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Teogonia

Zeus è giustizia, armonia, luce. Prima di lui era il gorgogliare della terra -Gaia- dal Caos; era il Tartaro infinito, orribile, buio; era il cielo -Urano- il cui sangue «generò le Erinni potenti e i grandi Giganti / di armi splendenti, che lunghi dardi tengono in mano» (trad. di Graziano Arrighetti, vv. 185-186). Dalla spuma -ἀφρός- di Urano «una figlia  /nacque, e dapprima a Citera divina / giunse, e di lì poi giunse a Cipro molto lambita dai flutti; / li approdò, la dea veneranda e bella, e attorno l’erba / sotto gli agili piedi nasceva; lei / Afrodite» (vv. 191-195).
Che la divinità della vendetta e la divinità dell’amore siano sorelle, che siano nate dallo stesso atto di violenza con il quale Urano venne castrato da Crono, è gesto poetico e teoretico di comprensione profonda di che cosa la vita sia, da dove essa sgorghi, quale sia il suo senso e il suo fine. Da Afrodite non poteva che nascere «Eros, il più bello fra gli immortali, / che rompe le membra, e di tutti gli dèi e di tutti gli uomini / doma nel petto il cuore e il saggio consiglio» (vv. 120-122). Non soltanto gli umani ma ogni vivente e gli dèi sono dunque soggetti alla passione che vuole fare del diverso l’identico, che vuole assimilare a sé ogni alterità per nutrirsene e farsene felice.

Tutte le divinità sono modi, forme, espressioni di questa potenza del sangue, dello sperma, della passione che travolge il cuore e la mente di ognuno e di tutti. Divinità diverse, opposte, lontane ma che da tale potenza sono segnate per sempre: la «Notte oscura», con i suoi figli «Sonno e Morte, terribili dèi» (vv. 758-759); «le Moire, a cui grandissimo onore diede Zeus prudente, / Cloto, Lachesis e Atropo, le quali concedono / agli uomini mortali di avere il bene ed il male» (vv. 904-906); e soprattutto il dio nel quale la luce apollinea e le tenebre fonde trovano la loro sintesi potente e implacabile, «Dioniso, ricco di gioia (Διώνυσον πολυγηθέα)» (v. 941).
L’ordine imposto da Zeus al terribile e all’indicibile che stanno e permangono al fondo di ogni cosa e del mondo, è un ordine generatore di memoria, di bellezza e di canto. Le Muse -alle quali Esiodo consacra l’inizio splendente del poema- furono volute da Zeus affinché «fossero oblio dei mali e tregua alle cure» (v. 55). Guidato da esse, il poeta elenca sin dall’inizio i nomi degli dèi e attraverso e oltre loro canta «ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu» (v. 38), canta la potenza del tempo senza inizio né fine.
Gli umani in tutto questo sono degli epifenomeni, la cui gioia e dolore sono conseguenza dei conflitti tra i Numi, ai quali possono solo chiedere luce e che come loro sono parte dell’unica vicenda della φύσις e del sacro intrecciati; è per questo che -scrive con precisione Graziano Arrighetti- «la Teogonia costituisce la testimonianza di uno sforzo di rappresentazione unitaria e coerente del mondo fisico e di quello divino» (edizione Rizzoli, 2016, p. 33).

«Crono dai torti pensieri (Κρόνος ἀγκυλομήτης)» (v. 137) fa da snodo tra l’originario regno della violenza informe e confusa e il regno olimpio di ordine e luce. Nel mezzo c’è stato un conflitto descritto da Esiodo con termini e toni cosmici, inquietanti, tremendi: «I Titani, di contro, rinforzano le schiere, / risoluti, e mostrarono insieme l’opera e di mani e di forza, / gli uni e gli altri; e terribile intorno muggiva il mare infinito / e la terra molto rimbombava e gemeva il cielo ampio / scosso, e fin dal basso tremava il grande Olimpo / allo slancio degli immortali, e il tremore giungeva profondo / al tartaro oscuro, e dei piedi impetuosi il rimbombo / dell’indicibile battaglia e dei corpi violenti; / così dunque gli uni contro gli altri lanciavano dardi luttuosi, / e giungeva al cielo stellato il grido dalle due parti / che si incalzavano mentre si urtavano con grande tumulto. […] Bolliva la terra tutta, e i flutti d’Oceano, / e il mare infecondo. […] Un ardore prodigioso penetrava Caos, e pareva davanti / agli occhi vedersi e il suono ad udirsi agli orecchi / come quando Gaia e Urano ampio di sopra / si scontrano»…(vv. 676-703).
Murray sostiene che la Teogonia costituisse «l’accompagnamento e la spiegazione di un rituale di parata di due cerimonie che celebravano l’una la vittoria dei nuovi dèi su quelli antichi, l’altra la vittoria della luce sulle tenebre» (cfr. edizione Rizzoli, 2016, nota a p. 175). In ogni caso qui il divino è tra noi e noi siamo parte della natura che è sacra. Nessun’altra prospettiva avvicina così interamente gli uomini al dio.

