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Economia dell'irrazionale

È importante che il parlamento di Cipro abbia respinto la pretesa della troika finanziaria di un prelievo forzoso (furto) sui conti correnti dei cittadini. Al di là, infatti, della particolare situazione cipriota di dipendenza dagli investimenti russi, si è trattato anche di una prova generale di quanto l’Italia e altri Paesi potrebbero subire. I dogmi e gli ordini del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Centrale Europea, della Commissione Europea (controllata ormai dalla Germania) sono l’espressione di una irrazionalità della quale la finanza è ormai la più pericolosa manifestazione, più della politica, delle guerre e dei sentimenti.
Il problema del debito -che è di fatto il vero problema della storia contemporanea- ne costituisce palese testimonianza. Ricordiamo ancora una volta che cosa è accaduto dopo la crisi che ha colpito le banche soprattutto statunitensi -per loro precisa responsabilità- e che ha condotto l’intera Europa all’impoverimento: «Una delle cause immediate dell’innalzamento del debito risiede nei piani di salvataggio della finanza decisi dagli Stati nel 2008 e nel 2009. Per salvare le banche e le compagnie di assicurazioni, gli Stati hanno dovuto a loro volta contrarre prestiti sui mercati, il che ha accresciuto il loro debito in proporzioni enormi. Somme astronomiche (800 miliardi di dollari negli Stati Uniti, 117 miliardi di sterline in Gran Bretagna) sono state spese per impedire che le banche sprofondassero, decisione che ha gravato in pari misura sulle finanze pubbliche. Complessivamente, le quattro principali banche centrali (Riserva federale americana, Banca centrale europea, Banca del Giappone e Banca d’Inghilterra) hanno iniettato 5.000 miliardi di dollari nell’economia mondiale fra il 2008 e il 2010. È il più grande trasferimento di ricchezze della storia dal settore pubblico al settore privato! Un trasferimento che ha permesso alle banche salvate dagli Stati di ritrovarsi creditrici dei propri salvatori» (A. De Benoist, Diorama Letterario, 312, novembre-dicembre 2012, p. 2).
Banche che somigliano sempre più a dei gruppi criminali e come tali operano nella vita collettiva: «In conseguenza della crisi, l’Europa del Sud si trova oggi ad essere governata da tecnocrati e banchieri formatisi in Goldman Sachs o in Lehman Brothers. “Essere governati dal denaro organizzato è altrettanto pericoloso quanto esserlo dal crimine organizzato”, diceva Roosevelt» (Ivi, 4).
Molto interessante è a questo proposito quanto sostiene l’economista svizzero-egiziana Myret Zaki, la quale individua il maggiore rischio per l’economia mondiale nella pervicace volontà degli USA di mantenere il predominio del dollaro sull’economia globalizzata. Si tratta di una volontà politica che confligge in modo clamoroso con le regole della stessa economia liberista: «La zona  euro è molto più solvibile degli Stati Uniti. Molti studi lo dimostrano» e tuttavia il tasso di interesse pagato dagli USA rimane a meno del 3%, «un tasso anormalmente basso per un debito che definisco inadempiente», che raggiunge il 300% del Pil (quello europeo rimane sotto il 200%) e che produce una realtà sociale nella quale «46 milioni di americani vanno alla mensa dei poveri» e «il 15% della popolazione è uscito dal circuito del consumo e del risparmio». Tutto questo è dovuto a «un’amministrazione totalmente interventista. Qualcosa di mai visto in un sistema che pretende di essere liberale. L’economia americana è oggi un’economia amministrata e assistita, che manipola il valore del suo debito obbligazionario e in questo modo mette a soqquadro il mercato mondiale del debito»  (Ivi, pp. 4-6).
La vita collettiva è a volte geometrica e conseguente. Tutto questo è infatti il risultato di ciò che Heidegger chiamava Gestell, la Forma-Capitale fondata sul principio dell’illimitatezza: «Sempre più mercato, sempre più merci, sempre più profitti, sempre più reificazione dei rapporti sociali e così via. […] Da questo punto di vista, il capitalismo non è più soltanto un sistema economico, ma è anche portatore di un’antropologia che gli è propria, fondata sul modello dell’Homo œconomicus» (Intervista di L. Montarnal a A. De Benoist, Ivi, p. 7).

