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In forma dunque di vermiglia rosa

Teatro Greco – Siracusa
Baccanti
di Euripide
Traduzione di Guido Paduano
Con: Lucia Lavia (Dioniso), Ivan Graziano (Penteo), Antonello Fassari (Tiresia), Stefano Santospago (Cadmo), Linda Gennari (Agave)
Regia di Carlus Padrissa (La Fura dels Baus)
Sino al 20 agosto 2021

I nomi degli dèi e dei mortali che dal χάος da cui tutto sgorga pervengono infine a Dioniso e a Penteo compaiono alcuni subito e altri a poco a poco sulla superficie spazzata dai passi e dal vento. Immediato è invece l’irrompere sulla scena delle Menadi con il loro grido dell’orgia, εὐοῖ, evoè! Le Menadi, le Baccanti, stanno al centro di questa corale messa in scena dell’opera di Euripide. Una scelta saggia a indicare il cuore collettivo della festa e della ferocia umane. Espresse mediante lo spazio totale del teatro, lo spazio del teatro che si fa totale –Gesamtkunstwerk– attraverso i suoni, le percussioni, le danze, le voci che restituiscono la gloria degli dèi e la loro forza, antiche come il tempo.
E soprattutto, tratto caratterizzante la Fura dels Baus, mediante le imponenti macchine che portano attori e personaggi per l’aere, nelle contrade assolute, nell’aperto spazio del mito che dalla terra sale al cielo e poi dal cielo ridiscende nella polvere. I due principi del mondo sono infatti Demetra, la terra, il secco e Dioniso, l’umido, il succo della vite che dà ai mortali l’oblio dei loro mali. Non esiste altro rimedio al dolore d’esserci e del fare. Sia al povero sia al ricco, Dioniso concede il piacere del vino che libera dal dolore. Astemio, stitico, schematico e ultramoralista, Penteo invece non riconosce questa leggerezza, entra in scena portando con sé tre pesanti massi, offende, disprezza e illusoriamente incatena lo Straniero che parla in nome di Dioniso, lo Straniero che è Dioniso. La furia del dio, la sua vendetta, come si sa, saranno terribili. E meritate. La testa / prigione che domina sin dall’inizio la scena si trasforma nella testa vuota di un mortale che non vuole capire la forza inarrestabile del desiderio, del sesso e del sorriso, rimanendo nella tristezza dell’autocontrollo, della castità e della smorfia pudica intrisa di paura. Per diventare infine la testa mozzata e insanguinata che la baccante Agàve mostra con gioia dopo aver fatto a pezzi il proprio figlio.
Carlus Padrissa e la Fura dels Baus sono stati da sempre euripidei, da sempre utilizzano l’ἀπὸ μηχανῆς θεός, il deus ex machina che fa scendere, muovere e salire l’umano e il divino nello spazio della scena. Il loro Imperium, ad esempio (al quale avevo partecipato a Milano in compagnia di Mario Gazzola), era costruito come spazio affollato dagli spettatori, direttamente coinvolti nelle vicende e nella violenza rappresentata. Uno spazio dentro il quale si elevano piramidi, gru, corde. Da queste geometrie si staccano i soggetti del dominio, nel doppio genitivo di chi ordina e di chi subisce. Donne dai cui corpi si sprigiona la sensualità, l’implacabilità, la fecondità del comando. In Imperium la musica restituisce la raggrumata densità dei movimenti scenici, che sembrano tornare alla semplicità del gesto primordiale, quello che fonda insieme natura e civiltà, che dà e riceve morte, perché altro nelle cose non sembra darsi se non questa furia dei corpi.
Era già quello dunque uno spettacolo dionisiaco che in Baccanti diventa un’enorme forma antropomorfa (Semele / Zeus) dal cui ventre esce il dio bambino, con l’attore / Dioniso che precipita investito dalle acque del parto che si rompono. Dinamismo che raggiunge il culmine in gru e corde con le quali il Coro e le Menadi si avvicinano e si allontanano, si addensano e si espandono, dando ogni volta forma e vita al fiore del cosmo pulsante di potenza e desiderio.
«In forma dunque di vermiglia rosa / mi si mostrava la corale sacra / che nel suo sangue Bacco fece sposa», si potrebbe dire guardando la gloria delle Menadi librarsi e parafrasando per esse Alighieri (Paradiso, XXXI, 1-3).
Peccato solo che Dioniso appaia coinvolto nelle vicende di Tebe con gesti e gridolini che nulla hanno ovviamente del dio, il quale «ὃς πέφυκεν ἐν τέλει θεός, / δεινότατος, ἀνθρώποισι δ᾽ ἠπιώτατος; ‘è dio nel pieno senso, ed è terribile, ma più d’ogni altro con gli uomini è mite», come egli stesso tiene a dichiarare (Βάκχαι, vv. 859-861, trad. di Filippo Maria Pontani). Dioniso uccide sorridendo. In Euripide (e sempre) questo dio è una maschera ironica e distante, braccia spalancate, voce gorgogliante dall’inquietudine della terra. Una scelta di coinvolgimento isterico, come invece ha voluto qui il regista, è completamente sbagliata. Tale limite non inficia comunque la profondità e la bellezza di una messa in scena delle Baccanti imponente, coraggiosa e visionaria.

