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Spie e spettacolo

In Europa fanno tutti gli ingenui, come se non sapessero dell’enorme potenza di controllo degli Stati Uniti d’America su ogni gesto, parola, decisione dei nostri popoli e dei governi che li hanno svenduti.
E quand’anche? Il signore non ha forse diritto a controllare il proprio maggiordomo?
Se non si vuole subire la sorte dei servi bisogna togliersi la livrea, non lamentarsi perché il padrone ti guarda.
«Mais l’ambition la plus haute du spectaculaire intégré, c’est encore que les agents secrets deviennent des révolutionnaires, et que les révolutionnaires deviennent des agents secrets».
(Guy Debord, Commentaires sur la société du spectacle [1988], Gallimard 1992, § IV, p. 25)

 

L’ipocrisia, immensa

Pochi eventi sono più patetici delle lacrime a comando, della commozione indotta dai grandi media. Si piange sui morti, ci si emoziona sul tragico destino di uomini, donne, bambini. Si ascoltano senza reagire, o persino approvandoli, i discorsi dei decisori politici che con le loro azioni, leggi, provvedimenti hanno contribuito a produrre quei morti e quelle tragedie ma che affermano compunti, convinti e indignati: «Mai più!». Poi si ritorna alle proprie faccende, confortati dall’essersi mostrati a se stessi persone sensibili, solidali e -aggettivo che non guasta mai- «democratiche».

Pochi che si chiedano “perché?”. Perché milioni di esseri umani di qualunque età e condizione lascino la terra in cui sono nati, le tradizioni, gli affetti, i familiari. E lo facciano sottoponendosi a spese, illegalità, rischi mortali. Perché? Perché lo fanno?
Le ragioni principali sono due: la miseria e la guerra.

La miseria creata dalle guerre, la guerra generata anche dalla miseria. Ma perché c’è una tale miseria? La ragione principale la espose con chiarezza George Bush jr. quando affermò che «il tenore di vita degli americani non è negoziabile». Gli altri popoli possono anche morire di fame e di stenti ma il tenore di vita degli statunitensi deve rimanere alto e anzi crescere, anche a costo della distruzione ambientale del pianeta. I governanti europei aderiscono alla stessa visione del mondo di Bush (e del suo successore, naturalmente), vale a dire credono che il capitalismo ultraliberista che sta conducendo i popoli alla miseria sia un dato naturale, «non negoziabile». E lo credono e lo ribadiscono anche i governanti italiani, Napolitano e Letta in primis. È quindi del tutto strumentale e finta la richiesta rivolta «all’Europa» di intervenire. “Intervenire” su che cosa? Sui meccanismi finanziari internazionali che producono immensa miseria per molti e immensa ricchezza per pochi? Intervenire sulle decisioni di organismi di diritto privato e da nessuno eletti -come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea, le agenzie di rating- ma che sono diventati i veri padroni dei governi politici, i quali sono ormai dei governi fantoccio? Intervenire sul modo di produzione capitalistico e sulla globalizzazione economico-finanziaria, vere cause della miseria che provoca i morti nelle acque del Mediterraneo?

La guerra infesta molte aree del mondo, tre le quali l’Iraq, la Siria, il Corno d’Africa. Pochi si chiedono chi produca e venda le armi con le quali gli africani si massacrano reciprocamente. Uno dei maggiori centri di produzione è costituito dalle fabbriche in provincia di Brescia. Uno dei maggiori esportatori -legali- è il governo italiano, con alcuni dei suoi ministeri a sostegno delle molte aziende italiane del settore. Se le guerre cessassero, o anche solo diminuissero, le fabbriche europee e italiane di armi rischierebbero di chiudere moltiplicando il numero dei disoccupati. Qual è la posizione dei partiti al governo, dei partiti all’opposizione, dei sindacati, su questa prospettiva? Meglio gli eritrei, i sudanesi, i libici in pace e le fabbriche italiane chiuse o meglio i morti e le fabbriche di armi aperte?

Sino a che decisori politici, mezzi di comunicazione, sindacati e partiti non si porranno queste domande, sino a che non agiranno di conseguenza, ogni lacrima, ogni discorso, ogni slogan, ogni decisione parlamentare saranno espressione della doppiezza, dell’ipocrisia e del cinismo.
Quello stesso cinismo che fa spargere fiumi di retorica sui morti e nello stesso tempo inquisisce i sopravvissuti. Quello stesso cinismo che induce il prefetto di Agrigento a inviare una nave per trasferire le bare da Lampedusa senza neppure avvertire i parenti, che stamattina hanno pianto anche perché non hanno più trovato i resti dei loro cari.
La commozione è soltanto l’altra faccia della ferocia.

