorati a stilemi e a forme come se essi costituissero la vera arte, la vera letteratura, la vera filosofia, il vero teatro, la vera musica. Se c’è un carattere che accomuna l’intensa e istruttiva esperienza estetica che questo Museo fa vivere, è proprio il dinamismo della vita individuale e collettiva, che si riflette ed esprime nell’incessante innovazione di ciò che chiamiamo arte.

E poi un’altra verità, altrettanto ovvia ma anch’essa significativa. Mano a mano che si procede nel Novecento e nel presente le figure si diradano, il realismo si sbriciola, le forme si dissolvono, l’opera coincide sempre più con il semplice materiale di cui è fatta, come è evidente in Fontana, nel grande Alberto Burri, nella sabbia di Giulio Turcato, nelle tele non lavorate di Giorgio Griffa, nella straordinaria Superficie magnetica di Davide Boriani -opera che in nessun istante è uguale a se stessa-, negli ambienti in cui si entra per vivere con l’intero corpo delle esperienze visuali/percettive (ancora Boriani, Giovanni Anceschi, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi, Luciano Fabro), nell’imponente libreria dal titolo Scultura d’ombra di Claudio Parmiggiani, l’opera più recente tra quelle esposte (2010), fatta di fumo e di fuliggine (davvero, non è una metafora). E tutto questo testimonia -al di là di ogni ingenuo realismo delle filosofie classiche ma anche di alcune loro riproposizioni nel presente- che la mente umana vede forme e figure là dove ci sono soltanto macchie di colore e ammassi di atomi, testimonia che la Gestalt e quindi il senso non stanno nella materia ma nell’occhio che la guarda.

Contro il dominio della finanza

Riporto qui per intero il testo di padre Alex Zanotelli, che è possibile sottoscrivere sul sito de Il dialogo.
Vi si dice dove prendere i soldi, invece che rubarli ai cittadini che pagano le tasse, ai lavoratori dipendenti, ai pensionati, a servizi essenziali come la sanità, la scuola, i trasporti, la ricerca. Sottrarli ai nababbi parlamentari e alla loro pervicace sfrontatezza -come quella mostrata da alcuni deputati siciliani-, distoglierli dalle opere faraoniche e assurde come il ponte di Messina o l’alta velocità in Piemonte, pretenderli dal patrimonio immobiliare e dalle attività commerciali della chiesa romana che non pagano un euro di ICI, farseli restituire dagli evasori milionari che sono stati “scudati” dall’ineffabile Tremonti, prelevarli dalla immensa ricchezza speculativa che ci sta distruggendo. Dietro l’emergenza invocata da un governo nello stesso tempo incapace e banditesco c’è in realtà il tentativo di portare a compimento la privatizzazione dell’economia, il trionfo del liberismo più feroce, delle diseguaglianze più radicali. Spegnere l’economia e la società a favore della speculazione finanziaria mondiale. Questo è il significato di ciò che sta accadendo.

