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Buio

La terra dell’abbastanza
dei Fratelli D’Innocenzo
Italia, 2018
Con: Andrea Carpenzano (Manolo), Matteo Olivetti (Mirko), Milena Mancini, Max Tortora, Michela De Rossi, Luca Zingaretti
Trailer del film

Periferie romane. Periferie dell’esistenza. Periferie del senso. Periferie dove Manolo e Mirko frequentano malvolentieri un istituto alberghiero e trascorrono il loro tempo nel vuoto. Sino a che una sera, senza volerlo, investono e uccidono un passante. La vittima è un pentito della malavita romana che si era dissociato e che si nascondeva. I due hanno quindi fatto un favore ai criminali locali che gestiscono droga, puttane, pedofilia e altre nobili attività. Il padre di Manolo vede in questa circostanza l’occasione fortunata «per svoltare», vale a dire per imprimere un significato diverso alle loro vite, entrando nel clan al quale hanno fatto l’involontario favore. Manolo conduce con sé Mirko e i due cominciano naturalmente e inevitabilmente il loro itinerario dentro il male. Le loro esistenze sono vuote e dannose quanto prima ma adesso sono esistenze con del denaro.
Nessuna psicologia in questo film d’esordio dei fratelli D’Innocenzo. Un’opera il cui mondo è vicino alla volgarità dei parvenu di Favolacce (2020) e all’autismo del dottor Sisti di America Latina (2021). In tutti e tre i film la cinepresa sta addosso ai corpi, ai volti e agli sguardi dei personaggi. Qui la scena più bella e più inquietante è infatti quella in cui in un bar Mirko e sua madre guardano la vetrina dei dolci. Come se un lampo di tenerezza, di complicità e di assurdo afferrasse le immagini. In tutti e tre i film la solitudine è assoluta e inemendabile, tanto più quanto i personaggi appaiono tra di loro sodali. In tutti e tre i film le persone che vivono e operano non avrebbero dovuto nascere. Sarebbe stato meglio per tutti. Meglio anche e abbastanza per loro.
Nessuna psicologia dunque in questi film. Ed è uno dei loro pregi maggiori. Dalle strade, dai lampioni, dalle camere da pranzo di case assurde – ricche o miserabili che siano -, dagli occhi e dalla pelle degli umani raccontati dai fratelli D’Innocenzo traspare, suda, vince un’ontologia del buio.

Fiction

Nightmare Alley
(La fiera delle illusioni)
di Guillermo Del Toro
USA, 2021
Con: Bradley Cooper (Stanton ‘Stan’ Carlisle), Rooney Mara (Molly), Cate Blanchett (Lilith Ritter)
Trailer del film

Stati Uniti d’America 1940-41. Un uomo solitario ha appena seppellito (‘bruciato’, esattamente) suo padre e va in cerca di fortuna. Stan è infatti molto, molto avido. Si aggrega a un luna park ambulante, impara i trucchi ‘mentalisti’, lascia la fiera portando con sé la fidanzata, indispensabile per la riuscita dei suoi trucchi, diventa ricco ma non gli basta. Dopo aver incontrato una psicoanalista, concorda con lei di truffare dei pazienti ricchissimi e angosciati, utilizzando le confidenze che lei gli trasmette. Ma la dottoressa Lilith è ancora più infame di lui e le persone ingannate da Stan sono assai potenti.
Ho commesso l’errore di vedere un secondo film di Guillermo Del Toro dopo lo scadente La forma dell’acqua del 2017. Come in quell’opera, le ambizioni sono alte: penetrare nel cuore umano, nella sua tenebra e follia, tramite l’intensità dei colori fumettistici posta al servizio di corpi in continua tensione. E come in quell’opera il risultato è finto, banalmente finto, ostentatamente finto ma con la pretesa di convincere lo spettatore che sia autentico.
Il cinema è finzione, certo, come il teatro o la letteratura. Ma è una finzione che diventa una delle forme più limpide di verità quando un’idea, la scrittura, la tensione esistenziale dell’autore trovano il giusto equilibrio tra il calore delle passioni creative e la distanza della forma tecnica.
In questo film, invece, i caratteri sono tutti delle rigide caricature: l’ambizioso, la perfida, l’ingenua, il potente, lo sciocco, il nano, la bestia…e così via. L’atmosfera ‘dark’ si risolve in una truculenza da Grand Guignol, sin dalle scene iniziali della casa bruciata e dell’«uomo bestia» che sgozza con i denti un pollo. L’ostentata raffinatezza degli ambienti della seconda parte del film è veramente di cartapesta. La mescolanza di Far West e psicoanalisi è rivelatrice della pochezza di tutta la trama. Una psicoanalisi davvero da operetta in ogni sua manifestazione.
Qualcosa di vero c’è però in questo Nightmare Alley, in questo vicolo terrificante. Questo qualcosa è il disvelamento dell’ossessione statunitense per il denaro, disvelamento della violenza che questa nazione scatena da quando esiste per accumularne la maggiore quantità possibile. Il film è finto ma gli Stati Uniti d’America sono veri.

