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La II guerra di Libia

Sulla propria pagina di Facebook Giusy Randazzo ha pubblicato una riflessione che condivido pienamente:
«…La brutalità di Gheddafi deve essere fermata. L’attacco è necessario per difendere i civili… Lo dicono i buoni che agiscono con sottomarini e navi che sparano fiori. Il portavoce del governo libico sostiene che il regime ha accettato la Risoluzione del ’73 e ha rispettato il cessate il fuoco ma le nazioni unite e la società internazionale anziché inviare degli osservatori per verificare i fatti hanno cominciato ad attaccare il paese con grave danno anche per la popolazione civile. Sicuramente mente. Ci conviene pensarlo.
Comunque –tranquilli- sb ha detto che noi non abbiamo nulla da temere perché la Libia non possiede armamenti in grado di raggiungere l’Italia. A Lockerbie infatti Gheddafi, non avendo missili, aveva lanciato un aereo di linea esploso in volo grazie alle bombe piazzate dal dittatore (1988- 270 morti). Lo stesso dittatore a cui l’anno scorso sb aveva baciato le mani, dichiarando amicizia e alleanza».
Un secondo testo assai lucido che invito a leggere è di Massimo Fini, il quale ha proposto insieme ad altri una petizione contro questo ennesimo, ipocrita e pericolosissimo vulnus inferto al diritto internazionale e alla pace, per ragioni ancora una volta economiche e colonialiste.
La Germania dà una lezione di autonomia dal potere anglosassone (il vero male della contemporaneità, come Carl Schmitt ha dimostrato) rifiutandosi di esser complice di un’impresa che il suo ministro degli esteri Westerwelle ha giustamente definito «avventurista». L’Italia dà invece ancora una volta prova della propria viltà e subordinazione all’imperialismo statunitense e ai suoi interessi, calpestando l’articolo 11 della Costituzione -«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Gli italiani confermano la loro stoltezza, applaudendo quasi tutti -Pdl e Pd a braccetto- a un vero e proprio suicidio politico e diplomatico. Non è da escludere che qualche missile libico arrivi in Sicilia, la prima terra europea a portata di mano di Gheddafi, l’uomo che lo scorso anno Berlusconi ha ospitato trattandolo da re e al quale, come ricordato da GR, ha persino baciato le mani. Almeno questo Giolitti -nella I guerra di Libia- non lo aveva fatto.

[Aggiungo -26 marzo 2011- il pdf, inviatomi da Dario Sammartino, di una pagina dedicata alla I guerra di Libia da Carlo Fruttero e Massimo Gramellini nel loro libro La Patria, bene o male, Mondadori 2010, pp. 119-120. Invito i lettori a cogliere le analogie con gli eventi accaduti un secolo fa].

Obama

Nel suo blog su Repubblica Alexander Stille parla di Una non-notizia importante: il mancato adeguamento della tassazione degli enormi profitti ottenuti dai «manager dei venticinque hedge funds di maggiore successo», i quali «hanno guadagnato un totale di 14 miliardi di dollari (circa 11 miliardi di euro), cioè più del PIL di un paese piccolo ma benestante come l’Islanda. Quindi quasi tutti i manager di questo gruppo hanno guadagnato oltre mille milioni di euro in un anno e hanno pagato meno della metà del normale livello di tassazione!»
Anche questo è la democrazia statunitense (oltre che fucili, stragi e fanatismo). E Barack Obama conferma di essere ciò che ho pensato di lui sin dall’inizio: un po’ di cosmetico su un volto disfatto, un uomo di paglia messo lì per ridare credito agli USA dopo i catastrofici otto anni di Bush figlio. L’assegnazione del Nobel per la pace a un politico che continua a finanziare due guerre illegittime e feroci è stata una decisione semplicemente grottesca.

