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Arte / Politica

Cildo Mereiles
A cura di João Fernandes
Museu de Arte Contemporânea de Serralves  – Porto
Sino al 26 gennaio 2014

Politica è l’arte di Cildo Meireles. Grandi installazioni e piccole composizioni testimoniano infatti «di che lagrime grondi e di che sangue» il dominio degli Stati Uniti d’America nello spazio e nel tempo.
Olvido (1987-1989) è una tenda indigena costruita con banconote di tutti i Paesi del continente americano su un terreno composto da tonnellate di ossa e circondato da un muro formato da quasi settantamila candele. Marulho (1991-1997) è la suggestiva ricostruzione di un pontile che dà su un mare fatto di libri, di volumi aperti su immagini di onde mentre il sonoro diffonde la parola acqua pronunciata in centinaia di lingue. Nós formigas (2007-2013) si trova all’esterno del museo: si tratta infatti di una gru che sostiene un enorme cubo di pietra sotto il quale può collocarsi il visitatore per vedere la faccia inferiore del cubo abitata da una colonia di termiti. Noi formiche di una società nella quale «le spectacle n’est pas un ensemble d’images, mais un rapport social entre des personnes, médiatisé par des images» (‘lo spettacolo non è un insieme di immagini ma una relazione sociale tra persone, mediatizzata dalle immagini’, Debord, La Société du Spectacle, Gallimard 1992, prop. 4, p. 16).
E molte altre invenzioni nelle quali si entra come in un gioco, con cui si interagisce divertiti, sulle quali si riflette mentre si sta dentro la creazione artistica e i suoi significati politici.

Spie e spettacolo

In Europa fanno tutti gli ingenui, come se non sapessero dell’enorme potenza di controllo degli Stati Uniti d’America su ogni gesto, parola, decisione dei nostri popoli e dei governi che li hanno svenduti.
E quand’anche? Il signore non ha forse diritto a controllare il proprio maggiordomo?
Se non si vuole subire la sorte dei servi bisogna togliersi la livrea, non lamentarsi perché il padrone ti guarda.
«Mais l’ambition la plus haute du spectaculaire intégré, c’est encore que les agents secrets deviennent des révolutionnaires, et que les révolutionnaires deviennent des agents secrets».
(Guy Debord, Commentaires sur la société du spectacle [1988], Gallimard 1992, § IV, p. 25)

 

Vuoto

Bling Ring
(The Bling Ring)
di Sofia Coppola
USA, Gran Bretagna, Francia, Germania, Giappone, 2013
Con: Israel Broussard (Marc), Katie Chang (Rebecca), Emma Watson (Nicki), Claire Alys Taissa Julien (Chloe), Taissa Farmiga (Sam), Leslie Mann (Laurie)
Trailer del film

 

La città degli angeli è quella di adolescenti -o poco più- che si sentono esistere soltanto se indossano ciò che attrici e redditiere conservano nelle loro capaci stanze; se “visitano” le loro case quando esse non ci sono e fanno un po’ di shopping tra le stanze, gli armadi, le scarpiere; se possono frequentare gli stessi luoghi e stare sotto lo stesso cielo. Nessuna identità, quindi, che non sia l’imitazione di ciò che altri fanno, nessuna vita che non sia la fotocopia di altrui esistenze. E le famiglie di questi ragazzi? Complici, evanescenti, grottesche. E pronte, naturalmente, a giustificare qualunque gesto dei loro rampolli.
Da un episodio di cronaca realmente accaduto, Sofia Coppola costruisce un film che non giudica i suoi protagonisti ma che proprio per questo ne manifesta la totale nullità. Un film che dal microcosmo di alcuni quartieri di Los Angeles si amplia alla società dello spettacolo e dunque non soltanto agli States ma all’intero sistema della comunicazione contemporanea che è fatta di feticismo delle merci, di inestricabile intreccio tra l’accaduto e l’immaginato, di esasperato iconismo.
Un film disturbante, come molti lo hanno definito, anche perché descrive ambienti e personaggi certamente conosciuti attraverso i telefilm e i blockbuster che provengono da Hollywood ma che il taglio, il montaggio e lo stile di Bling Ring rendono stranianti e inassimilabili alle forme consuete di intrattenimento. Riprese rallentate, inserti in bianco e nero, carrellate bulimiche sugli oggetti, campi lunghi e primi piani si alternano a disegnare un mondo frenetico, il vuoto pneumatico.