Struggle for Life

Revenant – Redivivo
(The Revenant)
di Alejandro González Iñárritu
USA, 2015
Con: Leonardo Di Caprio (Hugh Glass), Tom Hardy (John Fitzgerald)
Trailer del film

Le montagne del Missouri nei primi anni dell’Ottocento. Si contendono il territorio orsi, sciacalli, corvi, inglesi, francesi, nativi pellerossa. Tra le acque, gli alberi, i prati, il gelo, è una guerra senza fine. Hugh Glass conosce bene l’ambiente, ha sposato una nativa e da lei ha avuto il figlio che porta con sé. Aiuta gli inglesi a cacciare per rifornirsi di pelli. Un orso lo assale e lo riduce in fin di vita. La spedizione non può portarlo con sé. In cambio di danaro John Fitzgerald si offre di assisterlo sino alla fine, in compagnia del figlio di Glass e di un altro giovane. Fitzgerald ha fretta e lo abbandona alla morte. Glass è però tenace. Sopravvive. Cerca la vendetta.
Un film cupo e desolato, fatto di silenzi umani e dei suoni di una natura strabordante, incontaminata, implacabile, nella quale l’unica armonia è quella dei nativi, dei loro gesti, credenze, sguardi. Gli europei sono invece dismisura. Con quest’opera Iñárritu punta al mistico ma rimane soltanto la violenza.

Hasta que la muerte nos separe

Relatos Salvajes
(titolo italiano Storie pazzesche)
di Damián Szifron
Argentina-Spagna, 2014
Con: Ricardo Darín (Simon Fisher), Erica Rivas (Romina), Oscar Martínez (Mauricio), Leonardo Sbaraglia (Diego), Julieta Zylberberg (Moza)
Trailer del film

Storie_selvaggeUn pilota riunisce sullo stesso aereo tutti coloro dai quali è stato nella sua vita ferito. La cameriera di un ristorante serve, senza che lui la riconosca, l’uomo che ha provocato la morte del padre e la rovina della famiglia. Un sorpasso lungo una strada deserta scatena la guerra tra due automobilisti. Un ingegnere esperto in esplosioni viene ripetutamente vessato dai discutibili comportamenti dell’azienda incaricata di riscuotere multe per divieto di sosta. Il facoltoso padre di un ragazzo che ha investito e ucciso una donna incinta cerca di comprare il silenzio delle autorità. Durante un pranzo di nozze la sposa scopre di essere stata tradita con una delle invitate alla festa.
Situazioni diverse e simili, un po’ insolite -forse- ma anche del tutto plausibili. Circostanze nelle quali ci si può trovare immersi in qualunque momento. Un rancore che può gorgogliare negli anni o può scatenarsi all’improvviso. La violenza, infatti, soddisfa uno dei desideri più specifici e profondi dell’essere umano: l’illusione di onnipotenza che nasce dal dare la morte, dal sopravvivere agli altri. I sei racconti salvajes (assurdi/selvaggi) di questo film mettono in scena una delle radici giuste della violenza, la vendetta nei confronti di torti subiti o immaginati. Ma ciò che ho scritto non deve trarre in inganno: si tratta di un film lieve e assolutamente divertente, il cui stile vira sempre verso il grottesco, l’eccessivo, l’improbabile. E lo fa con maestria tecnica -la prima parte di Hasta que la muerte nos separe (il matrimonio) sembra un lungo piano sequenza; tutto Más fuerte El (il sorpasso) è girato come dall’interno non soltanto di un’automobile ma del proprio risentimento-, con una sceneggiatura spumeggiante di invenzioni e con la cifra sempre efficace del paradosso. Davvero catartico. Tragiche vendette contro la presunta serietà delle vite umane.

