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Tempo fallito

Megalopolis
di Francis Ford Coppola
USA, 2024
Con: Adam Driver (Caesar Catilina), Giancarlo Esposito (Frank Cicero), Nathalie Emmanuel (Julia Cicero), Shia LaBeouf (Clodio Pulcher), Jon Voight (Hamilton Crassus III), Aubrey Plaza (Wow Platinum)
Trailer del film

XXXI secolo. New Rome è contesa tra il sindaco Cicerone e il visionario premio Nobel architetto Caesar Catilina. Il primo cerca di conservare il precario e rassegnato equilibrio tra la grande ricchezza di pochi e la miseria della plebe. Il secondo, a capo dell’unità di progettazione della città, abbatte i vecchi quartieri con l’intenzione di ricostruirli utilizzando un materiale da lui inventato, il Megalon. Si tratta di un materiale all’incrocio tra inorganico e organico, con dunque la capacità di ripararsi e riprodursi. Tra i due contendenti si pone il ricchissimo banchiere Crassus III e soprattutto Julia, figlia di Cicerone e innamorata di Caesar. Il quale ha un altro talento, che è il nucleo del film sin dalla prima scena: è in grado di dominare il tempo, almeno nel senso di fermarlo a un suo ordine e poi farne ricominciare il flusso.
È il tempo infatti il vero tema del film, o per essere più esatti l’aspirazione del film. La quale naufraga in una serie di citazioni affastellate più o meno a caso da filosofi e poeti quali Marco Aurelio, Seneca, Shakespeare, Cicerone appunto, Rousseau e altri. E naufraga nella ripetizione della ‘parola’ Time: tempo cha va, tempo perduto, tempo che fluisce, tempo che spaventa, tempo che si ferma, tempo tiranno, tempo-che-non-sappiamo-che-cosa-sia e via ripetendo una serie di banalità, nonostante le evidenti pretese di profondità che questo film nutre.
Anche l’onnipresente analogia storica con l’Impero romano si riduce a una serie di luoghi comuni, i quali confermano che allo statunitense medio, vale a dire che non sia professore di qualcosa, la storia, i libri, i concetti appaiono in questo modo: una serie di pietanze da riscaldare per la tavola della bella figura da fare.
A Coppola sta probabilmente capitando quanto era già successo al giornalista italiano Eugenio Scalfari, che in tarda età (il regista ne ha 85) abbandonò i giornali e si diede alla filosofia. A pubblicargli i libri furono ovviamente degli importanti editori (persino un ‘Meridiano’ Mondadori), libri che ora giustamente non legge più nessuno e che non lasceranno traccia nella cultura filosofica.
È bello e significativo che le persone si rendano a un certo punto conto nelle loro vite che senza filosofia la cultura non è cultura e cerchino di riparare. Ma lo si deve fare con umiltà, senza pretendere di diventare filosofi soltanto perché se ne ha il desiderio, perché si possiede la capacità di articolare dei concetti, perché ci si pone delle domande sul senso della vita. La filosofia non è questo ma costituisce un lavoro serio, quotidiano, che ha i suoi metodi, le sue condizioni, i suoi attrezzi. A nessuno verrebbe in mente di scrivere testi di ingegneria a 70 anni senza aver mai studiato scienza delle costruzioni; ci si illude invece che lo si possa fare in filosofia. I risultati sono quelli di Scalfari, di Coppola e di altri.
La meravigliosa, pacificata, luminosa città costruita dall’architetto si intravvede per accenni e sembra più che altro una specie di serra dove fioriscono petali dentro i quali abitano gli umani. Una sciocchezza, insomma, tra la New Age, l’oppio e l’onnipresente virtuale che cancella ogni principio di realtà.
Si salvano soltanto i costumi di Milena Canonero, che è stata capace di inventare abiti che sembrano davvero una fusione tra quelli della Roma antica e i nostri. Per il resto Megalopolis è un colossal digitale costruito tramite software, scritto in modo dilettantesco, infarcito di sentimentalismi, trucidezze e cliché, che ha come cifra stilistica una sorta di fusione di art pompier e postmoderno; un film enfatico e fasullo. E anche noioso.
Non basta aver dato come sottotitolo all’opera Una favola di Francis Ford Coppola per salvare questo film pomposo e di cattivo gusto, che è comunque utile per capire a quale grado di stupidità sia pervenuta l’immaginazione del cinema statunitense, segno anch’esso del degrado che ormai involve quel Paese in ogni sua espressione. Il tempo di Megalopolis  è tempo fallito, tempo perso.