Solitudine napoletana

5 è il numero perfetto
di Igort (Igor Tuveri)
Italia, 2019
Con: Toni Servillo (Peppino), Carlo Buccirosso (Totò ‘o Macellaio), Valeria Golino (Rita), Emanuele Valenti (Ciro), Vincenzo Nemolato (Mister Ics), Nello Mascia (il medico), Angelo Curti (Don Lava), Mimmo Borrelli (Don Guarino)
Trailer del film

Un atto d’amore verso la storia del cinema (con citazioni esplicite ed implicite da tanti film, non soltanto noir); un atto d’amore verso una Napoli solitaria, simbolica e piovosa; un atto d’amore verso i fumetti, dei quali il regista è autore assai noto. La vicenda è infatti tratta da una sua graphic novel e ogni inquadratura, in effetti, sembra una tavola, rimanendo però sempre cinema. Un cinema-gangster che narra di un sicario professionista ormai in pensione – Peppino Lo Cicero – il cui figlio, sicario anch’egli, è vittima di una trappola e viene assassinato quando avrebbe dovuto essere lui l’assassino.
Il figlio era l’unica gioia e significato della vita di Lo Cicero. Quando era bambino, il padre gli insegnava che al mondo tutto è necessario «per l’equilibrio biologico, che è delicatissimo». Sono necessari dunque anche gli insetti e i delinquenti, come nelle riviste di enigmistica le caselle bianche esistono e funzionano soltanto perché ci sono anche quelle nere a contrapporsi.
Per il suo ultimo compleanno il padre aveva regalato a Ciro una bellissima – e funzionante – Colt d’epoca
Privato di questo figlio, Peppino si trasforma da gregario dei boss della camorra in guappo di prima grandezza, uccidendo, sterminando, dominando. Compiuta la sua vendetta, parte con un’antica amante verso il Sudamerica, dove vive tranquillo sino a quando una notizia da Napoli, letta su un quotidiano italiano, gli disvela le vere ragioni e modalità dell’uccisione del figlio. Accompagnato da quest’ultima amarezza, Peppino si allontana su una rigogliosa spiaggia tropicale.
L’Italia del 1972 diventa una summa di epoche, abbigliamenti, automobili, libri (l’amica del sicario legge sulla spiaggia Il Gattopardo) e stili diversi.  Tutti però segnati dalla malinconia del nulla, dalla pervasività della violenza, dalla nostalgia verso paradisi perduti. Che 5 sia il numero perfetto si riferisce alla inoltrepassabilità della solitudine: «2 gambe, 2 braccia, 1 testa. Questa è la mia casa, questa è la mia famiglia».

Arcaismi oggi

Ti mangio il cuore
di Pippo Mezzapesa
Italia, 2022
Con: Francesco Patané (Andrea Malatesta), Elodie (Marilena Camporeale), Tommaso Ragno (Michele Malatesta), Lidia Vitale (Teresa Malatesta), Michele Placido (Vincenzo Montanari), Francesco Di Leva (Giovannangelo)
Fotografia di Michele D’Attanasio
Trailer del film

Un bianco e nero sporco e arcaico disegna un film solo apparentemente ‘di mafia’. Da una storia in parte realmente accaduta in Puglia, nel Gargano, il regista distilla infatti un significato universale, antico e terribile, quello racchiuso in queste parole di Thomas Hobbes:

Da ciò appare chiaramente che quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. […] Perciò, tutte le conseguenze di un tempo di guerra, in cui ciascuno è nemico di ciascuno, sono le stesse del tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza che quella di cui li doterà la loro propria forza o la loro propria generosità. […] E, ciò che è peggio, v’è il continuo timore e pericolo di una morte violenta; e la vita dell’uomo è solitaria, misera, ostile, animalesca e breve.
(Leviatano, a cura di Arrigo Pacchi, Laterza 1989, pp. 101-102)