Bianco sangue

In ordine di sparizione
(Kraftidioten)
di Hans Peter Molland
Norvegia-Svezia, 2014
Con: Stellan Skarsgård (Nils), Pål Sverre Hagen (il Conte), Bruno Ganz (Papa), Jakob Oftebro (Aron Horowitz), Birgitte Hjort Sørensen (Marit)
Trailer del film

kraftidiotenIl bianco della neve che si accumula nei giorni e nelle notti della Norvegia. La potenza degli spazzaneve guidati da Nils, un uomo taciturno il cui unico figlio viene trovato morto per overdose. Nils sa che il figlio non era un tossico e scopre la banda che lo ha ucciso a causa di un banale equivoco. Comincia dunque a eliminare uno per uno i criminali. Tutto nel silenzio rarefatto del Nord, poco scalfito dalla rumorosa banda di serbi anch’essa coinvolta nel malaffare. Tutto nel silenzio delle persone, della neve e dei morti che affondano nel fiume. Tutto nel lindore di una società che -come ipotizza uno dei personaggi- «ha bisogno del welfare perché non ha il Sole. O il caldo o il welfare».
L’antica saga dell’uomo pacifico diventato vendicatore della propria angoscia acquista qui l’ironia dell’eleganza, la kantiana sublimità del paesaggio e la truce determinazione della solitudine.

Nessun perdono

«Perdono», «perdonare» sono parole prive di significato. Esse hanno infatti senso soltanto in relazione alla parola e al concetto di «colpa». Ma nessuno al mondo è colpevole; nessuno al mondo è responsabile di ciò che fa bensì di ciò che è. L’essere in un modo o nell’altro non dipende tuttavia dal soggetto ed è invece in relazione con la genetica, con l’ambiente, con l’innocente e insensata casualità della natura che getta i suoi dadi offrendo a uno gli occhi chiari e all’altro pupille scure. Così accade per il carattere che -ha ragione Eraclito- è il vero demone di ciascuno.
A chi si comporta in modo tale da farmi soffrire -agisce cioè in un modo che dal mio punto di vista è dannoso- io non posso poi offrire alcun perdono, per il semplice fatto che non c’è nulla da perdonare. C’è, semmai, da ricambiare con l’indifferenza, con il disprezzo, oppure colpendo a mia volta. Ma non, ribadisco, per ciò che l’altro mi ha fatto bensì per ciò che l’altro è, per il modo in cui è venuto al mondo, per il fatto stesso di essere venuto al mondo, rendendo in questo modo il mondo un po’ più triste. Ma l’altro, in quanto agente, non ha nessuna colpa. È innocente. Non posso quindi perdonarlo. «Operari sequitur esse ergo unde esse, inde operari» (Schopenhauer, La libertà del volere umano, Laterza 1988, p. 118).

