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Volontà di sapere

Teatro Greco – Siracusa
Edipo Re
di Sofocle
Traduzione di Francesco Morosi
Scene di Radu Boruzescu
Con: Giuseppe Sartori (Edipo), Rosario Tedesco (capo coro), Graziano Piazza (Tiresia), Paolo Mazzarelli (Creonte), Maddalena Crippa (Giocasta)
Regia di Robert Carsen
Sino all’1 luglio 2022

Pervaso dalla volontà di sapere, intriso della passione dell’indagare, ossessionato dal bisogno di fare luce. Così Edipo rovina se stesso e la propria casa. C’è qualcosa di estremo e arrogante in questa necessità di portare a evidenza ogni anfratto degli eventi. Un’esigenza di comprensione che si volge contro chi la nutre. Ma che è greca, profondamente greca. Uomini furono che vollero conoscere. E conobbero. E che di fronte a ciò che avevano appreso dissero parole talmente  chiare da essere sempre e ancora nostre, sempre e ancora vere nell’affermare che nessun umano potrà essere detto sereno sino a quando in lui pulserà ancora la vita (ὥστε θνητὸν ὄντα κείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ  μηδὲν ἀλγεινὸν παθών, vv. 1528-1530).
Il Tempo che vede tutto apre infine gli occhi a Edipo; Apollo, dio crudele, lo invade della propria luce di conoscenza; Necessità fa sì che ciò che deve accadere accada al di là anche del silenzio e delle parole di Tiresia. Convocare il quale è stato il primo gesto del lento processo di agnizione di Edipo. Tiresia gli consiglia di rinunciare a sapere, Giocasta gli consiglia di rinunciare a sapere, il vecchio servo che lo aveva tenuto in fasce gli consiglia di rinunciare a sapere. Ma Edipo, no. Edipo indaga. Si dichiara persona estranea ai fatti che condussero alla morte di Laio. Estraneo, lui. Si dice alleato del dio Apollo e del morto Laio. E fa luce. Una luce trionfale che gli regala un ultimo atto di gloria da parte della città che una volta ha salvato, un attimo intriso non a caso di Evoè, il canto vittorioso di Dioniso (è questo il momento colto nell’immagine in alto). Una luce straziante che lo farà tornare in scena completamente nudo, intriso del sangue dei propri occhi e di quello di Giocasta suicida.
Appaiono e scompaiono i sovrani -Edipo, Creonte, Giocasta- lungo l’alta scalinata che dalla piazza di Tebe ascende all’alto della reggia e degli dèi. Piazza dentro la quale appaiono nella scena iniziale i cittadini durante una processione luttuosa e fatta di nero. Processione scandita da una cadenza dell’oltre, l’oltre della morte e della vita.
Una scenografia essenziale e suggestiva, dunque. Nient’altro che la piazza e la grande scala. Per dare spazio alla voce di Sofocle, ai corpi degli attori, alla meditazione su quanto sia preferibile non essere nati e, una volta nati, morire bambini, come Edipo afferma e desidera al culmine del proprio destino.
Quest’uomo, questo re, non ha alcuna colpa, perché non sapeva di essere l’omicida di Laio e lo sposo di sua madre. Ma l’intenzione è un concetto che per i Greci conta ben poco. A pesare è il danno oggettivo che l’agire di Edipo ha inferto alla città, il danno oggettivo che chiunque può infliggere. È a motivo del danno che si deve essere neutralizzati, non della volontà di far male o far bene. La volontà è semplice e insindacabile psicologia, il danno è una realtà oggettiva.
Questo, alla fine, la luce portata da Edipo ci fa vedere. Nella volontà di sapere, per quanto dolorosi risultino i suoi esiti, splende in ogni caso la libertà dei Greci, la loro intelligenza rispetto alla bêtise contemporanea, alla stupidità di ogni sistema etico-linguistico che assurga a valore assoluto, che proibisca le parole e i loro significati a volte terribili. Stupidità dall’esito fatale: «Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare al massimo la possibilità del pensiero? Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno parole per esprimerlo. […] Ortodossia significa non pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza» (Orwell, 1984, trad. di G. Baldini, Mondadori 1989, pp.  56–57). Un’ortodossia che per i Greci è soltanto tenebra.