Il corpo nel rapporto educativo

Il «Dipartimento di Scienze Umane e dell’Innovazione per il Territorio» dell’Università dell’Insubria (Varese) prevede un corso dedicato a Scienza e fantascienza nei media e nella letteratura, tenuto dal Prof. Paolo Musso, docente di Filosofia teoretica.
Il corso organizza dei seminari che quest’anno sono collegati anche al Congresso mondiale di astronautica, che si tiene a Milano dal 14 al 18 ottobre. Nell’ambito di questo Congresso il 18 ottobre 2024 si svolgerà a Varese una giornata di studi sul «futuro della comunicazione» nella quale terrò una relazione dal titolo Il corpo nel rapporto educativo.
Sosterrò, in sintesi, che il fondamentale legame tra educazione e corporeità rende insostituibile la didattica in presenza. Docenti e studenti non costituiscono infatti dei pixel su un monitor ma sono dei corpimente che soltanto nello spaziotempo fisico possono incontrarsi, dialogare, formarsi e crescere.

 

Innamoramento

Il mio profilo migliore
(Celle que vous croyez)
di Sayf  Nebbou
Francia, 2019
Con: Juliette Binoche (Claire Millaud), Nicole Garcia (Catherine Bormans), François Civil (Alex Chelly)
Trailer del film

Il titolo originale di questo film suona un poco pirandelliano, quasi un Come tu mi vuoi, la decisione e il bisogno di apparire all’altro come vorremmo che l’altro ci vedesse, nel nostro profilo migliore. Il titolo italiano in questo caso restituisce parte del significato dell’opera, dato che il profilo al quale fa riferimento è quello dei Social Network. Claire Millaud è infatti una bella docente universitaria cinquantenne, lasciata dal marito, con due figli adolescenti, con un amante che non la ascolta mai ed è interessato soltanto al sesso. Questo amante ha un giovane collaboratore, Alex, un fotografo del quale Claire vede il profilo su facebook e quasi per gioco e per contattarlo si inventa l’identità fasulla di una bella ventiquattrenne. Messaggio dopo messaggio, parole dopo parole, e poi telefonata dopo telefonata, Claire e Alex iniziano una relazione virtuale che nella prima parte del film viene raccontata dalla donna alla propria analista e nella seconda parte si dipana in vari ‘colpi di scena’ e in finali su finali nei quali il confine tra reale e virtuale si assottiglia sempre più. Anche la scena di chiusura sembra preludere a sviluppi forse ovvi, forse patologici, forse inquietanti.

Due mi sembrano i temi centrali di Celle que vous croyez.
Il primo è la potenza, le modalità, le opportunità e i rischi della comunicazione tramite cellulare telefonico, dello scambio vissuto solo virtualmente, ‘da remoto’. Gli umani non riescono a inventare nessun dispositivo che non risulti intrinsecamente ambiguo, per la semplice ragione che ambigui sono loro stessi: πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀνθρώπου δεινότερον πέλει, afferma il verso 332 dell’Antigone di Sofocle: “molti enti ed eventi ammirevoli e terribili ci sono al mondo ma nulla appare più ammirevole e terribile dell’umano”. E tale terribilità fa riferimento in Sofocle proprio alla natura tecnica dell’animale umano. Lo stasimo sofocleo si conclude con l’affermazione che un simile commensale non sarebbe il benvenuto a tavola.
Le possibilità, offerte dalle tecnologie digitali, di intrecciare relazioni e comunicazioni in ogni istante e con chiunque, si mescolano dunque alla possibilità che tali relazioni e comunicazioni siano fasulle, diventino patologiche, costituiscano un rischio anche assai grave. E questo conferma che l’enfasi sul «remoto», della quale il corpo sociale è stato vittima e carnefice in occasione dell’epidemia Covid19, è un’altra forma di distruzione dei legami umani più sani.
Il secondo elemento del film, ovviamente legato al primo, è la solitudine, è l’innamorarsi, sono le passioni umane. E su questo mi limito a rinviare ad alcuni brevi testi che ho dedicato all’argomento: 
Frammenti di un discorso amoroso (2009); Innamoramento ed evoluzione (2012 ); Amore / Vendetta (2016);  Lezione sull’amore (2017); Roth (2018); L’Altro (2018); Nella spuma potente del cosmo (2019;); Gender (2021).

