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The Ghost Writer

di Roman Polanski
(diventato in italiano un banale L’uomo nell’ombra)
USA-Germania-Francia, 2010
Con: Ewan McGregor (The Ghost), Pierce Brosnan
 (Adam Lang), Olivia Williams (
Ruth Lang), Kim Cattral
 (Amelia)
Dal romanzo di Robert Harris
Trailer del film

Uno scrittore senza nome, un autentico Ghost Writer, viene assunto per redigere in un mese l’autobiografia di Adam Lang, ex primo ministro inglese laburista, con una giovinezza sessantottina e poi totalmente prono alle volontà del governo statunitense nella cosiddetta “lotta al terrorismo”. Lang vive negli USA, protetto dal governo di quel Paese che lo difende dall’accusa di aver consegnato dei prigionieri/imputati alle torture americane. Il precedente Ghost Writer è morto in circostanze non chiare ma ha lasciato un dattiloscritto nel quale si nasconde la chiave -alla lettera- che spiega le azioni e i rapporti di Lang. Nel finale gli eventi precipitano e si chiariscono ma quando tutto sembra ormai risolto il destino diventa beffardo.

Tony Blair e Alfred Hitchcock sono i veri protagonisti del film. A Blair è ispirata la figura di un ex primo ministro tanto vanesio quanto servile sino a sacrificare gli interessi del proprio Paese a quelli personali e di un altro Stato. La tecnica lentamente disvelatrice, fuorviante (le figure femminili) e ritornante è quella del maestro Alfred ma Polanski sa intessere le immagini di un’angoscia politica che in Hitchcock non c’è. Film dunque tanto spettacolare quanto profondo nel mestare e rimestare la natura criminale del potere, poiché «certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza / fino a un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza. / Però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni / da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni» (De André, «Nella mia ora di libertà», da Storia di un impiegato [1973]).

Hopper, l’attesa

Edward Hopper
Milano – Palazzo Reale
Sino al 31 gennaio 2010

James Hillman ha scritto che le finestre di Hopper sono come quelle di Rembrandt e di Vermeer. Forse ha inteso dire che esse aprono frammenti di speranza ma in realtà chiudono gli umani in un’angoscia che sembra inoltrepassabile.
Dagli inizi francesi, in particolare l’assai amato Degas, Edward Hopper ha costruito quadro dopo quadro la metafisica degli Stati Uniti d’America in ciò che essa ha di migliore e quindi di più straziante. L’architettura vi diventa tutto lo spazio e la natura mostra il segreto del proprio dolore: la luce. Perché questa luce di Hopper illumina il nodo che stringe solitudine e individualismo in un legame che non si può sciogliere. Gli umani, quasi sempre soli appunto, diventano colore e forma di una struttura unitaria, fatta di cielo e di pali del telefono, di letti in stanze vuote e di mare. Come un Beckett figurativo, Hopper dà sostanza all’attesa, perenne sconfinata e tragica, di qualcosa che dovrà pur arrivare e il cui più probabile nome è la morte. La prova che il mondo è privo di senso è del tutto formale, sta nella prospettiva apparentemente realistica ma intimamente distorta delle scene con le quali questo Maestro ha dipinto un nulla fatto di luce.

Capitalism: A Love Story

di Michael Moore
USA, 2009
Trailer del film

Inizia con lo spezzone di un vecchio documentario dedicato alle ragioni della caduta dell’Impero Romano, dal quale risulta evidente l’analogia con la situazione dell’Impero americano. Il secondo inizio è costituito da una serie di brevi filmati di rapine in banca, riprese da telecamere di sorveglianza. Finisce con il regista che circonda l’edificio della Borsa a Wall Street con uno di quegli adesivi arancioni coi quali la polizia delimita la “scena del crimine”. E infatti ciò che Moore racconta è una rapina senza confronti, senza precedenti, senza misura, perpetrata dall’1% dei cittadini statunitensi contro tutti gli altri e verso l’intero pianeta. Mutui subprime, derivati e altre invenzioni della finanza criminale -ma del tutto legalizzata- vengono spiegati con chiarezza e senza un briciolo di noia; spiegati soprattutto nei loro effetti: famiglie intere private della loro casa e costrette a vivere in automobile; migliaia di operai lasciati senza lavoro da un giorno all’altro; “contadini morti” e cioè cifre assicurative milionarie intascate dalle aziende per la scomparsa dei loro impiegati, senza che le famiglie lo sappiano e mentre subiscono lutto e danno. In questo modo, un impiegato è molto più redditizio da defunto che da vivente. E poi gli intrecci strettissimi tra il Ministero del Tesoro USA e la Goldman Sachs e le altre banche, vere padrone e vero flagello dell’economia statunitense e mondiale.

