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Ntorni p’intorni lei annammurari

I Cantori di Carpino
Per amare questa donna
(2004)

Non è la «Tarantella del Gargano», titolo con il quale in altre versioni è per lo più nota. Nella esecuzione e con la voce di Andrea Sacco (1911-2006) il canto Per amare questa donna diventa un sudario magico della passione; un inno sillabato in lingue molteplici, sconosciute e incomprensibili; un puro significante ritmico senza significato che non sia il ritmo stesso che sgorga dalle terre mediterranee, dal mare, da millenarie tradizioni nelle quali il canto è stato uno dei pochi strumenti per accedere al «piccolo rustico paradiso della musica, della danza e dei colori» (Ernesto De Martino, La Terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, a cura di Marcello Massenzio, Einaudi 2023, p. 175).
Nel desiderio rivolto a questa donna c’è qualcosa insieme di felice, di struggente e di ctonio.

Comma dei fari pì amà sta donni?
Di rose dee fare nu bellu ciardini
Nu bellu ciardini
Ntorni p’intorni lei annammurari
Di prete preziosi e ori fini
Mezzo ce la cava na brava funtani
Na brava funtani
E ja ja ca corri l’acqua surgentivi
L’acqua surgentivi
Ncoppa ce lu mette n’auciello a ccantari
N’auciello a ccantari
Cantava e repusava: bella diceva
Pì voi vò addivintare un aucello
Pe farimi nu sonno accanto a voi bella madonna
Me l’ha fatto annammurà
La cammenatura e lu pparlà
Si bella tu nun ci ivi
Annammurà nun me facivi.
Ah pi nciuè
Sta ncagnata che vuò da me?
Mammeta lu ssape e tu vò dice pure a tte.

[Come devo fare per amare questa donna? / Di rose devo fare un bel giardino. / Tutto intorno per innamorare lei / Di pietre preziose e oro fino / In mezzo ci metto una bella fontana / Dove scorre l’acqua sorgente / Sopra ci metto un uccello a cantare / Cantava e riposava: bella diceva / Per voi sono diventato un uccello / Per farmi un sogno accanto a voi bella madonna / Mi ha fatto innamorare / La sua andatura e il suo parlare / Se bella tu non ci andavi / Innamorare non mi facevi / Ah pi nciuè / Questa arrabbiata che vuole da me? / Tua madre lo sa e lo voglio dire pure a te]

Mongolia

Cascina Linterno – Milano
Urna
Ciclo «La musica dei cieli», 11 dicembre 2022

La Cascina Linterno si trova a due passi dalla mia casa milanese. Posso raggiungere a piedi un luogo immerso nei fontanili, nei prati, nelle ‘marcite’ lombarde. Un luogo che è probabile sia quello descritto da Francesco Petrarca in alcune sue lettere e abitato dal poeta durante l’estate negli anni da lui trascorsi a Milano (1353-1361).
Nella piccola chiesa della Cascina è risuonata la voce di Urna Chahar-Tugchi, dalla quale e attraverso la quale si percepisce la vastità delle steppe asiatiche, il tempo lento dei pastori e delle loro mandrie, l’energia dei cavalli – uno degli animali più perfetti che camminino sulla Terra -, il sorgere dei pianeti e la brillanza delle stelle, la calma e la potenza del tempo senza fine, senza umani, senza dolore. Soltanto una voce che scandisce, che si amplia, che diventa una cosa sola con lo spazio.
La più parte dei canti eseguiti da Urna sono quelli delle tradizioni mongole, altri sono stati composti da lei. Tutti trasmettono la musica di una civiltà.

Propongo l’ascolto di Hödööd:
Brano su Spotify
Brano su YouTube

Consiglio anche Haram gui, che sembra proprio una corsa di cavalli:
Spotify
YouTube

Diamanda

My World Is Empty Without You
di Diamanda Galás
da Malediction and Prayer
(1998)


 

 

[audio:Diamanda_My_World_Is_Empty.mp3]

 

Diamanda Galás è la potenza ctonia del canto.