Nel primo di tali testi scrivevo che l’Altro è una figura del desiderio, del nostro e di quello diffuso nel corpo collettivo, nella filogenesi della specie. L’amato è per l’innamorato l’imprendibile che rimane desiderio – e dunque è la pienezza dell’assenza. Pur sapendo che non raggiungerò mai l’amorosa quiete delle tue braccia, in cui spasimi e drammi saranno appagati e redenti, io continuo a spogliarmi di ogni cosa, continuo a barattare la mia forza con l’istante del tuo sguardo, a rinunciare al mio sorriso per il tuo. Teso verso l’impossibile, il mio discorso è un soliloquio.
L’Altro, infatti, non esiste. Il linguaggio avvolge l’umano sin dal suo apparire, è l’umano nella concretezza del suo agire, esistere, comprendere, comunicare, pensare. L’innamorarsi è una delle pratiche linguistiche che della parola sanno esprimere l’intera potenza nel racconto che la mente narra a se stessa.
Che l’Altro sia una figura linguistica è esattamente ciò che il film mostra.

Sul virtuale

Presenza e realtà
Sul virtuale

in Dialoghi Mediterranei
n. 62, luglio-agosto 2023
pagine 27-33


Indice

-Una premessa metafisica 
-La presenza
-Realtà e documanità
-Una «biopolitica progressista»
-Simulacri 

Dopo una breve premessa a sostegno del realismo metafisico – vale a dire che il mondo esista indipendentemente da qualunque entità che lo percepisca – ho cercato di descrivere le diverse prospettive sul virtuale proposte da due recenti libri di filosofi italiani: Contro Metaverso. Salvare la presenza (Mimesis, 2022) di Eugenio Mazzarella e Documanità. Filosofia del mondo nuovo (Laterza, 2021) di Maurizio Ferraris. Ho concluso con un accenno al concetto di «simulacro» proposto da Jean Baudrillard, il quale difende la presenza rispetto alla società dello spettacolo diventata l’«estasi della comunicazione», che si è trasformata a sua volta nella pervasiva potenza di un virtuale il cui esito ultimo è la rimozione della presenza, la dissipatio della realtà.

Gnosi / Nietzsche / Metaverso / Poesia

Da martedì 18 a giovedì 20 aprile 2023 il filosofo e poeta Eugenio Mazzarella parteciperà ad alcuni eventi che si svolgono a Catania, a due dei quali collaborerò anch’io.
Li riassumo sinteticamente qui:

-martedì 18 aprile, ore 16.00, Dipartimento di Scienze Umanistiche, Sala Rotonda del Coro di Notte, presentazione del volume di Lucrezia Fava Heidegger e la Gnosi (Mimesis 2022);
-mercoledì 19 aprile, ore 10.00, Dipartimento di Scienze Umanistiche, aula 252 (e non aula A4 come indicato nella locandina) lezione per gli studenti di Filosofia teoretica (e per chiunque fosse interessato) su Nietzsche / Metaverso;
-mercoledì 19 aprile, ore 18.00, libreria Feltrinelli, dialogo con Giuseppe Frazzetto e Lucrezia Fava su Contro Metaverso. Salvare la presenza (Mimesis, 2022);
-giovedì 20 aprile, ore 10.30, Dipartimento di Scienze Umanistiche, aula 31, dialogo sulla più recente raccolta poetica di Mazzarella, Cerimoniale (Crocetti editore 2023)

I primi due eventi sono organizzati dall’ASFU (Associazione Studenti di Filosofia Unict) e dal progetto di ricerca di Ateneo EuRoad (Europa Tràdita).

 

 

 

Servitù digitale

Sul Metaverso
Aldous, 23 marzo 2023

Aldous ha pubblicato una versione più ampia della riflessione che sul Manifesto ho dedicato al libro di Eugenio Mazzarella Contro Metaverso. Salvare la presenza (Mimesis 2022, pp. 142).
L’integrazione riguarda in particolare le affermazioni che riporto qui sotto.
Se si guardano le modalità concrete nelle quali sinora si è tradotto questo progetto, emerge appunto la sua somiglianza con forme di dominio assai tradizionali, un «uso oligarchico e lucrativo della rete da parte di uomini su altri uomini» che si manifesta, tra l’altro, in «concretissimi processi di alienazione sociale, esistenziali e finanche percettivi […]. Non ci si rende conto che il web è la nuova gleba a cui siamo asserviti, paradossalmente ancora più stanziale della vecchia gleba, perché è racchiusa nel fazzoletto di terra di uno schermo che ci viene fornito a ‘casa’, senza neppure necessità che si esca ‘in campagna’».
Lungi dall’essere smart, intelligente e agile, il telelavoro è una «truffa che rischia di aggiornare online il cottimo della manifattura domiciliare senza fabbrica». E dunque la decantata da troppi (Luciano Floridi, ad esempio) ’quarta rivoluzione’ dell’infosfera si rivela un ulteriore «passaggio epocale nella storia dell’alienazione intrinseca all’umano nel rapporto con i suoi mezzi». Un’alienazione proprio nel senso marxiano, una rinuncia all’autonomia e all’emancipazione per sottomettersi invece senza neppure averne coscienza a una «oligarchia dei padroni pubblici e privati del web nel Deep State  del potere dell’infosfera».

