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Nemesi e dismisura

Nemesi e dismisura
in il Pequod , anno 3, numero 5, giugno 2022, pagine 7-14

Indice del saggio
-Tracotanza
-Nemesi
-Un conclusione politeistica

Leggere oggi Nemesi medica (uscito nel 1976) significa disvelare sotto una luce radente e profonda le radici, le manifestazioni e soprattutto il significato del presente.
È accaduto che si sia invertito l’ordine naturale e logico del rapporto tra salute e malattia, è accaduto che si sia diventati tutti pazienti senza essere malati, è accaduto che «il cittadino, finché non si prova che è sano, si presume che sia malato. […] Risultato: una società morbosa che chiede una medicalizzazione universale, e un’istituzione medica che attesta una universale morbosità» (Ivan Illich); è accaduta un’aggressione del corpo collettivo verso se stesso, la metastasi di una parte tesa a consumare il tutto; è dilagata una malattia sociale, politica e civile.
E questo nonostante il fatto che «studiando l’evoluzione della struttura della morbosità si ha la prova che durante l’ultimo secolo i medici hanno influito sulle epidemie in misura non maggiore di quanto influivano i preti nelle epoche precedenti. Le epidemie venivano e se ne andavano, esorcizzate da entrambi ma non impressionate né dagli uni né dagli altri. Esse non vengono modificate dai riti celebrati nelle cliniche mediche più di quanto lo fossero dai tradizionali scongiuri ai piedi degli altari» (Illich).
Ciò che sta accadendo da due anni a oggi è dunque un esempio del concetto chiave dell’analisi di Illich: iatrogenesi.
L’attacco è stato e continua a essere furibondo nei confronti dell’immunità naturale, la quale è il fondamento e la condizione che consente alla nostra specie, come alle altre, di non essere spazzata via dalla miriade di agenti patogeni che abitano la Terra. Una medicina sana favorisce e rafforza l’immunità dei corpi, una medicina malata danneggia e indebolisce l’immunità naturale. Infatti, «fino a tempi non lontani la medicina si sforzava di valorizzare ciò che avviene in natura: favoriva la tendenza delle ferite a sanarsi, del sangue a coagularsi, dei batteri a farsi sopraffare dall’immunità naturale. Oggi invece essa cerca di materializzare i sogni della ragione» (Illich), che – come si sa – hanno la tendenza a diventare i suoi incubi.
Per millenni e sino alla fine dell’Ottocento il medico, o chi per lui, è stato addestrato e abituato a riconoscere la facies hippocratica, i segni della morte imminente e inevitabile, in base ai quali deve subentrare il rispetto per la persona che nel ciclo naturale e infinito lascerà il posto ad altre forme e ad altre vite. Lasciare andare il morente, accompagnarlo con l’abbraccio dei suoi cari, è stato un preciso dovere, sostituito ora dall’accanimento insensato che fa morire gli umani in una solitudine meccanica e ambientale che è il più atroce esito della nemesi medica.
Nel 1976 Illich enunciava un’affermazione icastica e feroce, che il tempo ha confermato, vale a dire «la servile subordinazione della classe medica italiana nei confronti dell’industria farmaceutica». Una subordinazione che è data certamente dalla secolare condizione di colonizzazione degli italiani, compresi i loro intellettuali e tecnici, e da un tessuto politico particolarmente corrotto ma che è anche e soprattutto espressione di un radicato e più generale rifiuto del πέρας, del limite, della consapevolezza della finitudine, che è – semplicemente – l’intelligenza del mondo.

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Tali sono alcune delle tesi che ho cercato di argomentare in questo saggio che esce in un numero assai ricco del Pequod, sul quale hanno scritto molti amici e allievi, a cominciare dal suo ideatore Enrico Palma. L’indice completo lo si trova anche nel pdf ma ricordo qui che tra i contributi ci sono quelli di Davide Amato, Nicoletta Celeste, Sarah Dierna, Stefano Piazzese, Mattia Spanò, del collega Antonio Sichera. Insieme ad alcuni di questi studiosi e ad altri, abbiamo anche scritto una riflessione collettiva dedicata alla messa in scena del’Edipo Re quest’anno a Siracusa: Edipo Re. Una nota filosofica, esperimento riuscito di pensiero collettivo, segno certo di salute.