 

Eros / Sicilia

I Beddi
Quannu viru a tia
(Quando ti vedo)
Da Ppi jocu e pp’ amuri
(Per gioco e per amore, 2008)

Quannu viru a tia (mp3)

Link al brano su Spotify

La potenza espressiva della lingua siciliana canta la passione erotica intrisa di bevande dionisiache, di desiderio antico, di drammatico divertimento; il maschio siculo la dedica a tutte.
Mio è il tentativo di traduzione. Di Franco Carlisi l’immagine di apertura.


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A matina nun c’è suli ca mi sconza stu duluri e la sira nun c’è friscu ca m’astuta stu disiu.
La notti nun è jornu ma lu stissu m’arrusbigghiu, la fami scumpariu e la siti si ni jiu.
Quannu viru a tia strinci ‘u pettu ca quaria, quannu viru a tia sautu ‘u passu nta la via.
Quannu viru a tia scordu tutt’avimmaria, quannu viru a tia mi si sbota a fantasia.

Nun quagghia la ricotta, cchiù nun fazzu li viscotta, nun sfurnu pani bonu, nun ti cantu e nun ti sonu.
Nun cogghiu cchiù lu meli, nun serbi pi stu mali, a gramigna nta la vigna la racina mi cummogghia.
Quannu viru a tia strinci ‘u pettu ca quaria, quannu viru a tia sautu ‘u passu nta la via.
Quannu viru a tia scordu tutt’avimmaria, quannu viru a tia mi si sbota a fantasia.

Cu la grazia da to vuci d’intra i tia mi cunnuci, pi la danza du to passu iu stu ballu ti lu lassu.
Nun sentu mancu friddu, d’amuri mi cummogghiu, putenti comu bracia si lu suli ca m’abbrucia.
Quannu viru a tia strinci ‘u pettu ca quaria, quannu viru a tia sautu ‘u passu nta la via.
Quannu viru a tia scordu tutt’avimmaria, quannu viru a tia mi si sbota a fantasia.

Nta sti jorna disgraziati nun mi carmunu i pruriti, nta sti jorna biniditti ma mbriacu senza vutti.
Senza vutti e senza vinu persi a testa a lu matinu, persi anche la ragiuni e ti vidu a tutti i ‘gnuni.
Quannu viru a tia strinci ‘u pettu ca quaria, quannu viru a tia sautu ‘u passu nta la via.
Quannu viru a tia scordu tutt’avimmaria, quannu viru a tia mi si sbota a fantasia.

Mi vinni stu pitittu di vasarati lu pettu, mi vinni stu pitittu di cunzariti lu lettu.
Addivintai vastasu nta lu sonnu ju ti vasu, cu la vucca e cu li manu ti sunassi u marranzanu.

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Non c’è sole del mattino che guarisca il mio dolore e la sera non c’è fresco che mi spenga il desiderio.
La notte non è il giorno ma lo stesso mi risveglio, la fame non c’è più e la sete se n’è andata.
Quando ti vedo sei calore dentro il petto, quando ti vedo spicco un salto nelle strade.
Quando ti vedo scordo ogni preghiera, quanto ti vedo perdo tutta la ragione.

La ricotta non condensa, non preparo più biscotti, non sforno del buon pane, non ti canto e non ti suono.
Non raccolgo più il miele, ché non serve a questo male, la gramigna nella vigna tutta l’uva ha ormai coperto.
Quando ti vedo sei calore dentro il petto, quando ti vedo spicco un salto nelle strade.
Quando ti vedo scordo ogni preghiera, quanto ti vedo perdo tutta la ragione.

Con la grazia della voce dentro te tu mi conduci, per la danza del tuo passo questo ballo io ti lascio.
Non sento nessun freddo, d’amore mi riscaldo, potente come brace sei il sole che mi bruci.
Quando ti vedo sei calore dentro il petto, quando ti vedo spicco un salto nelle strade.
Quando ti vedo scordo ogni preghiera, quanto ti vedo perdo tutta la ragione.

In questi giorni disgraziati non mi calmano i pruriti, in questi giorni benedetti mi ubriaco senza botti.
Senza botti e senza vino divento folle al mattino, ho perso anche la ragione e ti vedo in ogni cosa.
Quando ti vedo sei calore dentro il petto, quando ti vedo spicco un salto nelle strade.
Quando ti vedo scordo ogni preghiera, quanto ti vedo perdo tutta la ragione.

M’è nato il il desiderio di baciare quei tuoi seni, m’è venuto il desiderio di prepararti in un bel letto.
Sono diventato così vastasu da baciarti quando dormo, con la bocca e con le mani suonerei il tuo marranzano.

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