Software / Androidi

iHuman
di Tonje Hessen Schei
Danimarca-Norvegia, 2019
Trailer del film

Parole, immagini. Pensieri, forme. Interviste a informatici, ingegneri, sociologi, avvocati, politici, economisti, coinvolti nella densità dell’Intelligenza Artificiale. Mentre appaiono punti digitali che crescendo si trasformano in volti inquietanti e ambigui, si cerca di comprendere e comunicare che cosa sia già accaduto, che cosa sia diventato irreversibile rispetto alle strutture numeriche dalle quali ormai da tempo la specie umana dipende totalmente, fingendo di non essersene accorta o anche, effettivamente, senza essersene accorta ma essendo immersa per intero negli smartphone continuamente consultati; nel digital labour applicato a sempre più numerosi settori economici e sociali compresa l’istruzione e il sapere -con esiti assai impoverenti, nozionistici–; nella distanza dei corpi sostituiti da ologrammi; nel controllo totale che i sistemi digitali consentono di esercitare sui cittadini; nelle armi che colpiscono da enormi distanze come fossero dei videogiochi; nella fragilità di infrastrutture digitali il malfunzionamento delle quali bloccherebbe tutto: trasporti, sanità, banche, amministrazioni, politica.
E così, lentamente e inesorabilmente, Homo sapiens si è consegnato all’altro da sé, all’artificio da lui scaturito ma su di lui ora dominante con la forza delle cose stesse e non della volontà. La prima forza, quella delle cose, è enormemente più efficace della seconda; da essa non si può sfuggire, essa è l’inesorabile della materia virtuale. Propongo questo ossimoro per dare conto della capacità che il digitale ha, che i numeri hanno, di plasmare la materia. Anche per questo iHuman è un film bello e inquietante, perché le parole degli umani che studiano il fenomeno -che siano parole di entusiasmo e fiducia o di timore e pericolo– sono continuamente accompagnate da immagini che mostrano la materia trasformarsi nel suo contatto con i numeri.
Una delle questioni fondamentali è la collocazione spaziotemporale che qualunque forma di coscienza del mondoambiente deve avere per entrare in relazione con l’altro da sé. Una capacità necessaria per interagire con altri agenti e in questo modo sviluppare l’abilità linguistica e con essa la facoltà di pensare. L’esserci è sempre un esistere nello spazio e nel tempo e non soltanto un astratto sussistere logico-computazionale, e ciò fa sì che le caratteristiche indispensabili ai cosiddetti “agenti”, delle reti neurali orientati all’interazione con il mondo esterno consistano «nell’essere situati, autonomi, adattativi, sociali, nell’essere dotati di continuità temporale e mobilità»; di più: «ogni agente dovrebbe inoltre possedere motivazioni finalizzate alle proprie azioni, la capacità di concentrare la propria attenzione sugli aspetti rilevanti dell’ambiente potenzialmente complesso in cui potrebbe trovarsi ad agire, modelli interni che esemplifichino l’ambiente esterno e una sorta di “curiosità” che lo porti a interessarsi alle caratteristiche del proprio mondo» (Barbara Giolito, Intelligenza artificiale. Una guida filosofica, Carocci 2007, p. 117).
Nessun tipo di hardware e di software esistente possiede alcuna consapevolezza di esistere. Il film mostra che, nonostante questo, hardware e software condizionano in modo determinante le scelte politiche e la vita collettiva della specie che invece possiede la consapevolezza di esistere.
iHuman diventa iPower, diventa il potere digitale che penetra negli interstizi più riservati della vita individuale e collettiva. Un’autorità sempre più capace di sostituire l’amministrazione umana. Non l’immaginazione, come credeva il Sessantotto, ma gli algoritmi sono arrivati al potere. I nostri nipoti avranno molto di cui preoccuparsi.

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