John Wayne era una rossa?

Zero Dark Thirty
di Kathryn Bigelow
Con: Jessica Chastain (Maya), Jason Clarke (Dan), Jennifer Ehle (Jessica), Kyle Chandler (Joseph Bradley), Mark Strong (George),
USA, 2012
Trailer del film

Questo film parla dell’operazione che portò all’assassinio di Osama Bin Laden tramite la violazione della sovranità del Pakistan durante un’azione di guerra notturna attuata con due elicotteri. Racconta che a convincere Barack Obama ad autorizzare l’operazione fu una giovane agente della CIA, di nome Maya, la quale testardamente, e contro la prudenza dei suoi capi e colleghi, seguì una traccia che la condusse a scoprire il rifugio dello sceicco.
L’incipit è uno schermo nero sul quale si ascoltano le voci di chi l’11 settembre 2001 stava per morire nelle torri gemelle. Voci che predispongono lo spettatore ad accettare qualunque gesto rivolto a vendicare quell’evento. Si prosegue con le torture che agenti della CIA praticano sui presunti membri di Al Qaeda. La ragazza all’inizio sembra un po’ turbata ma impara ben presto anche lei il mestiere di torturatrice. Il film si conclude con la lunga, estenuante scena dei reparti speciali dell’esercito che irrompono nel rifugio di Osama, uccidono uomini e donne e infine anche il cattivo. Tra l’inizio e la conclusione si dipanano delle azioni molto simili tra di loro, alcune delle quali francamente ridicole. Il risultato è uno dei più noiosi film di propaganda patriottica che siano stati girati negli ultimi decenni a Hollywood. Con la pretesa, oltretutto, di rappresentare un’opera critica o almeno di neutrale descrizione di quanto accade.
Su questa “neutralità” il filosofo Slavoj Žižek ha formulato un’analisi molto chiara, che condivido per intero. Lascio quindi a lui la parola:

«Ecco come, in una lettera al Los Angeles Times, Kathryn Bigelow ha giustificato come Zero Dark Thirty mostri dei metodi di tortura utilizzati dagli agenti del governo per catturare e uccidere Osama bin Laden:
“Quelli di noi che lavorano nelle arti sanno che la rappresentazione non è approvazione. Se così fosse, nessun artista sarebbe in grado di dipingere le pratiche disumane, nessun autore potrebbe scriverne, e nessun regista potrebbe approfondire i temi spinosi della nostra epoca.”
Davvero? Non c’è bisogno di essere un moralista, o ingenuo sulle urgenze della lotta contro gli attacchi terroristici, per pensare che torturare un essere umano è di per sé qualcosa di così profondamente sconvolgente che a rappresentarlo in maniera “neutrale” – ossia neutralizzare questa dimensione sconvolgente – sia già una forma di approvazione.
Immaginate un documentario che avesse rappresentato l’Olocausto in un modo indifferente, disinteressato, come una grande operazione logistico-industriale, focalizzandosi sui problemi tecnici (trasporto, smaltimento dei corpi, evitare il panico tra i prigionieri per essere gasati). Un tale film incarnerebbe un fascino profondamente immorale con il suo argomento, oppure conterebbe sulla neutralità oscena del suo stile per generare sgomento e orrore negli spettatori. Dove si posiziona Bigelow in questa distinzione?

