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Milk

di Gus Van Sant
USA, 2008
Con: Sean Penn (Harvey Milk), Emile Hirsch (Cleve Jones), Josh Brolin (Dan White) , Diego Luna (Jack Lira), James Franco (Scott Smith)

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San Francisco, anni Settanta del Novecento. Harvey Milk tenta più volte di diventare consigliere comunale (“Supervisor”, una funzione che negli USA conta assai più che in Italia) e alla fine ci riesce. È il primo omosessuale dichiarato ad assumere in quel Paese una carica pubblica. È aiutato e sostenuto dalla comunità gay, dalle altre minoranze e dal sindaco Moscone, un liberal che insieme a lui pagherà con la vita il proprio impegno. Prima, però, riescono a far respingere dall’elettorato la proposta di un senatore repubblicano e di una imbonitrice evangelica che vorrebbero escludere gli omosessuali dall’insegnamento e da altre professioni.

Il film vuole ricostruire la San Francisco e la California di quegli anni. Alcuni inserti d’epoca e una grande attenzione agli ambienti e ai costumi (di Danny Glicker) aiutano a cogliere quella tonalità di vita. Ma il risultato complessivo è piatto, la sceneggiatura è del tutto scontata e l’opera risulta una banale miscela tra documentario e fiction. Anche la narrazione della vita privata di Milk, dei suoi dolorosi amori, ha qualcosa di patetico. Magnifico, ancora una volta, Sean Penn, che regge su di sé tutto il film e riesce a rendere autentica l’omosessualità del suo personaggio, con uno sguardo e dei gesti sempre plausibili. Il confronto con gli altri interpreti -che proprio recitano il ruolo di “froci”- conferma che Penn è uno dei più grandi attori viventi. Per il resto, retorica a piene mani.

L'ospite inatteso

(The Visitor)
di Thomas McCarthy 
Con: Richard Jenkins (Walter Vale), Haaz Sleiman (Terek Khalil), Danai Jekesai Gurira (Zainab), Hiam Abbass (Mouna Khalil)
USA, 2007

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Il Prof. Vale svolge da anni lo stesso corso (sulla globalizzazione) in una università del Connecticut, cerca vanamente di imparare a suonare il pianoforte, è -dopo la morte della moglie- profondamente solo. Si reca malvolentieri a un congresso a New York, dove possiede un appartamento che non abita da anni. Entrato, vi trova però una coppia di immigrati clandestini -siriano lui, senegalese lei- che Vale decide di ospitare ancora. Nasce un’insolita amicizia, con Terek che dà lezioni di jambè (il tamburo africano) al professore. Ma il siriano viene arrestato e detenuto, con l’unica motivazione della mancanza del permesso di soggiorno. Vale fa di tutto per liberare l’amico; arriva anche la madre del ragazzo, con la quale sembra nascere un rapporto di matura tenerezza. L’espulsione e il rimpatrio di Terek porranno fine a tutto.

Una regia sobria e in equilibrio tra sentimenti, politica e comicità narra una storia del tutto realistica, basata sull’ossessione strumentale di ciò che il potere chiama sicurezza e altro non è che odio e paura. Il presunto sogno americano naufraga ancora una volta nel doppio movimento seguìto all’11 settembre 2001: chiusura all’interno e aggressione all’esterno. Il senso è riassunto da Mouna, la madre di Terek costretta a fuggire a causa della persecuzione politica nel suo Paese: «è come in Siria». In nome di una sindrome da accerchiamento che in realtà è stata pianificata a tavolino, si toglie libertà e dignità alle persone. Bella davvero la scena conclusiva, con il professore angosciato ma finalmente libero, finalmente musicista.

Changeling

di Clint Eastwood
Con: Angelina Jolie (Christine Collins), Jason Butler Harner (Gordon Northcott), Jeffrey Donovan (Commissario di polizia J.J. Jones), Michael Kelly (V) (Detective Lester Ybarra), John Malkovich (Reverendo Gustav Briegleb), Amy Ryan (Carol Dexter) Devon Conti (Arthur), Gayle Griffiths (Walter Collins)
USA 2008

La vicenda accadde realmente a Los Angeles tra il 1928 e il 1935. Tornando dal lavoro, una giovane madre non trova il proprio bambino di nove anni. Dopo alcuni mesi la polizia le riporta un ragazzino che dice di essere suo figlio ma che non lo è. Alle richieste della donna di proseguire le ricerche, le Istituzioni rispondono internandola in un manicomio dal quale la salva solo un pastore presbiteriano che da anni denuncia la corruzione e la violenza della polizia della città. Viene catturato un serial killer che ha massacrato una ventina di bambini. Lo scandalo è grande. Processi e commissioni d’inchiesta danno ragione alla donna e alla sua tenacia.