 

L’Oppio

«I sovietici leggevano la Pravda, ma non le credevano. Gli italiani guardano la televisione e le credono». Sta qui una delle spiegazioni della condizione oppiacea dentro la quale noi italiani continuiamo a dormire mentre altrove -come in Grecia, in Spagna o in Turchia, dove sembra sia iniziata la «Rinascita mentale di un popolo consapevole di aver perso molti diritti che vuole riacquistare al più presto, a qualsiasi costo»- c’è almeno un tentativo di ribellione contro la dittatura liberista. In Italia no. Il coro universale che dalla destra e dalla sinistra politico-mediatiche investe ogni giorno e a tutte le ore la vista, l’udito, la mente dei cittadini italiani canta la responsabilità, la serietà, l’onestà del potere democratico-berlusconiano. Canto maligno di sirene che interpreta artatamente ogni parola e comportamento dell’unico movimento che a tale squallore tenta di opporsi.
A me sembra persino moderato il linguaggio di Grillo nei confronti dei giornalisti, categoria -con le dovute e proverbiali eccezioni- di fronte alla quale ogni prostituta conserva un’indefettibile dignità. Costoro, infatti, vendono qualcosa di ancora più personale degli organi genitali: vendono il proprio pensiero. Assunti come praticanti, debbono abituarsi sin dall’inizio a non indagare e a non criticare se non chi e che cosa i loro direttori vogliono che venga indagato e criticato. Servilismo e non pensiero diventano in tal modo un habitus della persona che scrive sotto dettatura del potere. Quando la parola del giornalista si coniuga all’immagine televisiva, il mondo si dissolve nell’ermeneutica del potente, quella che permette ancora a milioni di italiani di credere che Berlusconi non sia un delinquente e che il Partito Democratico sia di sinistra.
La Democrazia è fatta di almeno quattro elementi: divisione dei poteri, eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, elezioni libere e segrete, informazione indipendente da chi governa. In Italia si vota periodicamente e in modo -più o meno- segreto ma gli altri tre elementi sono assenti. L’Italia è quindi un Paese fintamente democratico. La parossistica dipendenza che il nostro popolo nutre verso la televisione è anche il bisogno di un’autorità che dica cosa si deve pensare e come si deve vivere. La televisione è forse la meno percepita ma anche la più dura smentita della democrazia. Di un sistema che necessariamente presuppone il desiderio di vivere liberi e la capacità di esserlo da parte di qualsiasi individuo. Ma non è così: chi è servo cercherà sempre un padrone, ne va della sua stessa identità. Con il progressivo tramonto delle autorità religiose, ideologiche, scientifiche, tale bisogno trova pieno appagamento nello schermo televisivo: nuovo oracolo, divinità all’apparenza poco esigente, la si gratifica con uno dei più antichi segni di sottomissione, l’ipse dixit: “L’ha detto la televisione”.
In questo niente, in questo vuoto colorato e costante, tramonta la capacità di pensare e annega con essa ogni libertà. La miseria del dominio catodico va individuata e distrutta. Si tratta di un passaggio necessario per individuare e distruggere la masnada di banchieri criminali che, con l’aiuto della televisione, governa l’Italia e l’Europa.

Misura e hýbris nell’architettura

L’architettura del Mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi
Palazzo della Triennale  – Milano
A cura di Alberto Ferlenga
Sino al 10 febbraio 2013