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Maestri / Verità

The Master
di Paul Thomas Anderson
Con: Joaquin Phoenix (Freddy Quell), Philip Seymour Hoffman (Lancaster Dodd), Amy Adams (Peggy Dodd), Ambry Childers (Elizabeth Dodd), Rami Malek (Clark), Laura Dern (Helen Sullivan)
USA, 2012
Trailer del film

Un reduce dalla guerra nel Pacifico. Sbandato. Alcolizzato. Solo.
Un intellettuale carismatico e narcisista, fondatore della Causa, promettitore di salvezza, guarigione, senso.
Tanto evidentemente folle il primo quanto ambiguamente folle il secondo.
Ma nessuno dei due caratteri diventa in questo film una caricatura. Non si sa sino a che punto arrivi lo squilibrio del primo, non si sa sino a che punto sia sincero o truffaldino nei suoi insegnamenti  il secondo.
Si incontrano in nome del caso, della necessità, della solitudine, di un’esigenza di riscatto. Esigenza che tutti noi mortali avvertiamo. E che ci fa intravedere il nuovo là dove si dà l’uguale. Ci fa nutrire fiducia là dove pulsa l’inganno. Ci apre alla felicità di un successo, di un amore, di un apprendimento, là dove siamo noi invece a creare questo mondo di attese. Perché tutti sentiamo di essere caduti in un gorgo e di avere bisogno di redenzione. È anche su questa struttura antropologica che nascono i sentimenti e si fondano il potere politico e le organizzazioni religiose, da scientology alla chiesa papista, dai maghi di quartiere ai dittatori totalitari o democratici.
Un film che non va letto né in chiave psicologica né in quella storica ma nella prospettiva di un’antropologia disincantata e antiroussoviana, che non crede nella possibilità di riscatto e di “bontà” degli esseri umani, impossibilità che emergeva anche nell’epico Il petroliere. E che spiega perché milioni di persone acclamino dei soggetti cinici, cialtroni o feroci, che si presentano tuttavia come portatori di salvezza. Li acclamano, li seguono, li amano perché trovano nelle parole di costoro, nei loro gesti, nei loro volti quel significato al quale tutti tendiamo come il pane. «Se riuscirai a vivere senza un maestro, un qualsiasi maestro, vieni a raccontarmelo. Saresti il primo tra gli esseri umani» dice Lancaster rivolgendosi a Freddy.
Un film che narra anche attraverso la luce e le ombre, mediante una strepitosa fotografia caravaggesca che sia nei primissimi piani sia nei potenti campi lunghi trasmette l’inesorabile dolore della speranza.
La recitazione di Hoffman è come sempre eccellente, quella di Phoenix è semplicemente spaventosa nella sua perfezione. La nave dove i due si incontrano si chiama Alithia, in greco “verità”. A chi proclamava di essere venuto «per rendere testimonianza alla verità», il saggio Pilato chiese «Che cos’è verità?» (Gv., 18, 38).

Campi di sterminio, sterminio dei campi

La prima apparizione pubblica di Martin Heidegger dopo la Seconda guerra mondiale avvenne a Brema nel 1949, con un ciclo di conferenze dal titolo Einblick in das was ist (Sguardo in ciò che è). Di Heidegger è peculiare che dalle tesi apparentemente più astratte derivi al lettore una comprensione precisa, efficace e disvelante della vita quotidiana, degli aspetti fondamentali dell’esistenza individuale e collettiva. Heidegger ha individuato con chiarezza la trasformazione del mondo in un impianto (Gestell) la riduzione delle persone a risorse umane, funzionali alla produzione e sostituibili a ogni istante.
È di questo che mi sono ricordato leggendo un interessante e drammatico articolo apparso sulla rivista Indipendenza. Nel numero 33 (novembre/dicembre 2012) Gianni Sartori analizza i progetti di ulteriore colonizzazione del territorio vicentino da parte dell’esercito statunitense, in particolare il pericoloso programma di ampliamento per scopi militari dell’autostrada A31 in una zona ad alto rischio franoso. Contro tale progetto le popolazioni si sono mobilitate, come in Val di Susa. Tra gli oppositori vi è l’Associazione Coltivatori Diretti, che in un suo comunicato scrive: «Dopo i campi di sterminio la civiltà dell’industria ha determinato lo sterminio dei campi agricoli» (p. 28). L’articolo così prosegue: «E non sembri solo un gioco di parole. I contadini della Val d’Astico sanno di cosa parlano. La Valle ha ben conosciuto sia gli eccidi nazisti (come a Pedescala) che le deportazioni nei campi di sterminio. Non è un caso che Cogollo del Cengio sia gemellato con Mauthausen».
Ebbene, in un brano della conferenza del 1949 -che è stato rimproverato a Heidegger come espressione della sua insensibilità verso le tragedie del Novecento- il filosofo sostiene la continuità tra lo sterminio dei Lager e la distruzione delle risorse naturali del pianeta, senza le quali la vita va scomparendo dalla Terra:

Il lavoro del contadino non provoca il terreno, bensì affida la semina alle forze della crescita, proteggendola nel suo allignare. Nel frattempo, tuttavia, anche la lavorazione della terra si è convertita nel medesimo ordinare che assegna l’aria all’azoto, il terreno al carbone e al minerale metallifero, il minerale all’uranio, l’uranio all’energia atomica e quest’ultima a una distruzione che può essere ordinata. L’agricoltura è oggi industria alimentare meccanizzata, che nella sua essenza è lo Stesso (das Selbe) della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, lo Stesso del blocco e dell’affamamento di intere nazioni, lo Stesso della fabbricazione di bombe all’idrogeno.
(Conferenze di Brema e Friburgo, volume LXXIX della Gesamtausgabe, a cura di P. Jaeger, edizione italiana a cura di F. Volpi, trad. di G. Gurisatti, Adelphi, 2002, pp. 49-50)

Vi è qui la conferma che un grande pensare è capace di comprendere, al di là delle contingenze, il terreno nel quale affondano le radici invisibili degli eventi.

Django, il mito

Django Unchained
di Quentin Tarantino
Con: Jamie Foxx (Django), Cristoph Walz (Il Dottor King Schultz), Leonardo Di Caprio (Calvin Candie), Samuel L. Jackson (Stephen), Kerry Washington (Broomhilda), Don Johnson (Spencer Gordon Bennet)
USA, 2012
Trailer del film

Si comincia e si finisce nella notte. Alcuni uomini camminano nel buio, scortati da due negrieri. Il silenzio è rotto soltanto dal tintinnio delle loro catene. Uno squarcio e arriva la strana carrozza di un dentista tedesco che è interessato all’acquisto di uno degli schiavi. Il medico è un cacciatore di taglie e il negro dovrà aiutarlo a identificare tre banditi che hanno cambiato identità. I due diventano amici e sodali. Il Dottor Schultz è disposto ad aiutare Django nel tentativo di liberare la moglie, di proprietà di uno schiavista veramente sadico. La piantagione di costui -Candieland- è gestita da un vecchio e feroce schiavo. Lo stratagemma ideato per liberare la donna sembra andare a buon fine ma Stephen -il kapò nero- ha compreso tutto e si scatena un inferno che si conclude nel bagliore di un grande incendio.

La saga dei Nibelunghi -la moglie di Django si chiama Broomhilda-; un Prometeo che spezza le proprie catene; l’omaggio musicale e visuale (sin dai titoli di testa) ai western di Sergio Leone; l’ironia dei dialoghi (spassosi quelli tra i balordi e imbranati membri di un incipiente Ku Klux Klan); l’immancabile pulp di una violenza che fa zampillare sangue dai morenti, fa sbranare schiavi dai cani, fa penzolare corpi dai ganci, fa rinchiudere schiave fuggiasche in fornaci; il paradosso di neri che si insultano a vicenda per il fatto di essere neri, sino al punto che uno di loro diventa il più determinato e crudele collaboratore del padrone bianco. Pura narrazione (μῦϑος), insomma. Puro cinema. Grande divertimento.

I buoni della CIA

Argo
di Ben Affleck
Con: Ben Affleck (Tony Mendez), Alan Arkin (Lester Siegel), John Goodman (John Chambers), Bryan  Cranston (Jack O’ Donnel))
USA, 2012
Trailer del film