Il pendolare

The Commuter
(Titolo italiano: L’uomo sul treno)
di Jaume Collet-Serra
USA, 2018
Con: Liam Neeson (Michael Woolrich), Vera Farmiga (Joanna), Patrick Wilson (Murphy)
Trailer del film

Il titolo originale è, more solito, più espressivo di quello italiano. Michael Woolrich è infatti un pendolare che da dieci anni prende sempre lo stesso treno per andare al lavoro e ritorna sempre allo stesso orario. È un ex poliziotto che su quel treno conosce tutti. Adesso fa l’assicuratore ma una mattina, di colpo, viene licenziato. I problemi finanziari che già lo affliggono ne vengono esasperati e comincia a pensare che siano diventati irrisolvibili. Sul treno del mesto ritorno a casa spunta dal nulla una donna che gli dice dove trovare su quel convoglio 25.000 dollari. Ne otterrà altri 75.000 se individuerà un uomo e la sua borsa, segnalandoli a lei. Nient’altro. Michael è incredulo ma trova davvero il danaro e comincia la sua ‘missione’. La quale si rivela complessa, inquietante, mortale e foriera di dilemmi etici piuttosto profondi.
È questo il nucleo di valore del film. Il quale è per il resto il consueto thriller spettacolare nel quale le più inverosimili scene d’azione disegnano un protagonista che da assicuratore attempato sembra diventare una specie di superman. Dal punto di vista formale è interessante il fatto che la pellicola sia girata quasi per intero dentro un treno in corsa, nel quale abita una vera e propria antologia dell’umanità solitaria e bisognosa di relazione. È però del tutto inverosimile che una organizzazione capace di agire in tempi rapidissimi dentro e fuori dal treno per costringere Michael a continuare la sua ricerca non sappia trovare da sé la persona che cerca.
Ma torniamo ai dilemmi che rendono interessante il film. Joanna, l’enigmatica donna che fa la proposta a Michael, presenta la cosa come un tipico esperimento mentale: «Che tipo di persona è lei? Sino a che punto è disposto a spingersi per ottenere un vantaggio in cambio di una piccola azione che però non sa quali conseguenze avrà su un’altra persona?».
Per rispondere a tali domande è in realtà necessaria una metaetica, intesa come il tentativo di individuare le condizioni di possibilità e di significazione dei comportamenti umani. Non a partire dunque da credenze (religiose o di altra natura) o da sentimenti (psicologici o di altri ambiti) ma dall’analisi quanto più rigorosa possibile sia dei comportamenti sia delle espressioni linguistiche e semantiche che li descrivono.
A partire dalle condizioni date, e create di proposito dall’organizzazione che intende incastrarlo, la risposta del protagonista non poteva essere diversa da quella che è stata. E questo al di là delle sue credenze morali e della sua visione del mondo. Gli sviluppi della vicenda, certo, mostrano la complessità dei dilemmi etici che Michael deve affrontare e ai quali dà di volta in volta risposte diverse, sino a quella finale che risulta abbastanza artificiosa, ma essi filano veloci su dei binari prestabiliti, esattamente come quelli di un treno.
«Una foglia si staccò da un alto ramo, / disse: ‘Di cadere a terra io bramo’. / Il vento dell’ovest, alzandosi, la fece turbinare. / ‘A est’, disse, or mi dovrò orientare’. / Il vento dell’est s’alzò con maggior forza. / Quella disse: ‘Sarebbe savio cambiar la mia corsa’. / Con egual poter si svolse la lor contesa. / ‘La mia scelta è meglio lasciar sospesa’. / Si spensero i venti e la foglia, non più afflitta, / esclamò: ‘Ho deciso: cadrò giù dritta’» (Ambrose Bierce, da Il dizionario del diavolo [1911], cit. in D.M. Wegner, L’illusione della volontà cosciente, Carbonio Editore 2020, epigrafe).

Colpa / Danno

Recensione a:
Daniel Merton Wegner
L’illusione della volontà cosciente
(The Illusion of Conscious Will, Massachusetts Institute of Technology 2018)
Trad. di Olimpia Ellero
Carbonio Editore, 2020
Pagine 460
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
vol. 11, n. 3/2020
pagine 422-423