Narciso

Piccolo Teatro Studio – Milano
Carbonio
Scritto e diretto da Pier Lorenzo Pisano
Con Federica Fracassi e Mario Pirrello
Scene di Marco Rossi
Sino al 3 luglio 2022

Il carbonio – C – si trova dappertutto nell’universo ma qui è assunto come sinonimo di vita terrestre. La vita degli animali, la vita delle piante, la vita degli elementi atmosferici, la vita insomma. Ma per la prima volta un essere umano ha un contatto (di due minuti ma ce l’ha) con qualcosa che non è fatto di carbonio. E diventa quindi impossibile spiegare che cosa sia «perché non abbiamo termini di paragone». Un’esperta -non si sa se psicologa, chimica, spia, magistrato- gli pone domande su domande per tentare di comprendere di che cosa si sia trattato e quali potrebbero essere le conseguenze di quell’incontro, che pure è stato ripreso da moltissimi video. Ma nulla si riesce a capire e a sapere.
Scavando scavando tuttavia emergono possibilità e spiegazioni chiaramente ispirate all’ipotesi del multiverso formulata dal fisico Hugh Everett, della quale un altro fisico, Lee Smolin, dice giustamente che «non potrà mai essere verificata o falsificata, il che pone questa fantasia al di là dei confini della scienza. Ciò nonostante, non pochi fisici e matematici stimati difendono questa idea» (La rivoluzione incompiuta di Einstein. La ricerca di ciò che c’è al di là dei quanti, trad. di S. Frediani, Einaudi 2020, p. XVII). Si tratta infatti di una «interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica» per la quale gli eventi hanno tutti dei sviluppi diversi e alternativi rispetto a quelli che vediamo nella nostra realtà, e tali sviluppi creano un numero infinito di mondi; «affinché la cosa funzioni, ciascuna versione di un osservatore non deve avere modo di comunicare con gli altri: i rami devono essere autonomi» (Ivi, p. 122). Il desiderio del protagonista che un preciso evento abbia avuto sviluppi e conseguenze diverse da quelle che ha avuto sembra coniugarsi all’incontro con l’alieno, producendo una frattura nel reale che è l’inevitabile premessa dell’assurdo. Scrive infatti ancora Smolin che «la conseguenza più provocatoria e, per me, sgradevole dell’ipotesi di Everett è che dobbiamo credere che ognuno di noi abbia un numero infinito di copie, ciascuna viva e cosciente esattamente come noi. Fa pensare alla fantascienza più che alla scienza, ma sembra proprio che sia una conseguenza diretta dell’ipotesi di Everett» (Ivi, p. 144). In questo modo infatti siamo noi a nostra volta una delle tante copie. La realtà si dissolve.
A tale insensatezza fisico-chimica, Pier Lorenzo Pisano aggiunge riferimenti politici (uno, che tra qualche tempo diventerà incomprensibile, anche a Trump), drammi familiari, tracimazioni psicologiche. Insomma un minestrone drammaturgico che alla fine rende non soltanto incoerente il risultato ma a tratti lo fa anche noioso.
Lo spettacolo ha una struttura duplice: al dialogo serrato tra Lui e Lei si alterna la presenza dello stesso autore che fa vedere e spiega alcune delle immagini e dei simboli inviati nello spazio interplanetario (e  si prevede poi anche oltre) con le due sonde Voyager nel 1977. Pisano fa giustamente notare con ironia la bruttezza e l’incomprensibilità di molte di queste immagini, il cui scopo dovrebbe consistere nel comunicare a una ipotetica civiltà aliena il modo in cui siamo fatti ed esistiamo. Ancora una volta presupponendo che a tali civiltà importi sapere qualcosa di noi e che adottino dei codici compatibili con i nostri. «Vanitas vanitatum homo» (Nietzsche, Umano, troppo umano II, «Opere» IV/3, Adelphi 1967, af. 12, p. 141). Si potrebbe definire così Homo sapiens: mammifero di grossa taglia, quasi interamente glabro, caratterizzato da un complesso apparato fonatorio-linguistico e con tendenze fortemente narcisistiche.
Per cercare di temperare il narcisismo del ‘carbonio’ umano – un poco patetico e un poco patologico – si può ricordare un’altra saggia osservazione nietzscheana, secondo la quale «Hüten wir uns, zu sagen, dass Tod dem Leben entgegengesetzt sei. Das Lebende ist nur eine Art des Todten, und eine sehr seltene Art (Guardiamoci dal dire che morte sarebbe quel che si contrappone alla vita. Il vivente è soltanto una varietà dell’inanimato e una varietà alquanto rara)» (La gaia scienza, trad. di F. Masini, «Opere» V/2, af. 109, p. 118).
Si può aggiungere, una varietà alquanto malaticcia.