Come fanno dappertutto da sessant’anni, anche in Persia gli Stati Uniti sostennero un dittatore tanto feroce quanto stupido: Reza Pahlavi, il quale si faceva portare il pranzo da Parigi con un Concorde mentre gli iraniani erano alla fame. Nel 1979 questo squallido soggetto e la sua corte vennero deposti dalla rivoluzione sciita. Pahlavi fuggì negli USA e per ottenere la sua estradizione gli iraniani occuparono l’ambasciata statunitense facendo prigionieri i membri del corpo diplomatico. Sei di costoro riuscirono però a fuggire e a rifugiarsi nell’ambasciata canadese. Tirarli fuori da lì prima che il governo iraniano ne venisse a conoscenza fu il compito della CIA, uno dei cui agenti inventò lo stratagemma di un film di fantascienza da girare in territorio iraniano, spacciando i sei diplomatici per membri della troupe. L’operazione riuscì e i sei tornarono negli USA accolti come eroi.
Ben Affleck ricostruisce e interpreta questa vicenda con un onesto cappello iniziale nel quale delle «immagini di repertorio e una voce femminile dall’accento esotico fuori campo mostrano quali eccellenti ragioni avessero gli Iraniani per odiare lo Scià e gli Americani; e similmente che l’assedio all’ambasciata fosse stato provocato dal rifiuto degli USA di consegnare Reza Palhevi all’Iran» (Dario Sammartino).
Mano a mano che il film procede, però, una pesante cappa retorica e patriottica si stende sull’opera, sino alla conclusiva apoteosi a stelle e strisce. La tecnica è quella di un ottimo thriller in cui tutto è perfettamente scandito, i pezzi del puzzle si incastrano a meraviglia -pur nella loro evidente improbabilità- e la tensione rimane  alta sino alla fine, nonostante la fine sia appunto nota.
Ma tutto questo non nasconde a sufficienza la natura interamente ideologica dell’opera, nella quale i membri della CIA -vale a dire dell’agenzia governativa più terroristica che ci sia al mondo- appaiono naturalmente come delle brave persone, dedite a lavoro e famiglia. Come lo era Eichmann, in fondo.
Da evitare.

12 dicembre 1969

Bombe e segreti
piazza fontana: una strage senza colpevoli
con un’intervista a guido salvini
di Luciano Lanza
elèuthera, Milano 2009
Pagine 180

