Skip to content


Heidegger / Mazzarella

Metafisica del Dasein in Eugenio Mazzarella e Martin Heidegger
con Enrico Moncado
in Vita pensata
n. 26, gennaio 2022
pagine 18-25

Indice
-Umanismo, antiumanismo, ultraumanismo
-La questione dell’Essere
-Spazio / οἶκος
-Metafisica e oblio
-La questione della tecnica
-Corporeità, dolore, Grazia

Il discorso heideggeriano -perché discorso e non sistema è una filosofia sempre aperta, asintotica, in cammino- ha un «carattere di cenno, di comunicazione di un appello», di una «povertà [che è] anche la sua ricchezza». A questo discorso Eugenio Mazzarella dedicò nel 1981 un libro che non solo «piccolo o grande che sia, ha avuto un suo destino negli studi heideggeriani» ma che a quarant’anni di distanza mostra una freschezza, una perennità, una fecondità che appaiono evidenti e che hanno molte ragioni. Con Enrico Moncado abbiamo cercato di indicare i modi e il significato del percorso di Mazzarella dentro e oltre il pensiero heideggeriano.
Quello di Heidegger è un cammino che si sostanzia di trasformazioni che nulla negano e invece sempre più confermano il suo inizio. In esso l’umano, usando il linguaggio della Gestalt, è sia ciò che emerge dallo sfondo dell’essere sia ciò che, come figura, dà risonanza all’essere. Oicologico, è il pensiero di Heidegger: non perché esso prospetti un’ecologia romantica che rinsaldi umano e natura, bensì nel senso che è interessato a una comprensione unitaria e insieme molteplice dell’ethos, cioè del soggiorno dell’umano nel mondo come mondo.
La prospettiva mazzarelliana è una οἶκολόγία che è il vero cuore della Seinsfrage e che fa dire al filosofo: «Ma è probabile che se non si dà questa follia, o, per seguire Nietzsche, non si ascolta il suo ‘folle’ prima che la lanterna s’infranga a terra, lo spegnersi di quel minuto menzognero nella storia stellare che è l’uomo sarà l’epigrafe, muta, della hybris di un ente che fu l’uomo»; «non è detto» infatti «che il funambolo non cada giù tra l’orrore ottuso del ‘mercato’», esattamente come sta avvenendo a quattro decenni di distanza da quando queste parole vennero per la prima volta pronunciate.

Corpo / Corporeità

Per coloro i quali, dalle prospettive più diverse, vogliano andare oltre il venerabile ma ontologicamente debole dualismo tra anima e corpo, indagare le tematiche relative alla corporeità è fondamentale. Ma, come scriviamo nell’editoriale del numero 26 di Vita pensata (gennaio 2022), «corpo» è un termine polisemantico, che non si riferisce soltanto all’umano né soltanto al vivente, vegetale o animale che sia.
In filosofia corpo è anche sinonimo di ‘ente’, ‘cosa’, ‘oggetto’. E così lo hanno inteso gli autori di questo numero della rivista. I quali si occupano certamente in gran parte della corporeità biologica ma anche delle sue strutture fisiche e metafisiche. Confidiamo in questo modo di aver ribadito un invito che si fa sempre più urgente: l’invito a pensare la complessità, ad affrancarsi dalle varie forme di riduzionismo che ancora pervadono le filosofie e la vita collettiva, a comprendere la varietà delle strutture individuali e sociali che stanno alla base di un’esistenza non ridotta e non riducibile al solo inspirare/espirare e non ridotta né riducibile alla sola vita dello spirito.
Ai corpi come li intende la fisica è dedicato un vivace saggio del fisico Alessandro Pluchino; del significato metafisico dei corpi ho cercato di occuparmi io in una recensione dedicata a un libro del filosofo statunitense Graham Harman, uscito nel 2018 e da poco tradotto in italiano. Per una forse comprensibile ma in ogni caso implausibile e bizzarra abitudine e tendenza, gli esseri umani ritengono che nell’innumerabile insieme di corpi, enti, oggetti e cose uno di essi occupi un luogo speciale, possieda un’ovvia centralità, sia il parametro del significato e del valore di tutti gli altri enti, tanto che, in particolare dal pensiero cartesiano in avanti, ha preso forza «la strana convinzione moderna secondo cui la nostra specie umana, pur essendo alquanto minoritaria, meriti di occupare un buon cinquanta percento di tutta l’ontologia» (Harman, p. 68). Convinzione strana, triste e anche un poco patetica «visto che esiste un numero infinito di composti che non hanno al loro interno nemmeno una componente umana» (85).
Sono stati numerosi nel corso della storia i momenti e le forme nelle quali questa tendenza antropocentrica è stata in vari modi decostruita. La Object-Oriented Ontology critica tale tendenza con argomenti originali, alcuni evidenti e altri più complessi, dei quali la mia recensione cerca appunto di discutere.
Corporeità biologica, fisica, metafisica e poetica. Il numero si chiude infatti con una silloge di Eugenio Mazzarella: sei composizioni dal titolo Corporea / Stare nel corpo.
L’auspicio è che ogni testo di questo numero della rivista possa contribuire a fare luce sul labirinto, la bellezza e il dramma dello stare al mondo.

