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Sangue

Confessions
(Kokuhaku)
di Tetsuya Nakashima
Con: Takako Matsu (Yuko Moriguchi), Yukito Nishii (Shuya Watanabe), Kaoru Fujiwara (Naoki Shimomura), Yoshino Kimura (la madre di Naoki)
Giappone, 2010
Trailer del film

Non è facile riassumere la trama di questo film ma non è neppure necessario. Detto in poche parole: un’insegnante di scuola media comprende che la propria bambina di quattro anni non è morta per un incidente cadendo in piscina ma è stata uccisa da due dei suoi alunni. Come una macchina insieme logica e biologica, organizza una vendetta che non lascia scampo poiché fa sì che siano gli stessi ragazzi/assassini ad attuarla su di sé.
Interessante, certo. Ma la forza dell’opera sta soprattutto nella forma capace di restituire la densità degli eventi lungo temporalità diverse, fondendo musica e linguaggio umano, capovolgendo e moltiplicando il significato di scene all’inizio univoche, utilizzando dei semplici specchi posti all’angolo delle strade come elemento visivo e distorto del racconto, trasformando il disordine iniziale della classe in un geometrico labirinto del castigo.
Strutture narrative visionarie delle quali l’occhio gode senza pause e che stimolano una riflessione attenta sull’umano al di là della sociologia dell’educazione, del chiaro fallimento pedagogico che intrama persino una società abituata da secoli al rispetto come quella nipponica. La convergenza di normative incapaci di cogliere l’efferatezza della specie, di principi didattici ignari della complessità dell’apprendere, di tecnologie al servizio del narcisismo idiota dei singoli e dei gruppi, tutto questo scatena una violenza tanto estrema quanto quotidiana. Il sangue è qui non una sostanza biologica ma un puro simbolo dell’enigma molteplice che è l’umano, alla maniera di Shining pur nella distanza siderale delle trame.
E su tutto la Madre. Quella la cui figlia è stata assassinata ma anche e specialmente le altre due. Una la cui assenza è tra le ragioni del comportamento malvagio del ragazzo, l’altra la cui presenza è tra le ragioni del comportamento malvagio del ragazzo.
È con profondo compiacimento che si percepisce l’inevitabilità del convergere di queste tre madri dentro la morte. Hanno dato la vita. Per questo vengono giustamente punite.

Antropodecentrismo

Lo scorso 18 febbraio ho tenuto una delle mie ultime lezioni in presenza -vale a dire delle vere lezioni– alla Statale di Milano, ospite del Prof. Gianfranco Mormino, che ha voluto inaugurare un ciclo di seminari sulla disobbedienza con un mio intervento dedicato all’animalità.
È stata sinora l’unica lezione svolta come previsto, con la presenza attiva e calorosa degli studenti, e metto volentieri a disposizione l’audio di un incontro per me fecondo e assai intenso.

Dopo l’introduzione di Gianfranco Mormino, che ha illustrato contenuti e obiettivi del ciclo, ho cercato di sviluppare i seguenti punti:
-Materia e vita
-L’antropocentrismo come mito teoretico invalidante
-Umanismo, animalità e violenza
-Identità e Differenza
-La parola animale
-Etoantropologia
In generale, ho argomentato sul superamento del paradigma vitruviano –la perfetta figura umana dentro un chiuso cerchio– a favore di una pratica antropodecentrica e postumana.

«Die Pinie scheint zu horchen, die Tanne zu warten; und beide ohne Ungeduld: — sie denken nicht an den kleinen Menschen unter sich, den seine Ungeduld und seine Neugierde auffressen»
‘Il pino sembra ascoltare, l’abete aspettare -ed entrambi senza impazienza: essi non pensano al piccolo uomo sotto di loro, che viene divorato dalla sua impazienza e dalla sua curiosità’
Nietzsche, Umano, troppo umano II, «Il viandante e la sua ombra» (trad. di S. Giametta), af. 176, Die Geduldigen – I pazienti.

Smarriti

Memorie di un assassino
(Salinui chueokMemories of Murder)
di Bong Joon-ho
Con: Song Kang-ho (Il detective Park Doo-Man), Sang-kyung Kim (Il detective Seo Tae-Yoon), Roe-ha Kim (Il detective Cho Yong-koo)
Corea del Sud, 2003
Trailer del film

Dopo il meritato successo di Parasite -un film sulla lotta di classe in pieno XXI secolo- viene distribuito Memories of Murder (2003), meno maturo (com’è naturale) di Parasite ma dirompente nel dominio della lotta. In questo caso quella tra una compagnia di poliziotti della provincia coreana -persone qualsiasi, mediamente stupide, mediamente sadiche, «poveracci», come dice uno di loro– e un serial killer imprendibile, perverso e veramente malvagio, le cui vittime subiscono una morte iniqua, ragazze abbandonate alla gelida furia di questa entità. La quale diventa un catalizzatore di conflitti, di corruzione, di incubi che abitano endemici dentro il corpo sociale, riflessi dalla luce slavata e plumbea degli ambienti, dallo squallore profondo delle cose.
L’intensità della violenza è simile a quella di Seven (David Fincher, 1995) ma tutto il resto è agli antipodi di Hollywood: arcaico, disincantato, vero. Sorprendente, solitaria e inquietante la scena conclusiva: 17 anni dopo i fatti lo sguardo del detective Park Doo-Man guarda interrogante e smarrito una bambina.
Le memorie non sono quelle dell’assassino ma dell’intero suo mondo.