Tale è infatti la vita dei Malatesta e dei Camporeale, due famiglie di antico odio. La loro attività ufficiale è la pastorizia. Buoi, maiali, pecore sono infatti continuamente presenti nel film. Con la loro violenza, la loro innocenza, la loro sporcizia, del tutto naturali. Altrettanto naturali appaiono la violenza, l’innocenza e la sporcizia in cui vivono nel 2004 Michele Malatesta (capofamiglia e unico sopravvissuto da bambino, nel 1960, allo sterminio di tutti i suoi familiari), sua moglie, i figli. I quali non hanno mai dovuto uccidere perché, come afferma Michele rivolgendosi al primogenito Andrea, «ho riempito il camposanto per farti dormire la notte».
Nemica è la famiglia dei Camporeale, a mediare tra loro la famiglia Montanari. Accade però che Andrea Malatesta inizi una relazione con Marilena, l’assai avvenente moglie del capo dei Camporeale. Si scatena inevitabile la guerra, il cui esito sarà imprevisto ma la cui modalità è inesorabile. Prima di questa catastrofe le tre famiglie confliggono su chi debba avere l’onore di portare il fercolo della Madonna nella festa di paese. I Camporeale arrivano a offrire, per bocca di Marilena, 100.000 € e il prete risponde «La Madonna ringrazia la signora». Madonna una cui statuetta insanguinata è l’immagine con la quale il film si apre. I riti cattolici, le costumanze, le cappelle, le processioni, le feste, segnano e scandiscono i momenti chiave della vicenda. Dappertutto spira un clima di colpa e di morte.
Completamente assenti sono le forze dell’ordine, i magistrati, le istituzioni diverse dalla famiglia e dalla parrocchia cattolica. E questo conferma che il film vuole avere e ha una valenza metaforica, un significato simbolico profondamente inscritto nella storia del Meridione d’Italia, del Mediterraneo, della loro antropologia diffidente, solitaria, nemica.
Il regista si sofferma spesso sui volti e sui ritratti, quasi a voler scolpire negli sguardi la rassegnazione alla sottomissione, alla violenza e alla morte. Una narrazione mitologica, dunque, e universale. Poiché al di là delle contingenze sociologiche e della cronaca, l’inferno sono gli altri, come affermò Sartre copiando Schopenhauer: «La verità è che siamo destinati a essere miserabili, e lo siamo. Aggiungiamo che la fonte principale dei mali più seri che possono affliggere l’uomo  è l’uomo stesso […] dato che ognuno è destinato a essere il diavolo dell’altro» (Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione»,1844, a cura di Giorgio Brianese, Einaudi 2013, p. 737).
Ogni antropologia positiva naufraga davanti ai sentimenti umani. La nostra specie non ne ha colpa, come non ce l’hanno buoi, maiali, pecore. O meglio, la colpa è ab origine in tutti ed è la nascita. Dietro le modalità narrative e l’espressività arcaica di Ti mangio il cuore sta questa semplice verità, antica e perenne.

 

Gentilezza

Kinds of Kindness
di Yorgos Lanthimos
Gran Bretagna, 2024
Con: Jesse Plemons (Robert, Daniel e Andrew), Emma Stone (Rita, Liz ed Emily), William Defoe (Raymond, George e Omi), Margaret Qualley (Vivian, Martha e le gemelle Ruth e Rebecca), Hong Chau (Sarah, Sharon e Aka), Yorgos Stefanakos (R.M.F.)
Sceneggiatura di Efthymis Filippou
Trailer del film