In realtà di segreti ne rimangono pochi. Su quella bomba a Milano, su ciò che la precedette e su quanto ne seguì, quasi tutto è stato chiarito. In parte nelle aule di tribunale ma soprattutto nella conoscenza storica. Questa è una delle tesi di fondo del libro di Luciano Lanza, «libro di parte, ma non partigiano» che cerca di «raggiungere il massimo di obiettività possibile» (pp. 8-9). E ci riesce. Nelle sue pagine c’è tutto il rigore del giornalismo che controlla ogni dato e verifica tutte le fonti. E c’è soprattutto lo sguardo di lunga durata dello storico contemporaneista, capace di inserire ciascuno dei particolari in un quadro razionale e plausibile.
12 dicembre 1969 – 3 maggio 2005. Più di trentacinque anni sono trascorsi dalla strage alla sentenza definitiva con la quale la Cassazione ha archiviato quel crimine. Un crimine nelle cui indagini il depistaggio è stato immediato, pianificato e sistematico: «I fascisti mettono le bombe. La polizia arresta gli anarchici. Schema classico di questa storia. Le direttive vengono dall’alto. Si deve colpire a sinistra. E il commissario Luigi Calabresi a Milano, come il suo collega della squadra politica di Roma, Umberto Improta, eseguono con la massima solerzia» (94). L’obiettivo del progetto criminale maturato tra il Ministero dell’Interno, gli ambienti più oltranzisti della Nato e le organizzazioni neonaziste italiane era infatti tanto semplice quanto lucido: «meglio i morti che il cambiamento» (7). Meglio dare inizio a un vortice di violenza che paralizzi il dinamismo della vita sociale in una cupa atmosfera di timore e terrore, in una spirale che induca a rispondere alla violenza dello Stato e dei suoi complici neonazisti con la violenza della lotta armata; un crescendo che ha cristallizzato la situazione politico-istituzionale, «una logica assurda che ha messo in crisi quasi tutte le proposte di cambiamento radicale della società italiana» (7). Questo era l’obiettivo -raggiunto- di un affare di Stato progettato e messo in opera da «personaggi che scelgono il terrorismo per perpetuarsi nella gestione del potere» (134).
Chi sono tali personaggi? Per comprendere, al di là dei nomi e cognomi, si può partire da una delle rare ammissioni di Freda: «La strage l’ha organizzata un prefetto» (164), vale a dire una carica di governo, del Ministero degli interni. C’è infatti «una ragnatela di complicità, sollecitazioni, aiuti, reciproci ricatti che traccia alcune delle pagine più velenose della storia italiana» (81). C’è il provvidenziale tassista Rolandi il quale, dopo qualche incertezza e in cambio dei 50 milioni della taglia -cifra certamente assai consistente all’epoca-, fu indotto a riconoscere Valpreda nell’assurdo cliente che prese il taxi per coprire 135 metri di distanza, un itinerario che nessun milanese prima e dopo il 12 dicembre del 1969 ha mai percorso con un’auto pubblica. Ci sono stati i capetti sessantottini del Movimento studentesco che, dopo il discorso dell’autore di questo libro in un’assemblea alla Statale di Milano, «intervengono per minimizzare una situazione oggettivamente drammatica» e però «qualche tempo dopo rivendicheranno di essere stati i primi ad accorgersi del “pericolo fascista”» (46). C’è stato Luigi Calabresi, non soltanto con il volo di un indagato dal suo ufficio in questura ma anche con «le minacce che da mesi faceva all’anarchico quando, accortosi di non poter affatto contare sulla collaborazione di Pinelli, lo aveva preso di mira» (109). Ci sono state «le continue e incredibili amnesie di cui soffrirà Rumor al primo processo di Catanzaro» (131). C’è stato il ruolo del PCI, che molto sapeva e molto ha taciuto, che «in pratica, ha commercializzato il suo silenzio» (15) in vista di future e miopi speranze di governo. C’è stata la magistratura che -nel momento in cui, dal 1989 al 1997, sembravano aprirsi concrete prospettive grazie alle indagini del giudice istruttore Guido Salvini– si è divisa al proprio interno, ha ostacolato il collega, ha visto con fastidio e come un peso ciò che definiva «archeologia giudiziaria» (149), negando definitivamente giustizia alle vittime e ai loro familiari. Ci sono state le sentenze dell’ineffabile Corrado Carnevale, «il “re del cavillo” che manda liberi mafiosi, terroristi e bancarottieri» (126). C’è stato il determinato e abilissimo Delfo Zorzi, «cioè l’uomo che confesserà almeno in due occasioni di aver partecipato all’attentato di Milano del 12 dicembre» (84) ma che le sentenze d’appello e di Cassazione manderanno assolto.
E ci sono stati soprattutto Giovanni Ventura, Franco Giorgio Freda e Federico Umberto D’Amato. Questi sono i nomi e i cognomi determinanti. Freda e Ventura sono stati definitivamente condannati per diciassette attentati -anch’essi attribuiti all’inizio agli anarchici- compiuti tra l’aprile e l’agosto del 1969, un’attività degna di un esercito. Freda e Ventura tuttavia commisero tali e tante imprudenze nella preparazione dell’attentato da essere subito individuati tra i possibili responsabili e però sono andati assolti per la sistematica opera di copertura e protezione dei servizi segreti. Ma persino la sentenza finale della Cassazione riconosce la loro responsabilità, pur dichiarando la non procedibilità nei loro confronti in quanto definitivamente assolti da una precedente corte d’Assise. In ogni caso -dichiara Guido Salvini- «la matrice della strage è ormai indiscutibile, la sua firma è la croce celtica di Ordine nuovo» (140). Ventura è morto a Buenos Aires nel 2010. Freda è un raffinato editore di testi neonazisti ma non solo, anche di bellissimi libri pagani e di varia (dis)umanità. Scorrendo il catalogo delle Edizioni Ar e visitando il sito www.edizionidiar.it si ha l’impressione di una persona che crede d’essere davvero il “superuomo” nietzscheano (tradotto così da D’Annunzio e non l’ “oltreuomo” come sarebbe più corretto volgere l’originario Übermensch). Nella pagina biografica del sito vi si legge, ad esempio, che «vincere in questo mondo non gli preme, non gli importa nulla del successo mondano, ma se vincesse lui vorrebbe fare fuori “anche il cane di casa” dei nemici. Tranquilli, non c’è quel rischio. In una recente intervista (delle pochissimissime che concede), alla domanda: “Come pensa debba muoversi l’uomo ‘in ordine’?”, ha risposto con decisione: “Non deve muoversi. Deve stare fermo, raccolto in sé, concentrato in sé. Naturalmente, nel proprio miglior sé”». Dispiace che tanta elegante scrittura e simile sentimento eroico della vita si siano incarnate anche nel sostegno violento alla Nato, ai servi di uno Stato ritenuto da Freda decadente e cialtrone, alle volontà degli Stati Uniti d’America e del loro cuore sionista. Il puro, troppo puro, Franco Giorgio Freda non se n’è accorto o non se ne dà pensiero. Ma intanto di quelle potenze è stato attivo complice.
Potenze il cui corpo e volto sono quelli di Federico Umberto D’Amato, personaggio quasi ignoto ma che «è stato uno degli uomini più potenti d’Italia» (116). Responsabile in più alto grado dell’Ufficio affari riservati del Ministero degli Interni, tessera 1643 della loggia massonica P2, curatore per anni della rubrica gastronomica dell’Espresso, morto nel 1996, D’Amato ha raccolto, posseduto e usato centocinquantamila fascicoli con i quali è verosimile abbia controllato e ricattato soggetti di tutti i tipi e tendenze. Prima e dopo il 12 dicembre fu attivissimo nell’organizzare, provocare, depistare, coprire.