Del libro di Daniel Wegner avevo parlato qualche mese fa sul manifesto; sulla RIFP ho avuto più spazio e ho quindi cercato di far emergere ancor meglio il significato e il valore di un’indagine documentata, approfondita, pacata, che conferma -con gli strumenti della psicologia e della neurobiologia- le tesi metafisiche di Spinoza, secondo cui è libero l’ente il quale «ex sola suæ naturæ necessitate existit, & agit», costretto è invece quell’ente «quæ ab alio determinatur, ad existendum, & operandum certa, ac determinata ratione», consistendo la libertà  «non in libero decreto; sed in libera necessitate» (Lettera 58 a H.G. Schuller, 1674, in Tutte le opere, Bompiani, p. 2110).
Ogni ente infatti è determinato a esistere e ad agire per un insieme ben preciso di cause. «L’illusione della volontà cosciente» nasce dalla consapevolezza degli scopi per i quali si agisce e dall’ignoranza delle cause che spingono a indirizzarsi proprio verso quegli scopi e non altri.
Non c’è dunque merito nella rosa che profuma come non c’è colpa nell’escremento che puzza. Ciascuno agisce in modo conforme alla propria natura, al di là del bene e al di là del male.
Nonostante la naturale propensione a ritenere che i nostri gesti siano per lo più voluti da noi e che quelli che invece compiamo in automatismo siano una piccola parte, è vero esattamente il contrario, «l’automatismo è la regola, e l’illusione della volontà cosciente è l’eccezione» (Wegner, p. 188). Se ogni volta che ci muoviamo, rispondiamo a delle domande, interagiamo in tempo reale con gli altri e con l’ambiente dovessimo pensare a ciò che stiamo facendo e calcolare consapevolmente tutte le cause e implicazioni, di fatto non agiremmo più o il nostro agire sarebbe così lento da risultare vano. E dunque anche «chi erra non lo fa per cattiva volontà. Ciò non è concepibile per l’uomo greco, il quale non ha neppure il termine per indicare quel che noi chiamiamo volontà» (Walter F. Otto, Teofania. Lo spirito della religione greca antica, a cura di G. Moretti, Adelphi 2021, p. 72).
La questione teologico-giuridica diventa così quasi inestricabile, una volta che, rispetto ai Greci, si è privilegiata la colpa interiore e soggettiva invece del danno oggettivo che un’azione eventualmente produce: «gran parte dei timori relativi alle spiegazioni meccanicistiche del comportamento umano può essere fatta risalire alla cultura occidentale e alle sue ideologie religiose» (Wegner, p. 417), in particolare a quelle monoteistiche nelle quali il posto dell’anima individuale diventa preminente, se non totale. Ma anche l’anima è parte del tutto, inseparabile dalla complessità infinita degli eventi.

Servi

Étienne de La Boétie
Discorso sulla servitù volontaria
(Discours de la servitude volontaire o Contr’un)
Trad. di Fabio Ciaramelli
Chiarelettere,  2011
Pagine XXIII – 71

Ai pochi che amano davvero la libertà

La questione fu posta con chiarezza e ironia da d’Holbach: se «quella di strisciare è la più difficile delle arti» (Saggio sull’arte di strisciare a uso dei cortigiani, qui in Appendice, p. 65) perché un numero sterminato di esseri umani vi si sottomette? La risposta di questo classico libriccino di Étienne de La Boétie è molto chiara sin dal titolo: si tratta di volontà. Sta qui, in questa struttura psicosociale, la forza e la debolezza della riflessione di La Boétie (1530-1563), il quale è convinto che «per avere la libertà occorre solo desiderarla, è necessario un semplice atto di volontà» e che dunque sono «gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che col solo smettere di servire, sarebbero liberi. […] È il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca» (10). La posizione è talmente radicale da indurre l’autore alla seguente limpida formula: «Potete liberarvi senza neanche provare a farlo, ma solo provando a volerlo. Siate risoluti a non servire più ed eccovi liberi» (14).
Bisogna tuttavia chiedersi perché gli umani siano così facilmente spinti a rinunciare alla libertà e a sottomettersi. Il valore del testo consiste nel cercare di articolare alcune risposte a questa domanda.
Innanzitutto l’abitudine, la quale se «in ogni campo esercita un enorme potere su di noi, non ha in nessun altro campo una forza così grande come nell’insegnarci la servitù» (22). L’abitudine è a sua volta in gran parte fondata sull’educazione, che per La Boétie è in realtà «la prima ragione per cui gli uomini servono volontariamente» (32), educazione alla sudditanza che viene praticata sin dalla nascita. A tali elementi psicologici, familiari e ambientali si aggiungono quelli sociali, che consistono nelle strategie stesse del potere, prima delle quali è la distrazione, i ludi, i circenses, l’«aprire bordelli, taverne e sale da gioco» (35), oggi diremmo lo Spettacolo.
La Boétie accenna anche alla promessa e alla minaccia di paradisi e inferni nell’al di là e ai vantaggi, ai favori, al carrierismo e alle ricchezze che il servire comunque garantisce a chi ubbidisce con slancio e radicale sottomissione.