Immagini/Realtà

Immagini inquietanti / Disquieting images
Milano – Palazzo della Triennale
A cura di Germano Celant e Melissa Harris
Sino al 9 gennaio 2011

Fotografie. Saranno qualche centinaio. Gli autori sono sparsi per l’intero pianeta. Si cammina tra queste immagini con un crescente senso di orrore. Esse documentano la quotidiana infelicità di tanti umani; le loro passioni estreme; le guerre e le trasformazioni che esse producono nei corpi di chi rimane vivo, oltre all’enorme numero di cadaveri che generano; la vita nei luoghi dominati dal crimine -dal Messico a Palermo-; la sofferenza inflitta dalle donne su altre donne nelle culture che recidono il clitoride alle bambine, come in Indonesia; la violenza dentro la famiglia; l’immensa solitudine di ciascuno.
Nan Goldin ritrae ironicamente uno skinhead vestito comme il faut con accanto la propria figlia tutta linda e ben educata. Elena Dorfman intitola Still Lovers il rapporto tra degli esseri umani e delle bambole erotiche, fotografati mentre si fanno semplicemente compagnia. Donna Ferrato mostra che cosa significhi Living with the Ennemy, con un marito che dà in escandescenze mentre la moglie cerca di nascondergli la cocaina. Robert Mapplethorpe mostra il lato più estremo della propria arte di raffigurare i corpi, giungendo a un risultato pornografico sino all’inguardabile.
Ma nulla è più inguardabile dei morti sfigurati che costellano le tre tappe -dal titolo The Silence– nelle quali Gilles Peress ha scandito i massacri avvenuti nel 1994: The Sin (Rwanda), Purgatory (Tanzania), The Judgment (Zaire); sono foto senza filtro, senza censura, atroci. Zaimaï disvela l’orrore dell’Afghanistan, luogo nel quale le apocalittiche “missioni di pace” hanno portato in ogni angolo le armi più all’avanguardia, hanno raso al suolo il tessuto antropologico e sociale di quelle comunità, hanno indotto persone di tutti i ceti e gruppi a usare dosi massicce di oppio per sopportare ferite e sofferenze. Nina Berman mostra senza infingimenti e retorica le conseguenze delle guerre statunitensi sui soldati americani, tranciati, deturpati, ridotti a fantasmi di se stessi, orribili e segnati per sempre. Letizia Battaglia descrive i cadaveri disseminati dalla mafia a Palermo e la disperazione dei loro familiari. Philip Jones Griffiths documenta i Collateral Damages della guerra in Vietnam, con immagini che non si possono descrivere a parole. Michael Nichols denuncia il Brutal Kingdom, le violenze inutili e terribili che gli umani infliggono ai primati e ad altri animali.
Inquietanti è naturalmente un eufemismo. Mi vergogno di appartenere a una specie che è capace di compiere le azioni e gli eventi che le immagini di questa mostra dicono accadere ogni giorno, qui ora.

Dittatura e democrazia

Le origini sociali della dittatura e della democrazia
Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno

di Barrington Moore jr

(Social Origins of Dictatorship and Democracy. Lord and Pesant in the Making of the Modern World, Bacon Press, Boston 1966)
A cura di Domenico Settembrini
Presentazione di Luciano Gallino
Einaudi, Torino 1979 (1969)
Pagine XXIV-612

Il sottotitolo di questo libro ne indica con esattezza l’argomento. Contadini e proprietari terrieri hanno fornito un contributo decisivo alla formazione delle strutture sociali contemporanee ma con esiti ben differenti e anche paradossali.
La rivoluzione capitalista e borghese verificatasi in tempi e modi diversi in Inghilterra, Francia, Stati Uniti ha avuto come condizione l’estinguersi della classe contadina: «la scomparsa della classe contadina significò infatti che la modernizzazione poté procedere in Inghilterra senza essere ostacolata da quel grosso serbatoio di forze conservatrici e reazionarie che si manifestarono in certi momenti dello sviluppo in Germania e in Giappone, per non parlare dell’India. Così venne inoltre eliminata dal novero delle possibilità l’eventualità di una rivoluzione contadina sul tipo russo o cinese» (pag. 34). Anche in Francia l’alleanza tra borghesia e contadini giocò a favore della prima e negli Stati Uniti non esisteva una radicata tradizione rurale. Insomma, «sbarazzarsi dell’agricoltura come attività sociale fondamentale costituisce uno dei prerequisiti per il successo della democrazia» (484).