 

Forme

Il numero 25 di Vita pensata è dedicato alla forma, con una varietà di contributi che studiano l’estetica  del viaggio, della parola, dell’anamorfosi, della narrativa statunitense, del modernismo, della scultura, delle metamorfosi, dell’attualismo gentiliano, della tragedia antica, delle epidemie moderne, dell’epistemologia.

Un mio saggio presenta la figura di Apollo a partire dagli studi di Walter Otto sugli dèi della Grecia e dunque sulla centralità e fecondità dell’elemento religioso -o per meglio dire sacro– nella civiltà degli Elleni. Gli dèi greci non sono invenzioni della fantasia o deduzioni teologiche ma entità che possono soltanto essere vissute nel limite che caratterizza la materia, nel rifiuto di ogni pretesa di dettare le regole agli eventi, nell’assenza di ogni culto narcisistico e borghese verso l’io, la sua volontà, la sua pretesa interiorità abissale di soggetto. Sta qui una delle differenze principali tra la religione greca e quella cristiana. Nel mondo ellenico non domina la magia, come in altre culture, ma semplicemente la natura. Un mondo dove convivono le potenze ctonie -gli antichi Titani, signori dei morti- e le potenze celesti -i nuovi Dèi dell’Olimpo, signori dei vivi. Un mondo dunque estraneo ma nel quale affonda e dal quale continua ad assorbire senso l’identità dell’Europa, almeno sin quando essa «non soggiacerà totalmente allo spirito dell’Oriente o al razionalismo utilitaristico».
Gli dèi della Grecia, la loro molteplicità e differenza, sono il mondo, semplicemente. Sono l’immanente totalità dell’essere: inscalfibile, perfetto, temporale. Questo è la religione, la vera religione. Non una forma del narcisismo umano e del suo spasmodico bisogno di salvezza ma lo splendore affilato della luce.

 

Identità e memoria

«Devo ricordare»
in Vita pensata, n. 24, marzo 2021, pagine 66-67

Il ricordare non somiglia a una fotografia, immagine statica sempre identica a se stessa e che può solo sbiadire, ma a un film ininterrottamente montato e rimontato, somiglia a delle scene che cambiano di continuo collocazione in relazione alle altre scene che si aggiungono, che vengono scartate, che interagiscono con quelle già girate, somiglia a un palinsesto continuamente riscritto.
La memoria si stratifica nel corpo, nelle sue sensazioni, umiliazioni, difficoltà, piaceri, estasi. La memoria intesse la mente sino a costituirla come forza, identità, facoltà di azione, presa sul mondo e dominio della sua complessità. Non una struttura ma una funzione che consente ai ricordi di non rimanere chiusi da qualche parte nell’encefalo ma di accadere di continuo nell’intera corporeità, nel tempo che si distende e che ci rende consapevolmente vivi.

[Nell’immagine il Grande Cretto di Alberto Burri, che ha ricoperto le macerie di Gibellina]

Il maestro vuoto

Recensione a:
Aa. Vv.
Tempi Covid moderni
Koinè, anno XXVII, nn. 1-4
A cura di Alessandro Dignös
Gennaio-Dicembre 2020
Petite Plaisance, 2020
in Vita pensata, n. 24, marzo 2021, pagine 58-60

Il numero 24 di Vita pensata è dedicato alla scuola, e in generale all’insegnamento, nei tempi della barbarie. Vi ho pubblicato un’analisi delle tematiche pedagogiche che vengono discusse nel numero 2020 di Koinè.
La didattica del vuoto -detta anche didattica a distanza– ha come orizzonte fondativo e prospettiva futura quello che Renato Curcio chiama il maestro vuoto, «un volto incorporato nelle applicazioni digitali, un potente e freddo detta-istruzioni, obbedendo alle quali l’utente compie con successo l’operazione prefissata, raggiunge il risultato voluto e/o imposto» (p. 33).
Il maestro vuoto è l’espressione pedagogica e didattica dell’universale rimozione della presenza dei corpimente nello spaziotempo, è la dissipatio della dimensione politica della vita umana.
Il maestro vuoto è il protagonista della «videolezione, come lezione spettrale», appiattita «sulla mera trasmissione di nozioni» (p. 40).
Il maestro vuoto è la vittoria della separazione tra gli umani, della negazione della natura sociale di Homo sapiens, è il trionfo della distanza come vero e proprio paradigma antropologico, psicologico, comportamentale, etico, per il quale l’altro è sempre un rischio, un competitor, un nemico.
L’orizzonte epistemologico nel quale queste complesse dinamiche si inscrivono è il transumanesimo, il superamento dell’umanità biologica a favore dell’umanità digitale. Se tale prospettiva può sembrare patologica, bisogna tuttavia riconoscere che «though this be madness, yet there is method in’t”», che c’è del metodo in tutta questa follia.