Valori / Sadismo

Valori, violenza, sadismo
in Liberazioni – Rivista di critica antispecista
Anno X / n. 39 / inverno 2019
Pagine 75-82

Indice
-Il sacrificio
-La corporeità
-Caduta e alimentazione

In realtà lo gnostico si chiede perché nel mondo c’è proprio questa necessità biologica del dolore; si chiede, più universalmente, perché il mondo dei viventi è fatto proprio in questo modo, quando potrebbe naturalmente essere pensato e articolato in molte altre maniere (p. 79).

 

Cile, bianco sangue

Blanco en Blanco
di Théo Court
Con: Alfredo Castro (Pedro, il fotografo), Lars Rudolph, Danny Huston (L’amico), Lola Rubio, Esther Vega
Spagna, Cile, Francia, Germania, 2019
Trailer del film

Agli inizi del Novecento parte del Cile era ancora terra di conquista di proprietari terrieri simili a quelli che agli inizi del XXI secolo vanno distruggendo l’Amazzonia, allo scopo soprattutto di creare pascoli e rifornire di carne le mense statunitensi ed europee.
Porter è uno di questi ricchi proprietari, le sue terre sono molto a Sud. Pedro è un fotografo che viene incaricato di immortalare il matrimonio di Porter e Sara, la sua giovane sposa. Sara è in realtà poco più che una bambina e Pedro ne viene affascinato. Porter non si presenta nella propria tenuta, il matrimonio viene rinviato, Pedro è coinvolto dagli sgherri di Porter nella strage delle popolazioni che abitano la Terra del Fuoco, i Selknam, che da questa conquista vennero sterminati sino a estinguersi. È uno dei tanti genocidi che sono accaduti e vengono dimenticati, concentrati come siamo a ricordarne incessantemente uno solo.
La prima parte del film narra l’arrivo di Pedro, il suo lavoro sul corpo e sull’immagine della sposa, il gelo che soffia tra le case e sulla terra. La seconda parte descrive il cedimento del fotografo/artista alla violenza perpetrata da coloni che non rispettano nulla, che massacrano e si fanno poi immortalare in queste loro imprese. Pedro organizza le foto della caccia grossa contro altri umani con la stessa meticolosità con la quale ha fotografato la sposa bambina. Due stupri, uno storico e l’altro allegorico, dai quali è nato il Cile moderno, come le altre nazioni frutto dei conquistadores, dei mercanti, dei missionari cristiani. Il luogotenente di Porter, infatti, sostiene che il primo edificio da costruire in un nuovo villaggio deve essere la chiesa.
I ritmi sono analoghi a quelli delle fotografie che emergono a poco a poco dalla camera oscura di Pedro; le inquadrature somigliano a dei dipinti solitari e lontani; non ci sono infatti primi piani in questo film ma immagini che rinviano agli spazi sconfinati e a una altrettanto grande solitudine. La fragilità di Pedro di fronte alla violenza degli umani, all’indifferenza del vento, al bianco della neve, disegna la disperazione della storia.

Metafore comuniste

Parasite
di Bong Joon-ho
Con: Choi Woo-Sik (Ki-Woo), Park So-dam (Ki-Jung), Song Kang-ho (Ki-Taek), Sun-kyun Lee (Mr. Park),  Yeo-jeong Jo (Yeon-Kyo), Hyae Jin Chang (Chung-Sook)
Corea del Sud, 2019
Trailer del film