 

 

 

 

 

Mente & cervello 83 – Novembre 2011

La voce umana è una straordinaria funzione della corporeità vivente, capace di modulare suoni, emozioni, significati, giudizi, concezioni del mondo, desideri. Essa «ci presenta al nostro interlocutore, che può dedurne facilmente il sesso e attribuirci altre caratteristiche come un’età anagrafica, il livello culturale, lo stato emotivo e tratti personali come il livello di sicurezza o insicurezza» (P.E.Cicerone, p. 86).  E se accade di sentire la nostra propria voce registrata ci stupiamo e ci chiediamo se davvero sia nostra, «perché quando ci ascoltiamo la percepiamo dall’interno, e quindi diversa da come la sentono gli altri» (Id., 89).
Anche i sogni vengono dal profondo della corporeità e da millenni resistono al tentativo di comprenderne davvero dinamica e funzione. Credo che abbia sostanzialmente ragione la teoria neurobiologica denominata «“ipotesi di attivazione-sintesi”, secondo cui i sogni non significano nulla: sono semplici impulsi elettrici cerebrali che estraggono a caso pensieri e immagini dalla nostra memoria e che organizziamo in storie al nostro risveglio nel naturale tentativo di dar loro un senso» (S.van der Linden, 102). Questa loro insignificanza non contrasta comunque con il fatto che i sogni svolgano una importantissima funzione di difesa attraverso la costruzione di possibili scenari diurni, di rafforzamento della memoria del vissuto, di elaborazione delle emozioni che ci scuotono. Ma, naturalmente, nulla profetizzano e a nulla si riferiscono al di là del corpomente.
Da dentro deriva quella tristezza di fondo ma spesso creativa che Aristotele chiamava malinconia (e non “depressione”, come afferma S.Carson, 43), che si può attenuare con i sali di litio (poiché siamo fatti di chimica) ma che rimane difficile da superare del tutto perché -secondo l’esperienza anche personale di Kay Jamison Redfield- «bipolari si nasce, non si diventa» (D. Ovadia, 55). Psicologa che ha subìto e subisce sulla propria carne -sino a vari tentativi di suicidio- la depressione maniacale, Kay Jamison cerca giustamente di sfatare il legame romantico tra genio e follia, affermando che «se la malattia mentale può agire da catalizzatore per l’artista, la creatività esiste a prescindere dalla malattia. E per rendere al massimo, per riuscire a produrre, non si può stare male. […] La produttività, la creatività, sgorgano con la massima forza quando gli opposti si conciliano, quando il buio della depressione e la perdita di controllo legata alla mania si conciliano in un nuovo equilibrio» (Ibidem).
Ma dentro di noi, fitto nella corporeità che siamo, sta soprattutto il tempo. Alla lettera. Lo conferma un articolo di questo numero di M&C dedicato al problema di chi lavora nei turni di notte. Il ritmo circadiano che intesse la vita viene infatti in questi casi stravolto, poiché di luce siamo fatti come di tempo. La luce passa dagli occhi. E tuttavia non sono i coni e i bastoncelli a farci percepire il ritmo temporale bensì altre cellule sensoriali, le cellule gangliari retiniche che contengono la melanopsina, la quale regola l’orologio interno.

Appena la luce di una determinata lunghezza d’onda colpisce le cellule gangliari retiniche, queste, attraverso il nervo ottico, inviano segnali al cervello verso un fascio di neuroni grande come un chicco di riso e contenente circa 10.000 cellule per ogni emisfero. Questo gruppo di neuroni si trova, da entrambi i lati, sopra l’incrocio tra il nervo ottico destro e il nervo ottico sinistro -chiasma ottico- e viene chiamato nucleo soprachiasmatico o NSC. Il NSC, a sua volta, “comunica l’orario” a tutte le cellule del corpo, per mezzo di impulsi nervosi e di neurotrasmettitori immessi nel circolo sanguigno. È così che, proprio come un grande orologio che governa l’organismo, regola i processi biologici di tessuti e organi”. (T.Kantermann, 76)

Il NSC intensifica di giorno la propria attività, riducendo in questo modo la quantità di melatonina (l’ormone del sonno) presente nel sangue. È così che viviamo. L’orologio che siamo si fa svegliare chimicamente dalla luce percepita e decodificata dalla melanopsina. La luce diventa così subito tempo.

Il nostro orologio interno può essere paragonato a un’altalena per bambini che viene spinta continuamente. A seconda del punto di oscillazione in cui riceve la spinta, l’altalena accelera, rallenta o continua a oscillare nello stesso modo. Nel caso del nostro orologio interno, la spinta corrisponde alla luce: a seconda dell’orario in cui entra in gioco la luce, l’orologio si sposta in avanti, indietro o continua a battere il tempo come sempre. (Id., 77)

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