In Asia furono tre le vie verso l’industrializzazione: la rivoluzione contadina in Cina; l’alleanza fra élite rurali e urbane in Giappone (che, come in Germania, condusse al fascismo); il caso atipico dell’India, in cui l’assenza di qualsiasi rivoluzione dall’alto o dal basso ha prodotto una forma instabile di democrazia.

In ogni caso, la struttura portante della storia è la violenza: «attraverso tutta la storia conosciuta, la sorte comune a tutte le società umane è stata quella di essere teatro di lotte, scontri, contrasti, appropriazioni violente, accompagnate da molta ingiustizia e molta repressione» (150). Barrington Moore rifiuta di legittimare questa violenza universale ma respinge anche ogni sua demonizzazione e osserva come il carattere «pacifico» della Rivoluzione inglese derivi in realtà dalla violenza esercitata nel periodo precedente; come l’aver evitato una rivoluzione abbia favorito il fascismo giapponese; come la pace sociale e la sottomessa docilità delle masse indiane sia causa di enorme miseria e di stermini apparentemente naturali ma in effetti ben radicati nella struttura sociale e nella storia dell’India. In definitiva, «la conclusione a cui sono mio malgrado dovuto giungere in seguito all’esame dei fatti è che i costi della moderazione sono stati almeno altrettanto atroci di quelli della rivoluzione, forse anzi molto di più» (570).

Moore osserva che il potere non si limita a costituire l’inevitabile strumento di convivenza tra interessi differenti ma sia sempre anche una struttura criminale e oppressiva, in ogni caso al servizio di alcuni gruppi contro altri. Ad esempio, «il contributo arrecato dall’aristocrazia alla concezione e alla realizzazione di una società libera è stato perciò pagato a un prezzo sociale spaventoso» (552). L’Autore è, in generale, convinto che molti progressi politici -verso la libertà- e sociali -verso l’industrializzazione- siano sempre pagati dai gruppi più poveri e diseredati e comportino un notevole peso di costrizione. La storia umana presenta, così, anche un carattere tragicamente ironico: «una volta di più essi [i contadini cinesi] costituirono la forza principale per portare alla vittoria un partito che si pone l’obiettivo di realizzare con l’uso spietato del terrore una fase della storia, che esso ritiene inevitabile, in cui la classe contadina cesserà di esistere» (253).

Nella sua Presentazione, Luciano Gallino ben evidenzia la grande originalità di questo testo ormai classico negli studi storico-sociali, il suo porsi al di là di schemi consolidati. Le tesi di Moore costituiscono uno «stimolo irritante per ogni occhio di tipo ideologico» (X), il loro muoversi in direzione «dell’ideale della società decente, concretamente possibile a un certo grado di evoluzione storica, […] distinto e opposto a quello di società ottima -inevitabilmente sfociante in qualche forma di persecuzione» (XII).

I decenni che ci separano dal libro hanno reso il progetto di una società decente, «intesa come una società senza guerra, povertà e grossolane ingiustizie» (XII), un ideale di per se stesso rivoluzionario e assai difficile da raggiungere. Moore non difende i grandi racconti ideologici della modernità -liberalismo, comunismo- ma neppure la conservazione delle condizioni attuali (e sempre peggiori) di vita collettiva. E offre con questo un’indicazione metodologica di grande onestà scientifica ed etica: «per tutti gli studiosi di scienze umane la simpatia per le vittime del processo storico e lo scetticismo verso le pretese dei vincitori costituiscono una salvaguardia essenziale contro il pericolo di lasciarsi abbindolare dalla mitologia dominante» (590).