Il sangue / la luce

Architetture, sculture -e non soltanto parole- sono i versi di Eschilo. Nell’Orestea essi delineano un’ipotesi mitica, e quindi reale, sull’origine della città umana. Origine dal sangue, nel duplice senso del legame e del delitto. Le forze indicibili protagoniste della trilogia -le Erinni- perseguitano infatti non coloro che hanno ucciso e basta ma coloro che hanno ucciso i consanguinei. Per questo non toccano Clitennestra -Agamennone era soltanto suo marito- e perseguitano invece Oreste, il figlio che vendicando il padre l’ha uccisa.
Le Erinni sono «mákares chtónioi», potenze ctonie, figlie della Notte e germinate dalla terra (Coefore, v. 476; le opere sono citate nella traduzione di Ezio Savino, Orestea, Garzanti 2009). Sono le antichissime, che dominavano il mondo già prima di Zeus. Sono le stanghe del fato alle quali gli umani sono aggiogati e che Cassandra -unita ad Agamennone dallo stesso destino di morte- può vedere ma non distogliere da sé. A questa impresa, deviare e trasformare la volontà della Notte che avvolge gli umani, possono aspirare soltanto Apollo e Atena, giovani divinità della luce. L’occasione per farlo è il destino di Oreste, la sua azione di matricida voluta da Apollo e difesa da Atena. Le due divinità sono ben consapevoli delle entità che hanno sfidato. Così, infatti, le descrive Apollo rivolto a Oreste: «Guarda le creature rabbiose: eccole vinte! Crollate nel sonno: vergini -sputi, nient’altro per loro- decrepite figlie dei secoli. Nessuno ama toccarle in eterno: né celeste, né umano, né bestia selvaggia. Tormento, ecco la radice del loro esistere, per questo la dimora assegnata è il tormento del buio, il Tartaro fondo d’abisso. Incarnano il disgusto del mondo e dei numi, su nell’Olimpo» (Eumenidi, 64-73).
Esse, per loro stessa ammissione, perseguitano l’assassino sino a condurlo «dove non c’è neppure parola per dire: sono felice» (Ivi, 423). E che cosa questo significhi è ben spiegato nelle parole con le quali angosciano Oreste: «Così ti macero vivo, ti strascino sotterra / dove ripaghi soffrendo / lo strazio della madre sgozzata» (Ivi, 267-268).
Atena sa che enorme è la loro influenza sulle cose e sugli eventi, che esse sono e rimangono sovrane, qualunque cosa accada: «nel mondo umano esse destinano tutto, con chiara esattezza. Assegnano a uno canti di gioia, a un altro una vita opaca di pianto» (Ivi, 952-955). E dopo averle finalmente persuase a trasformare in benedizione la loro funesta e implacabile furia, la dea giustamente si gloria.
I Greci, che tutto questo hanno pensato, sanno che nell’uomo -nel suo sangue- dorme e parla una «fame implacabile di felicità» (Agamennone, 1331-1332), la quale si scontra istante dopo istante non soltanto con la follia umana ma anche e soprattutto con l’angoscia che ai mortali sembra essere stata fornita quale dote alla nascita. Essa rende instabile ogni serenità e offre, senza che nessuno la assoldi, come scorta lo strazio. Perché? Per quale colpa o caduta? Per quale decisione? Molto più a fondo rispetto al mito monoteistico, per i Greci la colpa ha poco a che fare con i comportamenti; non riguarda l’agire ma l’essere. È colpa ontologica, non etica. «Quale uomo, che sappia la storia, / può dire di essere nato / all’ombra di un destino innocente?» (Ivi, 1341-1342).
È per infrangere, per tentare di farlo, l’ancestrale catena di colpa e di pena che le divinità del pensiero e della luce diventano divinità politiche fondanti il diritto e con esso la città. Il carattere anche e totalmente politico dell’Orestea intesse l’intera vicenda della casa d’Argo. Nel passaggio da Delfi ad Atene, dalle Erinni alle Eumenidi, non viene dunque smarrito uno dei fondamenti antropologici del mondo greco: la miseria dell’umano di fronte alle potenze del mondo e alla potenza che esso stesso è.
Infine, alla fine e all’inizio di tutto, l’elemento pagano scorre puro in questi versi. Scorre nella molteplicità degli dèi, la quale fa sì che nessuno di essi sia onnipotente, che tutti siano costretti a dialogare tra loro e a sottoporsi a giudizio. Persino Apollo. E scorre nel dialogo fra Elettra e il suo coro. All’interrogativo della ragazza se sia azione degna supplicare gli dèi affinché arrivi qualcuno a dare la morte -«Che preghiera, la mia, agli dèi! Sarà religiosa?»-, il coro risponde, sicuro: «Di compensare chi ti odia col male? Dubiti?» (Coe., 122-123).
«Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo” e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori […] E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt., 5, 43-47). I pagani, appunto.

Un giudice

di Fabrizio De André
nell’arrangiamento (magnifico) della Premiata Forneria Marconi
(1979)

La prima versione di questa canzone è del 1971 e fa parte dell’album Non al denaro, non all’amore né al cielo, ispirato all’Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters. Il giudice è Selah Lively, preso in giro da tutti -gli umani son feroci- per la sua altezza e trasformatosi poi in arbitro della vita e della morte altrui.
Il pubblico moralismo condanna la vendetta come sentimento e pratica poco consona alla gente per bene. E in effetti molta vendetta non è altro che semplice risentimento, che lascia il vendicatore in balia dei suoi nemici. Ma vendetta è anche l’oggettiva presa di distanza dall’alterità che ci ha fatto del male, il lasciare l’altro alla sua nullità. Il giudice di De André mi sembra esprima tale oggettività, che non teme le morali ed è libera da ogni senso di colpa.

[audio:Un_giudice.mp3]
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