Come in Un mondo perfetto e soprattutto nel magnifico Mystic River, la violenza sui bambini diventa l’occasione per una riflessione classica nella forma e disincantata nella sostanza antropologica, nel riconoscimento della tenebra inestirpabile che intesse l’umano e le sue espressioni. Una saggezza che nei film di Eastwood si sta ampliando sempre più fino a decretare il limite, la violenza e l’infamia delle grandi Istituzioni: polizia, amministrazioni, manicomi. La struttura arbitraria e repressiva di questi ultimi viene descritta in un modo degno di Basaglia. Una donna fragile e sola riesce tuttavia a incunearsi dentro la Macchina del potere e a svelarne la natura malvagia. La «speranza» è così l’ultima parola pronunciata nel film. Uno sperare contro ogni rassegnazione, contro il buon senso dei più, contro la viltà. Consapevoli che il Leviatano è indistruttibile ma che va combattuto ugualmente per essere e sentirsi ancora umani. Un’idea necessaria anche nell’Italia di oggi e non solo negli USA della Grande Depressione.

Robert Frank

Lo straniero americano
Milano – Palazzo Reale
Sino al 18 gennaio 2009

Un bianco e nero feroce e raffinato. Capace di svelare la pienezza del non senso. «All present in front of always changing fog», come scrive lo stesso Robert Frank (nato in Svizzera nel 1924). Nebbia che avvolge un’umanità silenziosa, profonda. Le foto mostrano il battito del suo cuore. Luoghi e città esistono solo come proiezione degli umani che le abitano e le edificano E tuttavia lo sguardo è fuori dal tempo, come se fossero tutti morti. Specialmente nella serie dedicata al 4 luglio 1958 a Coney Island -con i soggetti che dormono soli sulla spiaggia umida- e nelle opere più recenti, degli anni Novanta. Infatti, «you know, photographs immediately make everything old» e «now doesn’t really exist in photography. It’s always the past». Un’America senza retorica, un’umanità fatta di individui che cercano una qualche luce «per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi» (Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, p. 459).

Gregory Crewdson – Dream House

Gregory Crewdson
Milano – Galleria Photology
Sino al 22 novembre 2008

La casa è abitata dall’inquietudine e dall’immobilità. Come se le esistenze si fossero fermate su un interrogativo, in un istante di dolore, di meraviglia, di svelamento. Gli umani sono circondati da oggetti, mobili, vegetali. Le scene sono accuratissime. Il crepuscolo o la notte avvolge l’aria e la rende densa di un accadere che sappiamo sarà ma non sapremo come sarà. Il sogno sembra virare a ogni istante verso l’incubo senza però mai toccarlo. È dunque un asintotico sognare, quello di Gregory Crewdson.

Non avevo mai visto la fotografia avvicinarsi sino a questo punto alla pittura. Al di là della presenza nelle scene di noti attori hollywoodiani, al di là dei riferimenti all’arte documentaristica o anche alle solitudini e ai silenzi di Hopper, mi sembra che uno dei segreti di queste immagini così difficili e così potenti sia la luce caravaggesca che si sprigiona dai protagonisti umani e lambisce di sé le cose trasformandosi in tenebra.

The Burning Plain

The Burning Plain
di Guillermo Arriaga
con: Charlize Theron (Silvia), Kim Basinger (Gina), Joaquim de Almeida (Nick), Jennifer Lawrence (Marianna)
USA, 2008

Arido e assolato New Mexico. Una coppia di amanti muore nella esplosione della roulotte in cui i due si incontrano. Qualche tempo dopo nasce una relazione anche tra il figlio di lui e la figlia di lei. Oregon umido e piovoso. A Portland l’affascinante responsabile di un ristorante di lusso nasconde dietro i propri numerosi amanti qualcosa di oscuro da cui vuole fuggire. Un legame profondo unisce questi mondi.
Il film è costruito su due diversi piani temporali e spaziali che rendono la vicenda densa ed enigmatica (quasi) sino alla fine. La narrazione rimane sobria nonostante gli argomenti che affronta e gli attori sono molto bravi a trasmettere la radicalità dei sentimenti che intesse i personaggi. Dallo sceneggiatore di 21 grammi e Babel un’opera nella quale persino i deserti statunitensi acquistano qualcosa di interiore e di sospeso…

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