Uno dei versi più celebri e importanti di Giacomo Leopardi non è suo ma è una citazione da un entusiastico testo che Terenzio Mamiani aveva dedicato alle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità (La ginestra o il fiore del deserto, v. 51). L’architettura del Novecento è stata, ha voluto essere, una delle più esplicite manifestazioni di questo ottimismo. Progettare Innovare Costruire l’esistenza dei singoli e della nazioni in vista di una razionalizzazione assoluta del corpo sociale e dei suoi desideri, questo è uno dei significati che il lavoro architettonico ha rivestito e tuttora riveste.
Non a caso Guy Debord dedica un capitolo de La Société du Spectacle all’«aménagement du territoire», all’architettura e all’urbanesimo. Debord sostiene che «l’urbanisme est cette prise de possession de l’environnement naturel et humain par le capitalisme qui, se développant logiquement en domination absolue, peut et doit maintenant refaire la totalité de l’espace comme son propre décor» (Gallimard, Paris 1992, § 169, p. 165). Discutendo del classico studio di Lewis Mumford su The City in History: Its Origins, Its Transformations, and Its Prospects (1961), aggiunge che «le mouvement général de l’isolement, qui est la réalité de l’urbanisme, doit aussi contenir une réintégration contrôlées des travailleurs, selon les nécessités planifiables de la production et de la consommation. L’intégration au système doit ressaisir les individus isolés en tant qu’individues isolés ensemble» (Ivi, § 172, pp. 166-167).
Direi che questa ampia e istruttiva mostra è un’efficace illustrazione del bisogno che architettura e potere hanno di integrare gli individui in una solitudine collettiva.
Una prima sezione documenta con progetti tecnici e portfolio fotografici alcune delle realizzazioni che tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo hanno trasformato città e natura attraverso nuovi ponti, stazioni, metropolitane, porti, aeroporti, riusi del già costruito. Si nota in pressoché tutti questi progetti un disperato bisogno di oltrepassare la pesantezza del cemento. Un risultato tra i più belli e rispettosi è il Concrete Bridge che a Ebnit (Austria) realizza una continuità del tutto naturale tra la pietra, l’acqua e il cemento; stupefacente anche la National Tourist Route che in Norvegia consente delle magnifiche visioni in mezzo ai fiordi; davvero notevole -nella sua apparente semplicità- anche il passaggio pedonale che a Halsteren (Olanda) permette di oltrepassare un canale tagliandolo in due e dando l’impressione che i pedoni attraversino le acque.
La seconda sezione è dedicata all’Italia. Vi emerge con chiarezza il predominio di grandi opere costose, distruttive, superflue. Vi si dice, giustamente, che «in un paese come l’Italia in cui il paesaggio rappresenta una risorsa economica rilevante […] le infrastrutture non tengono sufficientemente conto della frequente presenza di un paesaggio eccezionale. […] Per progetti di tale portata sono necessari processi decisionali e operativi dal basso verso l’alto». E che nonostante tutto si possa agire per obiettivi più razionali rispetto alla hýbris che intesse di sé il Ponte di Messina, il MOSE di Venezia, il TAV franco-piemontese, è dimostrato -ad esempio- dal Minimetro di Perugia o dal rinnovamento della Ferrovia della Val Venosta in Alto Adige.
Con un’inversione assai significativa rispetto alla forma mentis architettonica degli anni Sessanta, si fa un vero e proprio elogio della lentezza, vi si parla -appunto- di «infrastrutture lente» che abbandonino il mito della velocità (quantità) a favore della qualità del muoversi e dello stare.

La terza e ultima sezione è la più affascinante e inquietante. Alcuni grandi schermi illustrano il «gigantismo delle infrastrutture planetarie e della bulimia progettuale» che nel Novecento ha indotto il potere sovietico, soprattutto con Stalin, a realizzare immense opere dagli Urali al Mar Caspio e alla Siberia; ha indotto il potere statunitense a colonizzare anche gli ambienti più difficili e ostili del continente nordamericano; ha indotto Gheddafi a costruire fiumi artificiali che in Libia portassero acqua dalle profondità dei deserti alla costa. E indusse l’architetto espressionista Herman Sörgel a progettare negli anni Venti la chiusura del Mediterraneo con delle ciclopiche dighe in modo da favorire l’evaporazione delle sue acque e abbassare il livello del bacino di un centinaio di metri. In questo modo si sarebbe ottenuta energia  e si sarebbe creato un territorio del tutto nuovo, con la Sicilia collegata alla Calabria e molto più vicina all’Africa, con le isole greche diventate un insieme unico e così via. Il nome di questo nuovo spazio sarebbe stato Atlantropa. Un gigantismo prometeico che il futuro ha ridimensionato e che oggi può invece rivolgersi ad obiettivi più rispettosi della Terra. Tra questi il progetto di un impianto che potrebbe utilizzare 20.000 km2 del Sahara per produrre energia sufficiente per l’intero pianeta. Un’energia pulita nella sua fonte: il Sole.
In ogni caso, si fa strada la consapevolezza che una «conoscenza globale» deve essere sensibile «alle differenze che ogni luogo esprime». Olismo e differenza possono costituire due delle parole chiave di un’architettura che alle sorti magnifiche e progressive sostituisca la misura del limite che siamo.