La cultura del piagnisteo

di Robert Hughes
Sottotitolo: La saga del politicamente corretto

(The Culture of Compliant, 1993)
Traduzione di Marina Antonielli
Adelphi, 2003
Pagine 242

Il Sessantotto ha voluto essere antiamericano. Lo è stato veramente? In realtà molte delle parole d’ordine che risuonavano nelle scuole e nelle Università provenivano da correnti pedagogiche statunitensi. Si voleva abbattere la cultura che aveva prodotto il Vietnam utilizzando gli strumenti che essa stessa andava elaborando.
Primo fra questi la riduzione dell’istruzione e più in generale del sapere a terapia. Negli ultimi decenni le scuole e le università hanno progressivamente abbassato «i criteri d’ammissione e i livelli di insegnamento per permettere agli svantaggiati di stare al passo» anche a danno del diritto all’istruzione degli studenti più capaci (pag. 84). Contro gli allievi bravi, contro chiunque mostri di emergere per intelligenza, volontà, interesse si avverte quasi un pregiudizio come se il distinguersi di alcuni suonasse rimprovero alla condizione degli altri. Ogni differenza risulta inaccettabile se la cultura deve servire solo ad attutire le distanze sociali con l’abbassare tutti invece che col permettere a chiunque di emergere.
Il riduzionismo terapeutico -la scuola come guaritrice del “disagio giovanile”- è una delle espressioni più efficaci del principio di deresponsabilità che il Sessantotto ha assimilato dalle correnti pedagogiche nordamericane degli anni Sessanta, anni di sviluppo economico impetuoso, nei quali i figli dei ceti medi ritenevano che tutto fosse raggiungibile con poca fatica e dunque tutto fosse loro dovuto. Quando poi, però, un simile sogno infantile si scontra con le prime difficoltà dell’esistere, dai sentimenti al lavoro, si genera un rancore che ha bisogno di responsabili sui quali scaricare ogni torto. Non è quindi «colpa nostra se siamo scriteriati, venali o francamente scellerati, perché veniamo da “famiglie disfunzionali”» (23).

Eliminare la fatica che ogni impresa umana comporta, rimuovere la dimensione intrinsecamente elitaria del sapere come di ogni opera creativa, significa cedere poi alla «sconfinata, cinica indulgenza verso l’ignoranza degli studenti, razionalizzata come riguardo per l’ “espressione personale” e l’ “autostima”» (87). Ma nell’arte e nel concetto, ancor più che in altri ambiti, le élites sono necessarie. L’importante è che la loro composizione non rimanga statica, che siano aperte a chiunque mostri talento, rigore, immaginazione, qualunque sia, poi, il suo sesso, il rango sociale, il colore della pelle. Umiliare l’ingegno in nome di un egualitarismo grottesco significa produrre una cultura in cui tutte le opere sono grigie e sul nero dell’intelligenza oscurata rimane a splendere solo la luce catodica dell’immagine elettronica. Sulle macerie del Sessantotto -o forse autentico monumento alla sua vittoria- è rimasta la televisione «musa della passività» (60). La realtà, con il suo spessore complesso e difficile, è sostituita dall’immagine-ideologia il cui enorme merito è l’esentare dalla fatica del pensiero.

Il politicamente corretto è anche la messa in scena del senso di colpa che divora l’Europa e non le consente di fare davvero i conti con la storia della propria sconfinata potenza. Sostenere che il nostro Continente sia l’origine di ogni male per gli altri popoli del pianeta è come ritenerlo intrinsecamente superiore a tutte le culture. Operano in entrambi i casi semplificazione e schematismo. Guerre, schiavismo, distruzione dell’ambiente non sono un portato dell’uomo europeo; le civiltà africane, arabe, asiatiche furono e in gran parte sono ancora ferocemente discriminanti, fondate sulle caste e sull’obbedienza assoluta al sacerdote-signore (cfr. anche J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi 1998).