Intervista su Disvelamento

L’emittente televisiva RevolutionChannel mi ha chiesto qualche giorno fa un’intervista sui contenuti di Disvelamento. A condurla è stato Giuseppe Ferrara, che ringrazio per la coerenza e puntualità delle sue domande. E per aver così presentato l’intervista:
«Sono passati oltre 2 anni da quando una coppia cinese in vacanza risultò positiva ad un nuovo coronavirus che causava sintomi influenzali con un’elevata mortalità. Successivamente il delirio. Confinamenti, coprifuoco, misure restrittive che si erano viste solo nelle dittature più feroci. La nostra democrazia e la nostra stessa libertà messa forzatamente in stand by per salvaguardare il diritto alla salute.
Ma che vita è una vita priva di quelle sensazioni, di quella quotidianità, che fa la differenza tra la semplice funzione biologica e il piacere di assaporare l’esistenza. Queste domande hanno favorito un’intensa riflessione e il risultato di questa riflessione ha partorito uno dei libri che reputiamo fondamentali per la comprensione di tutto questo. Il libro si chiama Disvelamento, nella luce di un virus del prof Alberto Giovanni Biuso».
Tra le domande che mi sono state poste, una delle più importanti riguarda il rapporto tra l’epidemia e le strutture formative del corpo collettivo, quali sono la scuola e l’università, relazione alla quale nel libro ho cercato di dedicare l’attenzione che merita.

Il video dura 21 minuti e lo si può seguire qui:
Il virus che infetta la socialità
oppure sul canale YouTube dell’emittente.

[Se quando si scrive si incorre facilmente in refusi, figuriamoci quando si parla. Un errore del quale mi scuso è aver indicato in 70 milioni l’attuale numero di cittadini italiani; per fortuna siamo di meno, anche se siamo tanti: quasi 59 milioni]

Una luce inquieta

Recensione a:
Eugenio Mazzarella
Nietzsche e la storia
Storicità e ontologia della vita
Carocci Editore, 2022
Pagine 212
in Discipline Filosofiche, 20 maggio 2022

Cercare di comprendere l’inquieta luce che il pensiero di Nietzsche è per tutti noi implica la forza metodologica di applicare anche a lui l’energia decostruttiva con la quale questo filosofo legge il mondo e ogni sua manifestazione. E dunque «prendere posizione con Nietzsche contro Nietzsche» (p. 22), come fa Eugenio Mazzarella. Posta tale condizione sarà possibile intendere «la costellazione Nietzsche» come «compimento zarathustriano del pessimismo della forza prospettico» (p. 133), che ritorna all’originaria matrice del pessimismo romantico dal quale era partito dopo aver però attraversato con lucidità la finitudine umana e averne inteso l’inoltrepassabilità. Dal Dioniso greco al Dioniso zarathustriano attraverso una decostruzione dell’umano – e del vivente in genere – che ne mostra il limite costitutivo sia ontologico sia gnoseologico. La parola nietzscheana per questo limite è «prospettivismo».

[Sulla stessa rivista sono state pubblicate nel 2022 alcune interessanti recensioni di due miei allievi.
Enrico Palma: Andrea Pace Giannotta, Fenomenologia enattiva. Mente, coscienza e natura
Enrico Palma: Marco Maggi (a cura di), Walter Benjamin e la cultura italiana
Stefano Piazzese: Ágnes Heller, Tragedia e Filosofia. Una storia parallela ]

Sul suicidio

Interrogarsi sulla morte e sull’esperienza della finitudine
il manifesto
7 giugno 2022
pagina 11

La condanna penale del suicidio -con gravi punizioni per il cadavere e per i beni lasciati dal defunto- è stata la regola nei Paesi cristiani sino a tempi recenti; in molti Paesi islamici il suicidio è tuttora un reato penale. Le civiltà pagane hanno tenuto di solito un atteggiamento ben diverso ed efficacemente sintetizzato da Hume quando ricorda che «la facoltà di suicidarsi è considerata da Plinio un vantaggio che gli uomini possiedono addirittura rispetto agli dèi.  Deus non sibi potest mortem consciscere, si velit, quod homini dedit optimum in tantis vitae  poenis, Lib. II, Cap. 7».
È che le culture e filosofie politeiste sono molto più consapevoli della centralità della materia e della potenza della natura. Cosa che crea uno stretto «legame fra materialismo scientifico, libero pensiero antireligioso e diritto al suicidio» (Simon Critchley, Note sul suicidio,  p. 47), come si vede nelle filosofie libertine (ispirate da Spinoza) o in Hume, il cui saggio Del suicidio, ha un fondamento antropodecentrico. Il filosofo scrive infatti che «la vita di un uomo non ha maggiore importanza per l’universo che quella di un’ostrica» (§ 9) per delineare alla fine una prospettiva radicata in ciò che successivamente sarà chiamato termodinamica: «Quando sarò morto, i principi di cui sono composto continueranno a svolgere il loro ruolo nell’universo e saranno ugualmente utili nel suo grandioso tessuto come quando formavano questa singola creatura. La differenza, per il tutto, non sarà più grande di quella tra quando sono in una stanza e quando sono all’aria aperta. Un cambiamento per me è più importante dell’altro; ma non lo è per l’universo» (§ 20).