Realtà / Simulacro

Quanti pensano che si dia una realtà del tutto autonoma dalla semantica e dalla comunicazione non comprendono che il virtuale e lo spettacolare delle società contemporanee costituiscono  «il capitale a un tale grado di accumulazione da diventare immagine» (Guy Debord, La société du spectacle, Gallimard, 1992 [1967], § 34). Per parafrasare Horkheimer e Adorno, la terra tutta virtuale splende all’insegna di sventurata realtà. La vita è diventata riproduzione di figure dietro e dentro le quali non si dà nulla se non la perpetuazione del dominio di chi possiede gli strumenti della rappresentazione rispetto a chi non li detiene. Perché «lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediatizzato da immagini»; soggetti ed eventi che non si fanno spettacolo è come se non esistessero, e questo fa sì che lo spettacolo non sia «un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell’irrealismo della società reale» (Ivi, §§ 4 e 6). La fine dell’illusione produce un mondo di immagini nel quale non c’è niente da vedere, un mondo di informazioni in cui non c’è nulla da sapere.

È rimuovendo la realtà/simulacro che diventa possibile comprendere la potenza della realtà materiale e semantica dentro la quale si dà l’accadere. Se la regola dello scambio è di restituire sempre più di quanto si è ricevuto, allora rendere il mondo un po’ più libero significa anche renderlo più inintelligibile di quanto non ci sia stato dato; significa sostituire alla realtà della comunicazione servile l’irrealtà di progetti che esistono tra il già e il non ancora; significa fare dell’interpretazione un luogo di invenzione trasformatrice che dissolva la realtà; significa, in un parola, non rassegnarsi. In questo modo il costruzionismo e l’ermeneutica mostrano la propria natura libertaria e più anarchica di qualunque ideologia realista, progressista e politicamente corretta, il cui umanitarismo è l’evidente gemello dell’oppressione, la cui volontà di delicatezza nasconde a stento la ferocia della realtà: «Ogni destino negativo dev’essere ripulito da un trucco ancora più osceno di quel che vuole nascondere», in modo da legittimare nella propria compiaciuta tranquillità interiore «tutti coloro che fanno abbronzare la loro coscienza tranquilla al sole della solidarietà» (Jean Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà, Raffaello Cortina Editore 1996 [1995], pp. 143 e 137). È anche su questi ex rivoluzionari, che hanno barattato le loro giovinezze radicali con la solidarietà caritatevole dei clericali di ogni chiesa, che il potere fa affidamento e gongola tranquillo.

Lo spettacolo si rivela come una forma economica che «non canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni» (La société du spectacle, § 66), una forma nella quale non troviamo ciò che desideriamo ma desideriamo ciò che ci inducono ad acquistare. Condizionati sin nell’intimo del loro pensare, inconsapevoli d’essere condizionati, vaganti tra illusioni, luccichii e menzogne, gli spettatori/consumatori sono il soggetto politico amorfo e passivo che Debord definisce con estrema chiarezza: si tratta di «morti che credono di votare» (Opere cinematografiche, Bompiani, 2004, p. 135), una morte che è consustanziale alle immagini che sopravvivono assai più a lungo di ciò che rappresentano. Ed è anche per questo che «lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente» (La société du spectacle, § 2). In questa società di zombie la democrazia è un simulacro. Il suffragio universale è diventato «il primo dei mass-media» in cui «propaganda e pubblicità si fonderanno sul medesimo marketing e merchandising di oggetti o di idee-forza», nel quale le differenze tra programmi e progetti si annullano mediante la distribuzione statistica del 50% per ogni coalizione, tanto che «il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo delle probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie. A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia –bisogna anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statistica è tanto maggiore» (Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, 2007 [1976], pp. 77 e 81). Baudrillard sintetizza tali dinamiche della politica contemporanea nella formula dura ma efficace «della leucemizzazione di tutta la sostanza sociale: sostituzione del sangue con la linfa bianca dei media» (Ivi, p. 79). Coinvolti in questa leucemizzazione, i partiti e i sindacati “rappresentanti dei lavoratori” sono in realtà diventati i loro nemici mentre –a livello di economia universale- il segno monetario si disconnette «da qualsiasi produzione sociale: esso entra allora nella speculazione e nell’inflazione illimitata» (Ivi, p. 35). È esattamente quanto sta accadendo -anche con l’euro- negli anni Dieci del XXI secolo.