 

Padri

Come un tuono
(The Place Beyond the Pines)
di Derek Cianfrance
Con: Ryan Gosling (Luke), Bradley Cooper (Avery), Eva Mendes (Romina), Dan DeHaan (Jason), Emory Cohen (AJ), Ray Liotta (De Luca)
USA, 2012
Trailer del film

Luke è un esperto motociclista che si guadagna da vivere in numeri da circo. Uno sbandato, sostanzialmente. Torna in un posto dove era stato l’anno prima e scopre di essere diventato padre. Da quel momento abbandona la vita da nomade per stare vicino al figlio. Ma la madre del bambino ha una sua vita, un suo compagno e rifiuta l’insistenza di Luke. Il quale per assicurare un futuro al figlio comincia a rapinare delle banche. Finché gli va male, molto male. Ma il poliziotto che lo uccide, anche lui padre da poco, ha sparato per primo mentre Luke voleva arrendersi. Una colpa che si porterà appresso nella sua vita da eroe e poi da magistrato. Quindici anni dopo i due figli senza padre, uno perché morto e l’altro perché assente, diventano compagni di scuola. Quando il figlio di Luke conosce l’identità di chi gli ha ucciso il padre, medita un’inevitabile vendetta.
La prima parte del film è uno spettacolare ma banale racconto di rapine. Il finale è un poco allungato e inevitabilmente retorico (siamo pur sempre negli USA) ma la sezione centrale è molto interessante per la misura e l’efficacia con la quale racconta la profonda corruzione della polizia degli Stati Uniti d’America e intreccia tra di loro sentimenti apparentemente diversi come l’onestà, l’ambizione, la paternità, l’amicizia. La figura del Padre incombe in modi diversi su tutti i personaggi, bambini e non. Divenire adulti significa anche sentire che siamo diventati il padre e che per questo non abbiamo più bisogno di lui. La struttura circolare del film è naturalmente il procedere di una Nemesi.

 

San Martino è sempre

Konrad Lorenz dimostra che l’aggressività nel mondo animale svolge una funzione biologica molto importante perché è indispensabile alla sopravvivenza (aggressività difensiva), all’evoluzione (aggressività adattativa), alla maturazione del singolo (aggressività esplorativa). L’aggressività diventata guerra rappresenta però «nell’attuale situazione storico-culturale e tecnologica dell’umanità il più grave di tutti i pericoli» (L’aggressività, Mondadori 1990, p. 66). Il paradosso è che proprio la componente biologica costituisce un possibile freno alla distruttività mentre molte norme culturali impongono -con le motivazioni più varie: religiose, nazionalistiche, economiche- di uccidere. Tutti i grandi predatori hanno dovuto infatti sviluppare nel corso della filogenesi una radicale inibizione a usare le loro armi naturali contro membri della stessa specie, pena l’inevitabile estinzione. Un lupo, ad esempio, non uccide un altro lupo che gli offre la gola in segno di sottomissione, quando basterebbe un semplice morso per finirlo. Qui l’inibizione è assai forte e agisce sistematicamente. Nell’uomo invece essa è assente in quanto egli è privo di armi naturali con le quali possa, in un sol colpo, uccidere una grossa preda: «Nessuna pressione selettiva si formò nella preistoria dell’umanità per generare meccanismi inibitori che evitassero l’uccisione di conspecifici finché, tutto d’un tratto, l’invenzione di armi artificiali portò lo squilibrio fra la capacità omicidiale e le inibizioni sociali» (Ivi, 314-315). Da qui il proliferare di una violenza senza freni, esercitata mediante armi che colpiscono da lontano e in modo anonimo, rafforzata dall’evidente contrasto fra la “nobiltà” dei valori etici -come la democrazia e i diritti umani- e il permanere di istinti fondamentali e atavici di aggressione, sottomissione, moltiplicazione delle proprie risorse. James Hillman osserva a ragione che la guerra è oggi «una devastante operazione high-tech eseguita da tecnici specializzati con un tocco delle dita», tanto che «sempre più distanti dalle distruzioni che innescano, i sicari possono starsene seduti, comodi e puliti, insonorizzati e deodorati, attenti solo ai pixel» (Un terribile amore per la guerra, Adelphi 2005, pp. 114 e 191; su tutto questo cfr. la voce «Guerra» da me curata per il Dizionario di bioetica, Villaggio Maori 2012, pp. 182-184).
Una delle tragedie della guerra è che da essa sembra non si impari mai. Non soltanto dai conflitti più remoti ma anche da quelli recenti o addirittura ancora in corso. E quindi gli Stati Uniti d’America, con Gran Bretagna e Francia come loro più fedeli servitori, si preparano a un nuovo conflitto illegittimo sul piano dei diritto internazionale, pericolosissimo per gli sviluppi che potrà avere, totalmente distruttivo per i civili siriani. Perché? Lascio la parola a due esperti, diversi tra di loro ma convergenti nell’analisi.