Un multiculturalismo autentico rappresenta l’opposto degli inviti all’isolamento nella purezza della propria identità tribale. Malcom X potè una volta riunire i propri seguaci insieme a quelli di un gruppo neonazista. Erano d’accordo nel chiedere un’America separatista, divisa in due, bianchi da una parte, neri dall’altra. E invece «nel mondo prossimo venturo, chi non saprà navigare il mare della differenza sarà spacciato» (121). O almeno questo è l’auspicio. Che un uomo valga per quanto riesce a dare a se stesso e al mondo e non per il suo sesso, l’ideologia o la religione che professa, le abitudini sessuali che pratica, la percentuale di melanina nella pelle. Le differenze convivono con altre differenze e di esse continuamente si arricchiscono.

Pig Island

Pig Island by Paul McCarthy
Milano – Fondazione Nicola Trussardi – Palazzo Citterio
Sino al 4 luglio 2010

Nei sotterranei di Palazzo Citterio -a pochi passi dalla Pinacoteca di Brera- un uomo dormiente o forse morto accoglie i visitatori e li avvia verso questo suo bulimico e monumentale sogno. Un percorso onirico tra antiche fiabe, pirati e divette del cinema, dame settecentesche e fiumi di ketchup, falli di gomma e video pantagruelici. Un’arte per aggiunta, nella quale il surrealismo sembra trovare uno dei suoi vertici, ma è la realtà che vince. La realtà del potere sempre più folle che dilaga tra gli umani. Una sorta di Presidente Schreber che assume le fattezze dei Bush (una mescolanza di padre e figlio) mentre si accoppiano con una scrofa. Una sorta di Grande Abbuffata e di Salò o le centoventi giornate di Sodoma ma tutto declinato in salsa statunitense con gli hamburger, i cappelli, le forche e soprattutto un senso di pieno che non lascia spazio a nulla che non sia materia, pura materia: legno, plastica, silicone, acciaio, polistirolo, nylon, vetro… È l’orgia dell’opera mai completata, sempre provvisoria, vista mentre la si fa ed è pronta a cambiare, ad aggiungere ancora non senso allo spazio. Una civiltà letteralmente mostruosa si guarda allo specchio. Orripilante. Non l’opera, il mondo.

The Road

di John Hillcoat
USA, 2009
Con Viggo Mortensen, Kodi Smit-McPhee, Charlize Theron, Robert Duvall, Guy Pearce
Trailer del film

Non si sa che cosa sia accaduto, quando e come. Ma non c’è più vita animale, le foreste sono spoglie, gli alberi rimasti cadono e i terremoti si scatenano. I pochi umani ancora in vita si dividono tra predatori e prede, destinate a essere mangiate dai loro simili. Una ferocia quasi ovvia intesse le esistenze tornate allo stato di natura. Un Padre e un Figlio, entrambi senza nome, spingono il loro carrello da barboni, emblema di ciò che sono stati i consumi e di come ormai consummatum est (Gv., XIX, 30). Nato al momento dell’apocalisse, il figlio rappresenta per il padre lo stesso «Verbo di Dio», una promessa di redenzione che egli cerca in tutti i modi di preservare. La cupa metafora che questo film -e il romanzo di Cormac McCarthy da cui è tratto- rappresenta non può che concludersi col sacrificio da cui scaturisce una flebile speranza.

Ricordando un’affermazione hegeliana, si potrebbe dire che quando il cinema dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire ma soltanto conoscere. Il colore che non è colore attraversa infatti le miserabili esistenze rimaste e intesse ogni fotogramma di quest’opera, tranne i feedback del tempo che precede la catastrofe e la coperta-sudario di una delle scene conclusive. John Hillcoat ha costruito un road movie claustrofobico. Ossimoro che da se stesso dice dell’abbandono e dell’orrore di cui sono fatte le strade che gli umani, o qualche dio, non hanno saputo preservare dal male.

[Una recensione analitica del film, curata da Mario Gazzola, si può leggere sul sito posthuman.it ]

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