Terrorizzati

Fremono, complottano, tremano, strepitano, sognano percentuali, propongono cifre a un tempo grottesche, insensate e oligarchiche -il 42,5%- come condizione per ottenere alle elezioni il premio di maggioranza. Non pensano ad altro, insomma, che a neutralizzare la democrazia, a rendere ancora una volta nulla la volontà dei cittadini italiani, giusta o sbagliata che sia. E questo dopo che per cinque anni si sono tenuti ben stretta la pessima legge che ha contribuito a eleggerli. Non ci avrebbero neppure pensato se ogni giorno che passa non crescesse la possibilità di non essere rieletti nel prossimo parlamento. E dunque di perdere tutto ciò su cui hanno puntato e investito per ottenere prebende, privilegi, vitalizi, soldi, autorità.
Per quanto mi riguarda, la democrazia rappresentativa è un fantasma di libertà e, se proprio si vuole votare, meglio un sistema proporzionale puro o con sbarramento minimo al 2% e nessun premio di maggioranza, in modo da garantire la rappresentanza di molti dei ceti sociali, delle visioni del mondo, dei legittimi interessi che formano il corpo collettivo. Ma ora che vedo queste orde di deputati e senatori composte per lo più da analfabeti, mafiosi e puttane, questi sciami di cialtroni che se non fossi animalista paragonerei a delle cavallette che stanno depredando la nazione, ora che li vedo terrorizzati di fronte alla prospettiva che in parlamento arrivino persone incensurate, persone che non facciano della politica un mestiere e dunque non si ricandidino dopo due mandati, persone che si impegnano a rendere conto al corpo sociale di ciò che decidono e di come operano, persone quindi molto diverse da loro, ora mi sembra che si debba rispettare “il monito dell’Europa” quando chiede ai Paesi membri che «gli elementi fondamentali del diritto elettorale, e in particolare del sistema elettorale, la composizione delle commissioni elettorali e la suddivisione delle circoscrizioni non devono poter essere modificati nell’anno che precede l’elezione, o dovrebbero essere legittimati a livello costituzionale o ad un livello superiore a quello della legge ordinaria» (Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto, Codice di buona condotta in materia elettorale, pag. 10).
I “democratici ed europeisti” Napolitano e Monti non hanno nulla da dire di fronte allo sconcio di una legge elettorale pensata contro qualcuno -come esplicitamente ammesso da Renato Schifani, presidente del Senato- invece che a favore della volontà popolare? No, qualcosa dicono. Auspicano, difendono e sostengono lo sconcio. La verità è che pur con i suoi limiti il Movimento 5 Stelle adotta un metodo ultrademocratico nella scelta dei candidati. Che la grande stampa e la televisione convincano molti italiani del contrario è la conferma che il potere nelle società contemporanee è un potere mediatico. Anche per questo spero che il Movimento 5 Stelle rimanga intransigente nel proibire ai suoi rappresentanti di partecipare a programmi televisivi dove i giornalisti si pongono al servizio dei potenti.
Per molto tempo ho condiviso il giudizio nietzscheano sulla Rivoluzione francese come «orgia della mediocrità» (Frammenti postumi 1887-1888, 9 [116]) ma ora comprendo sempre più come una somma insostenibile di privilegi, di arroganza e di ingiustizie si possa spezzare soltanto attraverso la violenza e il sangue. Avevo due rimpianti nella mia vita. Adesso se ne aggiunge un terzo: temo che non vedrò mai rotolare le teste dei banditi che depredano l’Italia. Ma vederli perdere il loro titolo di “onorevole”, con i privilegi ai quali si accompagna, quello almeno sì.