Don Renato Sacco, di Pax Christi, sostiene che

«basta vedere a quello che è successo in Afghanistan, in Iraq, in Libia: il rovesciamento del capo del regime non ha portato affatto la pace. È una storia che si ripete sempre, con amarezza: noi abbiamo sempre cullato i dittatori, li abbiamo ritenuti nostri amici, li abbiamo armati e poi abbiamo detto che bisognava fargli la guerra. È successo con Saddam e poi con Gheddafi. La comunità internazionale ha fatto di tutto con la sua indifferenza per far precipitare la situazione, l’Italia stessa ha venduto le armi alla Libia e poi si è detto che bisognava bombardare. […] Chi oggi si scandalizza di fronte alle vittime siriane, se lo fa per arrivare alla guerra lo fa per interessi. Poi le vittime vengono dimenticate e non se ne parla più. In Iraq nel mese di luglio ci sono stati mille morti, siamo arrivati ai livelli di violenza del 2006 e nessuno parla più. Quando si utilizzano le vittime per giustificare una guerra non lo si fa per amore delle vittime ma per amore dei propri affari e dei propri interessi. […] Una chiave di questo precipitare degli eventi potrebbe essere quella delle pressioni esercitate da parte delle lobby delle armi. Qualcuno parla già di accordi economici e militari tra Usa e Arabia Saudita. […] L’intervento armato a sostegno dell’uno o dell’altro schieramento porterebbe alla catastrofe totale, renderebbe esplosiva tutta l’area mediorientale già instabile con conseguenze devastanti per tutti, a cominciare dall’Europa» (Fonte: «Le vittime di Assad sono un pretesto»).

Massimo Fini afferma che

«tra l’altro non si sa affatto se Assad ha usato armi chimiche, ci sono gli ispettori ONU per questo, o l’ONU non conta nulla? Evidentemente non conta nulla perché quando serve c’è il cappello ONU, se non c’è il cappello ONU si aggredisce lo stesso. Questo è avvenuto in Serbia nel ’99, in Iraq nel 2003 e in Libia recentemente. Tutte azioni e aggressioni senza nessuna copertura ONU. Si dovrebbe per lo meno aspettare la relazione degli ispettori. C’è un precedente che dovrebbe consigliare prudenza, non dico agli Stati Uniti che non ne hanno, ma ai suoi alleati, ed è quello dell’Iraq, dove sostenevano che Saddam Hussein avesse le armi chimiche, di distruzione di massa, e poi non le aveva. Certo, lo sostenevano perché gliele avevano date loro a suo tempo, gli Stati Uniti, in funzione anti sciita e anti curda, però non le aveva più perché le aveva usate ad Halabja, gasando cinquemila curdi. […] Obama aveva tracciato una linea rossa, ma chi lo autorizza a tracciare linee rosse in altri paesi? Gli americani hanno sfondato un principio di diritto internazionale che era valso fino a qualche decennio fa, della non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano. I diritti umani sono il grimaldello con cui in realtà intervengono dove vogliono e quando vogliono, anche perché non hanno più contraltare, la Russia non è più una superpotenza. […] Tutti questi interventi si sono sempre risolti in altri massacri, prendiamo l’Iraq, l’intervento americano ha causato direttamente o indirettamente tra i 650 mila e 750 mila morti! Quindi ogni intervento cosiddetto umanitario si risolve in una strage umanitaria» (Fonte: La Siria e la terza guerra mondiale).