Grazie al suo rapporto con Delle Chiaie e con molti altri esponenti del nazifascismo, è in grado di gestire l’attività dei gruppi dell’estrema destra. In pratica, Delle Chiaie, leader di Avanguardia Nazionale, è teleguidato da D’Amato. Al tempo stesso l’uomo del Viminale rappresenta l’Italia nell’ufficio sicurezza del Patto atlantico. […] D’Amato è, quindi, costantemente informato sull’attività di Zorzi e dei suoi alleati, Franco Freda e Giovanni Ventura. Anzi ne è il silenzioso promotore. È dunque responsabile, in ultima istanza, della strage di piazza Fontana? […] Da come l’ufficio affari riservati si muove per proteggere l’attività del gruppo di Freda e Ventura, una risposta affermativa risulta convincente. (115-116)

A quest’uomo e al potere -esso sì- espressione di apparati «cialtroni, di carogne, di osti, di legulei, di traditori…» (come si esprime Freda in un suo libro) si contrappongono la pulizia e la forza politica di Giuseppe Pinelli, il quale aveva «buttato fuori» Valpreda dal circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa a causa dell’ingenuità ideologica e del pericolo politico rappresentato dalla «prosa allucinante» di alcuni suoi articoli (95). In una lettera spedita proprio il 12 dicembre a Paolo Faccioli, Pinelli aveva scritto che «l’anarchismo non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo nemmeno subirla: esso è ragionamento e responsabilità» (27).
Luciano Lanza inizia la sua ricostruzione di eventi, idee, situazioni, con l’affermare che non si tratta di una pagina oscura ma di un capitolo chiaro e preciso della storia del crimine politico in Italia. Una chiarezza che non è potuta pervenire alla sua dimensione giuridica e formale a causa della volontà e della capacità che «ministri, servizi segreti italiani ed esteri, magistrati, forze di polizia» (8) hanno avuto nel nascondere pervicacemente l’evidenza dello Stato criminale. Tali forze hanno costantemente mischiato «il falso al vero e al verosimile» (155). Debord afferma che «dans le monde réellement renversé, le vrai est un moment du faux» (“nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”, La Société du Spectacle, Gallimard, Paris 1991 [I ed. Buchet-Chastel,1967], prop. 9, pag. 19). Questo mondo rovesciato è quello di Piazza Fontana, i suoi cadaveri bocconi sul pavimento della banca ne sono la più plastica e terribile delle figure.

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