Sul nichilismo politico-sanitario

Ho il piacere di condividere una testimonianza audio della bella esperienza che ho vissuto a Firenze lo scorso 19 febbraio, invitato dall’Osservatorio permanente sulla contemporaneità a tenere un incontro sulle radici e sulle dinamiche dell’epidemia Covid19.
L’ho fatto nel cuore della città, in un antico palazzo dove ho parlato in una modalità che non accadeva dal marzo del 2020, data dell’ultima vera lezione che ho svolto presso il Dipartimento di Catania nel quale insegno. Ricordo gli studenti l’uno accanto all’altro nell’aula, alcuni seduti a terra, nessuno -ovviamente- con maschere addosso. Lo scambio degli occhi, i volti che parlano, i sorrisi, il moto degli zigomi coerenti con il movimento degli occhi, la serenità, la libertà. E insieme a tutto questo una competenza e lucidità testimoniate da quasi quaranta minuti di dialogo con colleghi, studenti, cittadini (quest’ultima parte non è riportata nel file che allego). La presentazione è della Prof. Roberta Lanfredini, ordinario di Filosofia teoretica nell’Università di Firenze.
Durante la lezione ho fatto due sole citazioni, una dalla Politica di Aristotele, l’altra da Ivan Illich: «Quando tutta una società si organizza in funzione di una caccia preventiva alle malattie, la diagnosi assume allora i caratteri di una epidemia. Questo strumento tronfio della cultura terapeutica tramuta l’indipendenza della normale persona sana in una forma intollerabile di devianza. […] L’individuo è subordinato alle superiori ‘esigenze’ del tutto, le misure preventive diventano obbligatorie, e il diritto del paziente a negare il consenso alla propria cura si vanifica allorché il medico sostiene ch’egli deve sottoporsi alla diagnosi non potendo la società permettersi il peso d’interventi curativi che sarebbero ancora più costosi» (Nemesi medica. L’espropriazione della salute [Limits to medicine-Medical Nemesis: the expropriation of health, 1976], trad. di D. Barbone, Red!,  2021, pp. 81-82).
Aggiungo qui, dallo stesso testo, una affermazione altrettanto lucida e profetica: «Ormai il cittadino, finché non si prova che è sano, si presume che sia malato. […] Risultato: una società morbosa che chiede una medicalizzazione universale, e un’istituzione medica che attesta una universale morbosità» (pp. 96-97).

 

Contro l’irrazionalismo

Su invito dell’Osservatorio permanente sulla contemporaneità, sabato 19.2.2022 alle 11,30 nel Palazzo Tolomei di Firenze (Via De Ginori, 19) terrò un incontro dal titolo Nella luce di un virus.
Questo l’abstract del mio intervento.

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L’epidemia Sars-Cov2, ciò che scatena nel corpo collettivo, è una forma sempre più evidente di nichilismo, di nascondimento dei volti, di dissoluzione della socialità, di timore diffuso e contagioso, di ignoranza dei corpi, di tramonto del senso, di declino della razionalità, di ubbidienza fanatica, di rifiuto del limite, di negazione della insecuritas, di terrore. È questa la follia del presente, è questo il cuore nero della desacralizzazione del mondo, lo sgomento per la sua misura mortale e finita.
A chi osserva senza pregiudizi dovrebbero risultare evidenti:
-la funzione politica che il virus sta svolgendo;
-l’accelerazione imposta ai processi di dematerializzazione;
-gli enormi interessi economici in gioco da parte delle piattaforme;
-il ritorno a un ‘positivismo’ così rozzo da non meritare neppure la denominazione comtiana;
-l’infantilizzazione del corpo sociale;
-il dilagare dell’ignoranza come frutto della chiusura e dell’impoverimento delle aule scolastiche e universitarie;
-la cancellazione del significato stesso del vivere e del morire.

Il virus disvela tutto questo. Esso ci aiuta a comprendere il potere pressoché assoluto dell’informazione in mano alle grandi potenze economico-finanziarie. E ci aiuta soprattutto a comprendere quanto tremanti siano diventati gli umani, pronti a rinunciare alle libertà e alla razionalità, indipendentemente dal loro grado di istruzione, di ricchezza economica, età e condizione. Abbiamo il privilegio, per dir così, di assistere con i nostri occhi a degli eventi politicamente e antropologicamente epocali. Che ci insegnano, che devono, insegnarci, saggezza e sapienza, φρόνησις e σοφία.
In ogni caso non prevarranno, la tirannide si spezzerà, come sempre è accaduto nella storia. E chi avrà resistito a questa ondata di irrazionalismo avrà contribuito a portare alla luce quanto di più inquietante abita dentro l’umano.
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[Registrazione audio di una parte dell’incontro]

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