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In tutta la discussione nazionale in atto sulla manovra finanziaria, che ci costerà 20 miliardi di euro nel 2012 e 25 miliardi nel 2013, quello che più mi lascia esterrefatto è il totale silenzio di destra e sinistra, dei media e dei vescovi italiani sul nostro bilancio della Difesa. E’ mai possibile che in questo paese nel 2010 abbiamo speso per la difesa ben 27 miliardi di euro? Sono dati ufficiali questi, rilasciati lo scorso maggio dall’autorevole Istituto Internazionale con sede a Stoccolma (SIPRI). Se avessimo un orologio tarato su questi dati, vedremmo che in Italia spendiamo oltre 50.000 euro al minuto, 3 milioni all’ora e 76 milioni al giorno. Ma neanche se fossimo invasi dagli UFO, spenderemmo tanti soldi a difenderci!!
E’ mai possibile che a nessun politico sia venuto in mente di tagliare queste assurde spese militari per ottenere i fondi necessari per la manovra invece di farli pagare ai cittadini? Ma ai 27 miliardi del Bilancio Difesa 2010, dobbiamo aggiungere la decisione del governo, approvata dal Parlamento, di spendere nei prossimi anni, altri 17 miliardi di euro per acquistare i 131 cacciabombardieri F 35. Se sommiamo questi soldi, vediamo che corrispondono alla manovra del 2012 e 2013. Potremmo recuperare buona parte dei soldi per la manovra, semplicemente tagliando le spese militari. A questo dovrebbe spingerci la nostra Costituzione che afferma :”L’Italia ripudia la guerra come strumento per risolvere le controversie internazionali…”(art.11). Ed invece siamo coinvolti in ben due guerre di aggressione, in Afghanistan e in Libia. La guerra in Iraq (con la partecipazione anche dell’Italia),  le guerre in Afghanistan e in Libia fanno parte delle cosiddette “ guerre al terrorismo”, costate solo agli USA oltre 4.000 miliardi di dollari (dati dell’Istituto di Studi Internazionali della Brown University di New York). Questi soldi sono stati presi in buona parte in prestito da banche o da organismi internazionali. Il governo USA ha dovuto sborsare 200 miliardi di dollari in dieci anni per pagare gli interessi di quel prestito. Non potrebbe essere, forse, anche questo alla base del crollo delle borse? La corsa alle armi è insostenibile, oltre che essere un investimento in morte: le armi uccidono soprattutto civili.
Per questo mi meraviglia molto il silenzio dei nostri vescovi, delle nostre comunità cristiane, dei nostri cristiani impegnati in politica. Il Vangelo di Gesù è la buona novella della pace: è Gesù che ha inventato la via della nonviolenza attiva. Oggi nessuna guerra è giusta, né in Iraq, né in Afghanistan, né in Libia. E le folle somme spese in armi sono pane tolto ai poveri, amava dire Paolo VI. E da cristiani come possiamo accettare che il governo italiano spenda 27 miliardi di euro in armi, mentre taglia 8 miliardi alla scuola e ai servizi sociali?
Ma perché i nostri pastori non alzano la voce e non gridano che questa è la strada verso la morte?
E come cittadini in questo momento di crisi, perché non gridiamo che non possiamo accettare una guerra in Afghanistan che ci costa 2 milioni di euro al giorno? Perché non ci facciamo vivi con i nostri parlamentari perché votino contro queste missioni? La guerra in Libia ci è costata 700 milioni di euro!
Come cittadini vogliamo sapere che tipo di pressione fanno le industrie militari sul Parlamento per ottenere commesse di armi e di sistemi d’armi. Noi vogliamo sapere quanto lucrano su queste guerre aziende come la Fin-Meccanica, l’Iveco-Fiat, la Oto-Melara, l’Alenia Aeronautica. Ma anche quanto lucrano la banche in tutto questo.
E come cittadini chiediamo di sapere quanto va in tangenti ai partiti, al governo sulla vendita di armi all’estero (Ricordiamo che nel 2009 abbiamo esportato armi per un valore di quasi 5 miliardi di euro).
E’ un autunno drammatico questo, carico di gravi domande. Il 25 settembre abbiamo la 50° Marcia Perugia-Assisi iniziata da Aldo Capitini per promuovere la nonviolenza attiva. Come la celebreremo? Deve essere una marcia che contesta un’Italia che spende 27 miliardi di euro per la Difesa.
E il 27 ottobre sempre ad Assisi , la città di S. Francesco, uomo di pace, si ritroveranno insieme al Papa, i leader delle grandi religioni del mondo. Ci aspettiamo un grido forte di condanna di tutte le guerre e un invito al disarmo.
Mettiamo da parte le nostre divisioni, ricompattiamoci, scendiamo per strada per urlare il nostro no alle spese militari, agli enormi investimenti in armi, in morte
Che vinca la Vita!