Simboli su simboli si sovrappongono e stratificano dentro un film che può apparire (ed è) una commedia nera in tre episodi, un divertimento camaleontico per attori che interpretano personaggi assai diversi, una narrazione pulp nella quale scorre una discreta quantità di sangue sino a pratiche cannibaliche in cucina.
Ma dietro e dentro l’ironico titolo di un film dove la gentilezza proprio manca si intravvedono miti e credenze antiche, si direbbe quasi consustanziali a due greci come il regista e lo sceneggiatore Efthymis Filippou.
Il primo episodio si intitola La morte di R.M.F. e descrive un dirigente/demiurgo capriccioso e determinato che impone a un suo collaboratore/servo le azioni più bizzarre ed estreme, sino a ordinare in dettaglio le azioni quotidiane (sue e della moglie) e a chiedergli di assassinare un uomo. In seguito al rifiuto Robert viene licenziato ma non accetta questo esito e fa di tutto per ingraziarsi il capo/dio e tornare al suo servizio, compreso il cercare di compiere l’assassinio che gli era stato ordinato.
Nel secondo episodio, R.M.F. vola, un poliziotto è gravemente depresso perché la moglie è dispersa in un atollo a seguito di un naufragio. Quando Liz viene ritrovata sana e salva Daniel però non è affatto contento e convinto, perché sospetta che in realtà si tratti di una sosia, di una usurpatrice. Neppure i gesti più estremi di fedeltà e d’amore di Liz lo convincono e la donna arriva alla morte, tranne poi riapparire e finalmente essere accolta dal marito. La scena finale è una chiara illustrazione del mito della morte e resurrezione.
Il terzo episodio, R.M.F. mangia un sandwich, è il più chiaro nell’indicare la matrice teologica del film. Racconta infatti di una setta guidata da una coppia, maschio e femmina (Omi e Aka), le cui lacrime mescolate con l’acqua costituiscono l’unica bevanda ammessa e i cui membri non possono avere rapporti sessuali se non con Omi e Aka e con chi da loro è autorizzato. I disobbedienti vengono purificati  tramite una sauna quasi mortale. L’obiettivo del gruppo è trovare una donna capace di resuscitare i morti. Andrew ed Emily, membri della setta, si mettono alla ricerca di questo Messia. Andrew è gelido ed efficiente, Emily è appassionata e tenace. Sarà lei a trovare l’eletta ma anche a segnarne il destino.
Molti altri sono gli elementi simbolici di questo film, tra i quali un sogno di capovolgimento del rapporto tra l’animalità umana e gli altri animali (in particolare i cani). In ogni caso, si tratta di una favola teologica sul destino dei viventi (per una lettura marcatamente gnostica rinvio a questo interessante commento di Francesco Patrizi: Un film sul rapporto uomo/dio). Il personaggio che si chiama R.M.F. muore, vola, risorge ed è lo sfondo, l’occasione, l’oggetto di tutti e tre i racconti, senza in pratica mai dire una parola. Le iniziali del suo nome rimangono enigmatiche ma il contenuto al quale rimandano è abbastanza chiaro ed è inscritto in una antropologia e cosmologie gnostiche per le quali questo mondo è intessuto di insensatezza, passioni e ferocia, è del tutto privo di gentilezza, è abitato da divinità usurpatrici e capricciose, può essere redento non dalle azioni che sono sempre destinate allo scacco, al fallimento e al male, ma dall’affrancamento da ogni eccesso emotivo; una liberazione conseguita tramite la conoscenza che quello che abitiamo è appunto un mondo perduto. E a partire da tale consapevolezza praticare la distanza (non certo l’amore) che di ogni gentilezza è la condizione.

Squadristi

Squadristi
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
3 maggio 2024
pagine 1-8

Il 19 aprile 2024 è stato diffuso un comunicato del Cuda, un coordinamento di docenti dell’Università di Catania, a proposito di un Convegno che si sarebbe dovuto tenere il giorno stesso nell’Aula Magna dell’Ateneo. Nell’articolo riporto questo documento; subito dopo si può leggere la mia risposta, alla quale segue un resoconto del collega Carmelo Ferlito su quanto accaduto in Aula Magna quel pomeriggio. Il quarto e ultimo testo è parte di una mia ulteriore risposta apparsa sulla mailing list del Cuda.
Nell’articolo ho utilizzato la categoria «squadrismo» al di là dei suoi limiti storici per indicare il seguente significato: Azione di violenza fisica o verbale attuata da un gruppo organizzato per impedire ad altri, singoli o gruppi, di esercitare i diritti costituzionali, di muoversi nello spazio pubblico, di esprimere le proprie opinioni.
Credo che l’insieme di tali documenti descriva in modo assai vivido gli impulsi fortemente autoritari che guidano il politically correct e dei quali l’Università di Catania è stata vittima senza reagire.

Volontà di potenza

Alberto Capece è un giornalista che sul sito il Semplicissimus pubblica con regolarità delle analisi sintetiche, documentate e molto chiare sulla politica internazionale e qualche volta anche sulla politica italiana. Inoltro spesso oppure segnalo tali articoli come ‘commenti’ a qualche testo del mio sito. L’articolo di Capece pubblicato lo scorso 27 marzo mi sembra particolarmente rilevante e lo riprendo qui per intero.