Giuseppe Ungaretti era stato un fervente interventista e si era arruolato -partendo da Alessandria d’Egitto- nell’esercito italiano che combatteva contro l’Austria-Ungheria. Ma si rese subito conto, al di là della propaganda bellica, di quale sia la vera natura della guerra. Scrisse allora queste parole: «Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro // Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto // Ma nel cuore / Nessuna croce manca // È il mio cuore / Il paese più straziato» («San Martino del Carso», in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori 1977, p. 51).
E anni dopo così si espresse sulla «bestialità e l’imperialismo» che delle guerre sono sempre la vera radice:

 

 

 

Hollywoodiane vendette

Dead Man Down
Il sapore della vendetta
di Niels Arden Oplev
Con: Colin Farrel (Victor), Noomi Rapace (Beatrice), Terrence Howard (Alphonse Hoyt), Dominic Cooper (Darcy), Isabelle Huppert (Valentine), Armand Assante (Lon Gordon), Raymond Mamrak (Daniels)
USA 2013
Trailer del film

 

Una qualunque, cupa metropoli degli Stati Uniti d’America. Victor è tra gli uomini più fidati di Alphonse, capo di una banda che controlla il mercato immobiliare e quello della droga. Una giovane vicina di casa -che lo ha visto mentre uccideva- gli chiede di vendicarla dell’uomo che l’ha sfigurata in un incidente d’auto. Anche Victor cerca in realtà la vendetta contro Alphonse e contro una banda di albanesi che gli hanno ucciso moglie e figlia. Tutto, naturalmente, si incastra alla perfezione sino al fuoco d’artificio (alla lettera) che porta a compimento questa lenta, lunga, duplice vendetta.
Spettacolare, circolare e paradossalmente immobile, questo film rimane grossolano nell’analisi delle passioni e artificioso nello svolgimento degli eventi. Si fa comunque vedere senza annoiare. Un prodotto medio per una serata hollywoodiana.

 

 

Cile

No – I giorni dell’arcobaleno
di Pablo Larraín
(Titolo originale: No)
Con: Gael García Bernal (René Saavedra), Alfredo Castro (Lucho Guzmán), Antonia Zegers (Verónica)
Cile, 2012
Trailer del film

È morto tardi Augusto José Ramón Pinochet Ugarte, a 91 anni. Ed è morto odiato da gran parte della società cilena ma anche compianto da migliaia di sostenitori. A conferma che l’impulso gregario dei popoli verso il Grande Fallo (di Mussolini, di Stalin, di Videla o di Berlusconi che sia) è qualcosa di insopprimibile, poste le condizioni che ne favoriscano il culto. Tra queste, nel caso cileno, la volontà degli Stati Uniti, di Richard Nixon e di Henry Kissinger di eliminare Allende e il suo tentativo di un socialismo democratico. Pinochet, inoltre, era anche un buon cattolico, che venne ampiamente omaggiato da Karol Wojtyla durante la sua visita a Santiago nel 1987. Ma nonostante questo il dittatore perse il referendum che aveva organizzato nel 1988, sicuro di ricevere un’ulteriore consacrazione politica. Tra i motivi della sconfitta vi fu la decisione da parte dell’opposizione di utilizzare i pochi spazi televisivi messi a disposizione del regime per mandare in onda programmi permeati di lievità e allegria. La politica come prodotto, la protesta come spot. A ispirare questa decisione fu un giovane pubblicitario, che promosse la libertà al modo stesso in cui si vende un forno a microonde. Il risultato fu l’imprevista e imprevedibile fine del regime di Pinochet.
Girato con cineprese degli anni Ottanta, il film restituisce filologicamente l’atmosfera, la cultura materiale, le paure, il conformismo e la tenacia della società cilena negli ultimi tempi della dittatura. La freddezza emotiva delle precedenti opere di Larraín qui si stempera molto -nonostante lo sguardo sempre inquietante del grande Alfredo Castro- in parte perché No fonde la ricostruzione narrativa con degli autentici filmati d’epoca. E la realtà è sempre meno gelida dell’invenzione. Anche per questo è più banale.

 

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