Sui quaderni heideggeriani

Traduzione del saggio di Friedrich-Wilhelm von Herrmann:
Die Reinheit des seynsgeschichtlichen Denkens
Il reale significato del pensiero ontostorico
in Vita pensata, n. 23 – Novembre 2020
pagine 5-15

Il testo si può leggere:
sul sito della rivista
in pdf

Il testo tedesco è seguito dalla traduzione in italiano, che è stata approvata dall’autore.
Riporto qui la Nota del traduttore:

Il saggio del Prof. von Herrmann affronta una delle questioni più delicate, strumentali e incomprese del percorso heideggeriano. Lo fa con pacata determinazione e anche, dove è necessario, con durezza. Sono pagine che contribuiscono in modo decisivo a fare chiarezza sul rapporto tra Martin Heidegger e il Nazionalsocialismo. ‘Decisivo’ perché si pongono all’altezza della dimensione teoretica dalla quale ogni riga di Heidegger scaturisce.
L’importanza ermeneutica e politica di questo saggio mi ha indotto a privilegiare la scorrevolezza della resa in italiano rispetto alla letteralità dell’enunciato, senza naturalmente mai discostarsi dai significati del testo, di per sé assai chiari.
E questo anche perché uno dei segreti della potenza heideggeriana, direi della sua gloria, è l’utilizzo delle parole come un tutto che si dissolve. ’Tutto’ nel senso che per Heidegger, come per ogni vero filosofo, la parola è il luogo nel quale traluce, splende e si dà l’essere. E quindi ogni parola deve essere -per dirla con Ungaretti- «scavata come un abisso».
Ma questo tutto della parola è destinato a dissolversi poiché il pensiero deve affrancarsi da ogni rigidità che inerisce a questa potenza, senza rimanere nella univocità di un solo significato, senza scadere mai nella scolastica e nell’idolatria delle formule. La parola deve rimanere e diventare ciò che è: la vibrazione del mondo.
Anche per questo ho ad esempio tradotto la medesima struttura semantica – Wesungsgeschehen der Wahrheit des Seyns – in tre modi diversi. Tre modi che a me sembrano corretti perché moltiplicano il senso e lo innestano ogni volta nella differenza: nella prima occorrenza è un divenire non della verità ma dell’essere nella sua verità; nella seconda occorrenza la verità dell’essere ha la forza di un accadere ontostorico che si allontana vertiginosamente dal verificarsi storico del Nazionalsocialismo; nella terza occorrenza la verità dell’essere è un manifestarsi che conferma la natura fenomenologica del pensare heideggeriano.

Una metafisica selvaggia

Recensione a:
Yitzhak Y. Melamed
La metafisica di Spinoza: sostanza e pensiero
(Mimesis 2020, pp. 335)
in Vita pensata, n. 23, novembre 2020, pagine 84-87

Quella di Spinoza è una «metafisica selvaggia» (p. 108) che è assai più fecondo osservare nel suo habitat naturale piuttosto che costringere all’interno di gabbie precostituite. Spinoza, in altri termini, non va domato ma va compreso, al modo in cui il filosofo invita a comprendere le azioni umane e non a piangere su di esse, a ridere o a detestarle: «Sedulo curavi, humanas actiones non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere» (Tractatus politicus, cap. I, § 4).
Il motore dello spinozismo è un gioco infinito di unità e pluralità, di stasi e movimento, di eternità e durata, di identità e differenza. Gioco che si esprime nel concetto più complesso analizzato dal libro di Melamed: la moltitudine infinitamente infinita dei modi infiniti. L’apparente oscurità della formula è in realtà implicita nella definizione stessa di Dio come ‘ente assolutamente infinito’ che esiste in una infinità di attributi e modi, i quali come emanazione/espressione dell’infinità della sostanza devono essere anch’essi infiniti.
L’essere è dunque uno ed è insieme plurale, è sempre uguale alla propria unità ed è sempre cangiante nei suoi aspetti, è eterno e dura, è sempre identico e sempre diverso. Ecco la natura selvaggia, sempre chiusa e sempre aperta della metafisica spinoziana. È chiaro che una metafisica simile si pone di per sé al di là di ogni antropocentrismo, di ogni antropomorfismo, di ogni teismo, di ogni morale. La metafisica selvaggia di Spinoza è al di là del bene e del male perché è al di là dell’ἄνθρωπος.
«Spinoza, non è né materialista né idealista, e nemmeno il termine ‘dualista degli aspetti’ sarebbe capace di definirlo adeguatamente; la sua posizione, infatti, assegna al pensiero una chiara preminenza, senza però sconfinare nell’idealismo riduzionista. Qui, forse, possiamo osservare il vero genio filosofico di Spinoza» (307). Qui, certamente, e in molti altri elementi come il fatto che la sua metafisica si tende dentro la materia sino al punto da coglierne la struttura di fondo, la quale è da sempre ed è per sempre, ma che intanto, nella complessità sconfinata delle sue modalità, è durata che diviene, è anch’essa tempo.

Vai alla barra degli strumenti