Il quadro fornito dal Discours è molto efficace nel disegnare i pericoli, gli svantaggi, l’incertezza e la sciagura del servire i potenti, la cui azione è sempre caratterizzata da imprevedibilità e arbitrio, proprio perché al potere è essenziale far vivere nell’insicurezza i sottomessi: «È un’estrema disgrazia esser soggetti a un padrone della cui bontà non si può mai esser sicuri poiché ha sempre il potere d’incattivirsi a proprio piacimento» (4). Se nonostante questo i singoli e le collettività si pongono al servizio di persone quasi sempre tanto rozze quanto feroci, sino a rinunciare più o meno integralmente alla libertà, che è un bene «così grande e piacevole, tanto che quando viene perduta si produce ogni male, e gli stessi beni che dopo la sua scomparsa permangono perdono interamente il loro gusto e sapore, corrotti come sono dalla servitù» (12), le ragioni debbono essere altrettanto radicali e non limitarsi al piano superficiale della volontà. Una tra le cause più importanti è la catena del comando, che così viene efficacemente descritta dall’autore:

Sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno […] come complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi piaceri, ruffiani delle sue dissolutezze e soci delle sue ruberie. […] Quei sei hanno poi sotto di loro altri seicento approfittatori, che si comportano nei loro riguardi così come essi stessi fanno col tiranno. Quei seicento ne hanno sotto di loro seimila, cui fanno fare carriera. […] Dopo costoro, ne viene una lunga schiera, e chi vorrà divertirsi a sbrogliare questa rete vedrà che non sono seimila, ma centomila, ma milioni che grazie a questa corda sono attaccati al tiranno, e si mantengono a essa. […] Insomma, grazie a favori o vantaggi, a guadagni o imbrogli che si realizzano con i tiranni, alla fin fine quelli cui la tirannide sembra vantaggiosa quasi equivalgono a quelli che preferirebbero la libertà (44-46).

Il riferimento storico costante di La Boétie è naturalmente la monarchia, il potere monocratico la cui volontà è legge, lo Stato in cui non si dà divisione e bilanciamento dei poteri, dove i corpi sociali non godono di autonomia, almeno formalmente. Non a caso vi si parla sempre del tiranno. Questo non vuol dire che il discorso non sia e non rimanga di costante attualità anche per le democrazie contemporanee, la cui fragilità si mostra evidente nell’attuale frangente di sospensione dei diritti elementari, come quello di muoversi nello spazio urbano, di incontrare i propri affetti, di piangere i morti. Neppure i regimi totalitari del Novecento si erano spinti a tanto.
Il modello di La Boétie è invece la storia greca, con la sua passione per la libertà durata secoli: «In quei giorni gloriosi non ebbe luogo la battaglia dei Greci contro i Persiani, quanto piuttosto la vittoria della libertà sul dominio, dell’indipendenza sulla cupidigia» (9).
Il dramma del potere, la sua forza, sta anche nella complessità della natura umana e delle relazioni che individui e società intessono tra di loro. Per abbattere “il Tiranno”, i cui esemplari la storia umana sforna di continuo, bisogna prima di tutto comprendere il labirinto dell’autorità, senza illudersi di percorrere  scorciatoie psicologiche come quelle fondate sul primato cristiano della volontà, alla quale La Boétie concede troppo spazio.

Se la servitù appare così spesso “volontaria” è anche perché essa si radica nella necessità della salvaguardia dei corpi individuali e collettivi. Salvaguardia certo apparente, visto che il potere è per sua natura una macchina stritolatrice, il cui obiettivo non è la salute del corpo sociale ma la perpetuazione degli organi di dominio.
Gli umani sono dunque pronti alla «servitù volontaria», anche quando possiedono consapevolezze e competenze culturali. A che cosa è valso indagare e mostrare significato e necessità dei riti funerari in antiche culture se poi si accetta la negazione di tale significato e di tale necessità nel presente? A che cosa è valso conoscere la relatività dei paradigmi scientifici se poi si obbedisce all’ipse dixit di ‘esperti’ tra di loro in perenne e totale conflitto? A che cosa è valso dedicarsi agli studi su Marx, Nietzsche, Foucault, Canetti, Deleuze se poi si obbedisce in modo convinto e completo alle ingiunzioni di un’autorità confusa e contraddittoria, che nasconde i nomi dei propri ‘consulenti’ e manipola numeri, scenari, terrori? Tanto valeva leggere Sorrisi e Canzoni TV.
È la paura del morire che sta a fondamento della pervasività del potere. Quando l’autorità prospetta il rischio della morte se si disattendono i suoi comandi, la probabilità di essere obbediti cresce esponenzialmente. È per questo che ogni epidemia diventa un dono per chi comanda, una vera e propria manna, che sia discesa dal cielo, fuggita da laboratori, germinata dalla terra e dalla sua potenza. Un’epidemia infatti dissolve con il suo stesso nome i corpi collettivi nei quali la socialità si organizza, cancellando la serie di elementi ricchi, complessi, plurali nei quali il vivere consiste. 

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