Alex Zanotelli
Napoli, 24 agosto 2011

Materia prima

Materia prima. Russkoe bednoe.
“L’arte povera” in Russia
A cura di Marat Gelman
Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
Sino all’11 settembre 2011

 

Che cosa è l’arte? Temibile domanda. Una di quelle alle quali sembra impossibile rispondere anche perché le risposte possono essere -e sono- le più diverse nel tempo, nello spazio, nella concezione delle cose. Mi limito a un tentativo fenomenologico/kantiano -per nulla originale, naturalmente: l’arte è qualcosa che l’occhiomente umano vede e produce nella materia. Tutto può dunque essere o diventare arte? Sì, tutto. Sta qui la grandezza estetica del Novecento e del XXI secolo. Nell’aver affrancato il fare artistico non soltanto dai suoi contenuti ma anche dai suoi materiali. Qualunque oggetto può diventare un luogo di bellezza, di qualsiasi cosa sia composto. Perché l’arte è proprio poiesis, come sapevano i Greci, è il fare dell’artista-artigiano che plasma la materia e -soprattutto- la reinterpreta. Lo spazio dell’arte è dunque  la mente umana.

È per questo che la mostra del PAC mi è sembrata sublime. Perché scarti da robivecchi, parti di sedie, letti, officine e chissà cos’altro possono diventare dei magnifici scheletri di animali, verosimiglianti e armoniosi (Olga & Alexandr Florenskye). Perché dei pezzi di legno qualsiasi, di quelli che servono per il camino, formano una sfera aperta, perfetta e gloriosa che Petr Belyi ha chiamato “Silenzio”; lo stesso legno, un poco più lavorato, si fa libri e insieme libreria, intitolata giustamente “Libreria Pinocchio”. Carbone e resina si plasmano in forma di scarpe, aerei, pistole, teschi, come quelli che un archeologo potrebbe ritrovare tra milioni di anni su una Terra abbandonata ormai dai viventi (Vladimir Anzelm). Con brandelli di copertoni, il materiale forse meno estetico che ci sia, Vladimir Kozin inventa di tutto: camicie, lamette di rasoio, il teschio di diamanti di Damien Hirst, un gigantesco logo della Pravda. Il gruppo dei Sinie Nosy (nasi blu) reinterpreta in chiave culinaria alcuni dei dipinti/manifesto del suprematismo; è così che il celebre “Batti i bianchi con il cuneo rosso” di El Lissitzky diventa una fotografia dove un bel pezzo di formaggio si incunea sopra una fetta di mortadella. A proposito di fotografie, la mostra rende omaggio ad Aleksandr Sljusarev le cui immagini metafisiche ritraggono oggetti e luoghi banali restituendone tutta l’enigmatica e profonda bellezza, capace di trasformare finestre, pareti scrostate, panchine, muri, tubi, ombre, in elementi di composizioni simili ai quadri di Mondrian.

Leonid Sokov in “Tempo forgiato” costruisce una linea architettonica del tempo che parte da Stonehnge e dalle Piramidi per arrivare ai più vertiginosi grattacieli contemporanei. Aleksandr Brodsky con la sua argilla non cotta -e quindi destinata presto a sbriciolarsi- crea intanto oggetti e luoghi di sottile suggestione; Brodsky è anche l’autore della grande “Rotonda” che accoglie i visitatori all’esterno del PAC, una struttura nella quale si può entrare e abitare.

Molto altro si gode in questa mostra -antichi bagni di legno, diamanti fatti di piastrelle, biancheria in ferro, echi dell’eresia degli albigesi che adoravano il pane- ma ciò che più di tutto mi ha coinvolto è l’aere perennius dell’arte che lega l’antico e il contemporaneo nelle colonne e trabeazioni in gommapiuma di Nikolay Polissky e soprattutto nelle opere di Valery Koshlyakov, capace di creare con il cartone dei dipinti raffiguranti archi romani, fori di città pagane, piazze rinascimentali o novecentesche e -infine- un “Piede di gigante” che potrebbe stare nella Rodi antica come nelle installazioni di Mitoraj; di fronte a questa scultura in semplice cartone e polistirolo da imballaggio si sente la potenza dei millenni.

Le immagini che ho inserito non rendono in alcun modo il fascino delle opere ma meglio di niente.

 

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