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I clan della massima ferocia 

Lunedì mattina [25 marzo 2024], quando le responsabilità ucraine nell’attentato al Crocus sono cominciate ad emergere con evidenza, armi ipersoniche russe hanno distrutto un quartier generale dei servizi di intelligence di Kiev e della Nato pochi secondi dopo l’attivazione dell’allarme aereo. Le difese aeree occidentali, tanto vantate, hanno completamente fallito, come del resto era accaduto in numerose occasioni anche se in questo caso la posta era più alta. Questa non è una notazione secondaria perché vuol dire che la Russia ha distrutto il mito della superiorità dell’Occidente nell’applicazione della forza. Ecco la chiave storica con cui giudicare gli eventi che stiamo vivendo prendendo le parole da un saggio di Samuel P. Huntington scritto poco meno di trent’anni fa, Lo scontro di civiltà e il rifacimento dell’ordine mondiale: «L’Occidente ha vinto il mondo non per la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione (a cui si convertirono pochi membri di altre civiltà), ma piuttosto per la sua superiorità nell’applicare la violenza organizzata. Gli occidentali spesso dimenticano questo fatto; i non occidentali non lo fanno mai».

Il colonialismo occidentale iniziò nel XVI secolo con la scoperta delle Americhe (che fra le altre cose costituì la rovina economica per l’Italia che fino ad allora era stata l’area più ricca dell’Europa) e  terminò, con poche eccezioni, a metà del XX secolo. Questa forma di dominio è stata resa possibile dallo sviluppo delle tecnologie e dalla rapida crescita della popolazione, ma dalla seconda guerra mondiale in poi  l’ Occidente è passato ad un nuovo modello di governo del mondo: dopo le immense stragi perpetrate praticamente ovunque sul pianeta si è cominciato a parlare di valori umani e diritti umani e di alcune regole che presumibilmente avrebbero consentito a tutti di goderne. Però questa facciata non ha retto bene: l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, hanno abusato dell’ ‘ordine basato sulle regole’ aggirando il diritto internazionale ogni volta che non si adattava ai propri interessi. Ha continuato ad applicare la ‘violenza organizzata’ in tutte le circostanze e in ognuna di queste ha costruito delle regole diverse: Jugoslavia, Afghanistan e Iraq hanno dimostrato che l’Occidente avrebbe sostenuto qualunque regola gli potesse far comodo per giustificare le sue guerre. La recente vicenda del Niger che vorrebbe legarsi alla Russia e non agli Usa dimostra chiaramente che Washington sostiene la guerra contro la Russia per ragioni diverse dal diritto dell’Ucraina di scegliere i propri partner e di aderire alla Nato e che questo diritto esiste solo se la scelta cade sugli Usa.

Il conflitto in Ucraina è solo l’ultima ma più evidente dimostrazione che l’‘ordine basato sulle regole’ non esiste più, anche ammesso che sia esistito in qualche occasione: negli ultimi decenni, gli Stati Uniti hanno continuamente messo Mosca nella posizione di accettare il fatto compiuto dell’espansione della Nato a scapito degli interessi di sicurezza russi, oppure di resistere e subire le conseguenze di un crescente ostracismo economico e politico. Ma a un certo punto qualcosa si è rotto e l’accettazione russa dei ricatti occidentali è cessata, Mosca si è sottratta  dall’ostracismo occidentale, cambiando così l’intero equilibrio di potere non solo in Europa, ma nel mondo.
Ora, è la Russia che mette l’Occidente di fronte a un dilemma: può assistere al totale disfacimento dell’Ucraina, oppure può intensificare gli sforzi fino ad arrivare al conflitto nucleare. Questo perché qualsiasi cosa al di fuori della vittoria totale dell’Ucraina è un’implicita ammissione che l’ordine economico e politico sta irreversibilmente cambiando. E Washington non vuole ammetterlo. Avendo perso le sue due principali fonti di potere, l’ordine basato su regole come strumento diciamo così di potere morbido e la sua superiorità militare come potere duro, l’Occidente o per meglio dire i clan di potere che lo controllano, ha bisogno di un nuovo strumento di deterrenza, un nuovo strumento che gli permetta di fare i propri interessi contro la volontà di altre potenze.
Lo ha scoperto esercitando la massima ferocia possibile. La guerra a Gaza, sostenuta dall’Occidente, è una dimostrazione che esso è disposto a superare ogni limite. Che è disposto a commettere un genocidio. Che farà di tutto per evitare che le organizzazioni internazionali intervengano per impedirlo. I clan che detengono il potere sovrano in Occidente, sono ritornati all’antica violenza perché non riuscendo più a costituire un punto di riferimento vogliono almeno essere temuti. Naturalmente a spese degli inermi perché quando trovano qualcuno che gli resiste, diventano isterici dalla paura.

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