Tutto narrato con la consueta vivacità e ironia intessute alla tragedia. Da riso aperto le scene tratte dal Gesù di Zeffirelli, doppiate in modo da garantire beatitudine non ai poveri ma al capitalismo, visto che questo sistema viene presentato come del tutto conforme alla fede cristiana, nonostante alcuni preti e vescovi qui intervistati neghino la compatibilità tra il principio capitalista del profitto e l’etica cristiana del dono. Pur con delle lodi a volte eccessive a F.D.Roosevelt e a Obama, il film è imperniato sul conflitto tra capitalismo e democrazia e si conclude con l’affermazione che «il capitalismo è il male, e il male non si riforma: si abbatte». Più di questo non si può chiedere a un regista statunitense. Dopo il muro dell’89 andrebbe infatti abbattuto l’altro muro, assai più radicato e potente, quello che sta nel nome stesso di Wall Street. Il miglior film di Moore.

Redacted

di Brian De Palma
Con Kel O’Neill (Gabe Blix), Ty Jones (Jim Sweet), Izzy Diaz (Angel Salazar), Rob Devaney (L’avvocato Mccoy), Patrick Carroll (Reno Flake), Mike Figueroa (Il sergente Vazques)
USA 2007
Trailer del film
Sito del film

redacted

In occasione delle presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2007, Natalia Aspesi così sintetizzava la vicenda che ha ispirato il film: «quel giorno del marzo 2006 quando a Mahmoudiyah, a 30 km da Bagdad, cinque soldati americani ubriachi irruppero in una poverissima casa e stuprarono a turno una ragazzina di 14 anni, poi le spararono in faccia e le diedero fuoco, dopo aver sterminato tutta la sua famiglia compresa una sorellina di 6 anni». Un episodio, tra i tanti di questa guerra, intorno al quale De Palma costruisce un film unico. Si tratta di una fiction che sembra un documentario costruito con filmati amatoriali girati dagli stessi soldati, spezzoni di telegiornali, video da siti islamici, conversazioni in chat tra i militari e i loro familiari a casa, l’inchiesta di una televisione francese. E tutto è insensatezza, noia, sadismo, crimini efferati contro le persone più indifese perpetrati in nome dei Diritti dell’Uomo e di «Grimilde, statua della Libertà» (De André). Esplicito l’omaggio a Kubrick, con lo «Yes, Sir!» dei soldati, la funebre Sarabanda di Haendel che intesse Barry Lindon, il profondo disincanto sulla ferocia umana.

A due anni di distanza, il “rinnovatore” che oggi siede alla casa bianca fa molte chiacchiere ma sull’Iraq i fatti sono gli stessi della precedente amministrazione. In Italia, intanto, per questo film nessuna distribuzione nelle sale, nessuna recensione nei liberi telegiornali, nessuna indignazione dei moralisti democratici; solo la propaganda dei terroristi statunitensi e dei loro accoliti, solo la verità stuprata. E nessuna lapide, nessuna retorica, nessuna “Giornata della memoria” ricorderà le migliaia di vittime civili massacrate nei checkpoint, violentate nelle proprie case, bombardate nella loro terra. Lo farà -se sarà visto- questo film asciutto, coraggioso e terribile, che si chiude proprio con una sequenza di foto intitolata Collateral Damage. Gli effetti collaterali della hybris statunitense, della tracotanza del potere.

The Hurt Locker

di Kathryn Bigelow
USA, 2008
Con: Jeremy Renner (Sergente Maggiore William James), Anthony Mackie (Sergente JT Sanborn). Ralph Fiennes (Caposquadra mercenari), Guy Pearce (Sergente Matt Thompson), David Morse (Colonnello Reed)
Trailer del film

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Un gruppo di artificieri statunitensi opera nell’Iraq ridotto a una landa desolata. L’ultimo arrivato è il sergente William James, un uomo che sembra non temere nulla e che affronta in modo persino incosciente i rischi più gravi. Tra sentimenti opposti -cinismo, sentimentalismo, solitudine e cameratismo- la guerra diventa una vera droga che divora tempo, vite, affetti.