Imperialismo

Poche cose sono emblematiche della servitù di un individuo e di un popolo come il prendere posizione per l’uno o per l’altro di due padroni, le cui differenze sono per quell’individuo e per quel popolo irrilevanti. Il coro dell’atto III dell’Adelchi è assai efficace nel descrivere tale situazione.
Che dunque a vincere le imminenti elezioni che designeranno il rappresentante legale del sistema finanziario e militare statunitense sia il guerrafondaio premio nobel per la pace Barack Obama o il plurimiliardario cristiano-mormone e ultraliberista Mitt Romney, la politica statunitense verso il resto del mondo rimarrà quella ben esemplificata da Hiroshima, dal Vietnam, dalla distruzione dell’Iraq, dell’Afghanistan e della Libia, dal terrorismo che sta colpendo la Siria.
Ed Husain, analista del Council on Foreignis Relations -uno degli istituti di ricerca che elaborano la strategia statunitense verso gli altri Paesi- scrive che «i ribelli siriani oggi sarebbero incommensurabilmente più deboli senza Al Qaeda. I battaglioni dell’esercito libero siriano (Fsa) sono stanchi, divisi, confusi e inefficaci. Si sentono abbandonati dall’Occidente e sempre più demoralizzati mentre affrontano la potenza di fuoco superiore e l’esercito professionista del regime di Assad. L’arrivo di jihadisti di Al Qaeda porta disiciplina, fervore religioso, esperienza bellica dalle battaglie in Iraq, finanziamenti dai simpatizzanti nel Golfo e soprattutto risultati letali. […] In breve, l’Fsa ha bisogno di Al Qaeda ora» (Fonte: www.cfr.org/syria/al-qaedas-specter-syria/p28782 ).
Questo significa, commenta Francesco Labonia su Indipendenza, (anno XVI, n. 32, pp. 30-35) che «Washington e i suoi alleati/subalterni NATO sostengono (con finanziamenti e forniture di armi) quella che per anni è stata dipinta come una Spectre planetaria, cioè al Qaeda», con la quale invece gli USA si sono adesso alleati allo scopo di annientare «l’ultimo Stato arabo laico caratterizzato da un pluralismo multiculturale, integrato con il riconoscimento degli stessi diritti alle varie religioni che si intrecciano nella complessità dei vincoli tribali-familiari», come vari esponenti cristiani che vivono in Siria confermano.

Nel flusso di menzogne che i media filoamericani diffondono «straordinario è il ruolo dell’influente Al Jazeera, di proprietà della famiglia regnante del Qatar. Ora, il Qatar è il regno di un piccolo satrapo di stampo feudale e teocratico. […] Il Qatar brilla per il fatto che non esiste alcun Parlamento, non vige alcuna Costituzione, non è ammessa l’esistenza di alcun partito e ovviamente non sono mai state indette, anche solo pro forma, consultazioni elettorali. La parola “diritti”, di qualsiasi natura, è semplicemente sconosciuta. La sua importanza le viene soprattutto dall’essere sede di una gigantesca base militare statunitense, considerata la più grande esistente fuori dagli Stati Uniti. […] Da questo emirato Al Jazeera lancia le sue crociate suppostamente democratiche d’interventismo militare in casa d’altri. Anche al prezzo di mistificazioni e falsificazioni colossali. […] Di democrazia è fantasioso parlare anche per altri Stati dell’area come gli Emirati Arabi Uniti l’Oman o la monarchia hashemita della Giordania o nello stesso Yemen. Per Al Jazeera (e non solo), però, è la Siria laica, multiconfessionale, non sottomessa e sovrana a dover essere democratizzata, cioè, come da relativa accezione linguistica euroatlantica,  dominata».
Tutto questo è non soltanto grottesco ma anche esemplare di una società -la società dello spettacolo- nella quale il dominio appartiene a chi controlla la comunicazione e l’informazione. Ancora una volta Orwell e Debord ci hanno insegnato l’essenziale.
Ma nonostante questa imponente propaganda della quale naturalmente tutti i media italiani, escluso in parte il manifesto, sono strumento e voce «quel che principalmente conta –e non è assolutamente cosa da poco– è che gran parte della società siriana sinora non si è piegata ed ha scelto la strada della resistenza, nelle diverse forme in cui la sta esprimendo. La migliore risposta che si possa dare all’oscurantismo di matrice salafita-alqaedico e alla sudditanza atlantica».
Tacito fa dire al generale caledone Calgaco «Auferre, trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant» (Agricola, 30, 7). Rubare, massacrare, rapinare. Questo, con falso nome, chiamano impero. Creano il deserto, e lo chiamano pace. E democrazia.

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