«È tutto così metaforico» dichiara più volte Ki-Woo, che insieme a madre, padre e sorella vive in un basso di Seul, in una condizione di miseria vanamente contrastata da lavori precari da parte di tutti i membri della famiglia. Un suo amico gli offre la possibilità di sostituirlo come insegnante di inglese di una ricca famiglia della città. Ki-Woo accetta e a poco a poco riesce a portare con sé la sorella (che diventa l’insegnante di educazione artistica), il padre (autista), la madre (governante). Tutti trascorrono adesso gran parte del loro tempo nella grande villa della famiglia ricca, un magnifico esempio di architettura contemporanea dall’alto della quale si domina Seul. Il progressivo innestarsi della famiglia miserabile dentro quella facoltosa è interrotto dal ritorno della vecchia governante, che sposta la vicenda nei sotterranei della casa, nella loro miseria, in altri inganni. E questo mentre un vero e proprio diluvio si abbatte sulla città, dopo il quale il sole, tornato a splendere nell’aria resa pura, illumina il dominio della lotta.
«È tutto così metaforico» in questo film profondamente politico, che mostra come e quanto siano mutate la società contemporanea e le sue espressioni culturali se ormai si può fare un cinema politico -che non annoi- quasi soltanto attraverso il grottesco, l’eccesso, il surreale, il traslato. Le trasparenti metafore dell’alto e del basso, dell’annegamento delle classi subalterne dentro le acque della loro miseria, della sterilità anche della violenza, fanno di Parasite un’opera umoristicamente rassegnata, la cui saggezza sta nell’evitare quasi del tutto il compiacimento sentimentale verso i miserabili e la condanna moralistica verso i ricchi, entrambi accomunati dal tentativo di possedere, sprecare, sopraffare.
Il film è costellato di elementi metaforici, appunto: dagli Indiani d’America ad antiche pietre apotropaiche, dall’acqua al buio, dalla pervasività dei telefoni cellulari alla forza del desiderio erotico, da Basquiat all’ordine geometrico che i corpi individuali e collettivi vorrebbero imporre al divenire. Vanamente. Tanto che il padre ‘povero’ afferma con chiarezza che «il miglior piano è non avere un piano, così non puoi fallire».
Un film molto più amaro di quanto non sembri, che mantiene un ritmo eccellente sino agli ultimi venti minuti, quando il susseguirsi di simboli, colpi di scena, finali e controfinali toglie progressivamente forza alla metafora.
«La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classe. […] I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono esser raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente» (Marx-Engels, Manifesto del Partito comunista, a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Laterza 1981, pp. 54 e 124). Affermazioni alle quali nessuno più crede nelle opzioni politiche ma che rimangono pervasive nei fatti. Il loro nascondimento – o persino rifiuto – tramite il principio astratto e umanistico della non violenza è anch’esso uno strumento della lotta di classe che le borghesie finanziarie vanno combattendo con successo contro i «proletari di tutto il mondo». La lotta di classe, infatti, non è mai cessata e nel nostro tempo la sta vincendo il capitalismo neoliberista, vale a dire il parassita del corpo sociale.

Technotod

Climax
di Gaspar Noé
Francia, 2018
Con: Sofia Boutella (Selva), Kiddy Smile (Daddy), Romain Guillermic (David), Souheila Yacoub (Lou), Taylor Kastle (Taylor), Claude Gajan Maude (Emmanuelle), Giselle Palmer (Gazelle)
Trailer del film

Una donna ripresa dall’alto. Striscia in mezzo alla neve bianca, lascia tracce di sangue.
Un televisore sul quale scorrono delle interviste ad alcuni ballerini; dietro di loro un muro scrostato; alla sinistra del monitor si vedono accatastate delle videocassette di film come Un chien andalou, Harakiri, Suspiria, Possession, Zombie, Schizophrenia, Le droit du plus fort.
La telecamera si allontana da una grande bandiera francese in primo piano, dalla quale si apre una sala dove venti ballerini si muovono in una danza armoniosa, estatica, estrema. Cinque minuti di godimento dello sguardo e dei corpi.
«Dio è con noi».
Pausa. Ragazzi e ragazze mangiano qualcosa, bevono della sangria.
Una dopo l’altra brevi scene nelle quali a due a due i personaggi dialogano manifestando intenzioni, gioia, ossessioni, aggressività, preoccupazione.
Tutto comincia a oscillare sino a capovolgersi, i corpi si abbrancano e respingono, i dialoghi diventano feroci, le azioni imprevedibili. Urla, pianti, sussulti, l’ancestrale e infinita ricerca di capri espiatori, l’espulsione, la reclusione, il desiderio.
Lentamente e in modo del tutto naturale lo spazio si restringe ai particolari più vicini, a frammenti di materia; il divenire scivola nella luce rovinosa e inquietante di un rosso sempre più pervasivo, sino al bianco di occhi estatici che dissolvono la loro identità nel nulla.
In tutto questo la musica techno e disco continua, inesorabile, a battere il tempo. Sullo schermo compaiono affermazioni come: «La vita è un’impossibilità collettiva»; «Morire è un’esperienza straordinaria».
Un sabba.
«Fu il vecchio direttore dello ‘Hibbert Journal’, L.P. Jacks, a proporre di sostituire la definizione linneana Homo sapiens con questa denominazione [Neo-anthropus insipiens damnatus], più appropriata, per i folli che ora si preparano a distruggersi a vicenda e a mandare in rovina tutte le proprie opere, fino alla completa estinzione»1.

Nota
1. Robert Eisler, Uomo diventa lupo, Un’interpretazione antropologica di sadismo, masochismo e licantropia (Man into Wolf. An Anthropological Interpretation of Sadism, Masochism and Lycanthropy [a lecture delivered at a meeting of the Royal Society of Medicine], 1951), trad. di R. Montanari, Adelphi 2019, p. 103.

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