Tecnicamente molto buono, capace sempre di spingere e tenere la tensione al punto giusto, il film di Kathryn Bigelow riconosce apertamente il fatto che l’esercito e la cultura statunitensi sono oggetto di ripudio e di odio da parte delle popolazioni sottomesse. Questo plausibile sfondo politico si articola tuttavia in una narrazione “privata” che rimane troppo patriottica. Su tutto, comunque, domina l’insensatezza, l’addiction della morte.

Gran Torino

di Clint Eastwood
USA, 2008
Con: Clint Eastwood (Walt Kowalski), Bee Vang (Thao Vang Lor), Ahney Her (Sue Lor)

Walt Kowalski vive da solo, dopo la recente morte della moglie, nel suo antico quartiere di Detroit, ormai invaso da famiglie asiatiche che lui odia; sentimento che sembra estendere all’intera umanità. Una gang perseguita i suoi vicini, costringendo uno dei loro ragazzi a tentare di rubare la Gran Torino, un’auto del 1972 di proprietà di Kowalski. Questo episodio dà però inizio a un rapporto diverso con “gli stranieri”. Nell’amicizia con Thao e con sua sorella Sue, il vecchio reduce cercherà e troverà il riscatto dalle atrocità commesse durante la guerra in Corea.
Complesso -al di là delle apparenze buoniste- e assai bello, Gran Torino sembra riassumere molti dei temi del cinema di Eastwood: la violenza, la guerra, la solitudine, la decadenza della società americana (espressa con evidenza nel vuoto esistenziale dei figli di Kowalski e dei suoi nipoti), la difficoltà ma anche la necessità delle relazioni umane. Il film vira dagli stereotipi etnici alla commedia sentimentale, dal comico alla tragedia. Forse con un salto un po’ brusco nella scena in cui Sue invita il vecchio a una festa in casa sua.  Sempre però con grande asciuttezza di mezzi cinematografici. E soprattutto Eastwood disegna, come regista e come interprete, un personaggio credibile nella storia, nell’espressione ghignante e triste del volto, nell’incedere del corpo, nei suoi gesti, il più significativo dei quali sono le mani che fingono di diventare una pistola…

The Wrestler

di Darren Aronofsky
 Con: Mike Rourkey (Randy “The Ram” Robinson), Marisa Tomei (Cassidy), Evan Rachel Wood (Stephanie Robinson)
USA, 2008

wrestler

La vita di un professionista del Wrestling vista dal di dentro, quando ormai il lottatore è in declino e costretto a svolgere altri lavori, compreso il commesso al bancone di un supermercato. Dopo un infarto e per recuperare il rapporto con la figlia, che lo detesta, decide di abbandonare quel mondo fatto di vecchie glorie, di compagni in carrozzina che firmano autografi a pagamento, di combattimenti sempre più finti ma anche sempre più violenti, che arrivano a utilizzare filo spinato, cocci di vetro e persino graffettatrici pur di eccitare il pubblico pagante. Ma “Ram” si rende conto che fuori dal ring la sua vita non ha senso e non ha altre famiglie. Accetta quindi la “rivincita” di un epico confronto di vent’anni prima col lottatore Ayatollah, detto “la bestia del Medio Oriente” e che ora vende automobili in Arizona. E vuole un combattimento vero, nonostante i rischi per il suo cuore…

Il Leone d’Oro della Mostra del Cinema di Venezia dello scorso settembre è andato a un’opera interessante ma non indimenticabile. Il film si regge tutto su un disfatto e bravissimo Rourkey, che non interpreta ma che è il suo personaggio, al quale sa dare uno spessore malinconico e quotidiano, eroico e a suo modo puro. Nel confronto finale, la bandiera dell’Iraq viene disonorata sul ring (lo ricordo a quanti gridano di indignazione quando si bruciano le bandiere degli USA…) e -senza che però sia questo l’obiettivo principale del film- il wrestling diventa l’emblema di una società civile assolutamente rozza come in molte parti del Paese è quella degli Stati Uniti. È un merito di Aronofsky descrivere senza infingimenti uno dei lati oscuri di quella nazione, lo squallore dell’abitare, del vivere, delle relazioni umane. Che sia finzione o realtà, il pubblico vuole sangue e urla di soddisfazione quando lo vede scorrere. Ma non si racconta che noi “moderni”, diventati così umanitari, avremmo superato la “barbarie” dei gladiatori?

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