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Astronomia

Massimo Capaccioli
L’incanto di Urania
Venticinque secoli di esplorazione del cielo
Carocci, Roma 2020
«Sfere / 157»
Pagine 531

Urania è la musa dell’astronomia, l’unica scienza dura ad avere una propria musa. Una scienza del tutto particolare, nella quale non sono possibili i comuni esperimenti da laboratorio ed è invece richiesto un grande talento ermeneutico/teorico nella interpretazione dei dati, che per millenni sono stati raccolti con il semplice ausilio degli occhi e da quattro secoli con quello di strumenti all’inizio ancora soltanto ottici e ora multimessaggeri, vale a dire capaci di conservare e far interagire tra loro fonti diverse di informazione sulla materia, come fotoni (la luce, appunto), raggi cosmici, neutrini, onde radio, onde gravitazionali.
L’astronomia è stata anche uno dei grandi ingressi alla civiltà postmedioevale. Fu essa infatti a mettere in crisi il paradigma antropocentrico – sostenuto per millenni dalla cosmologia tolemaica e aristotelica – e poi ad ampliare gli spazi della mente e della materia verso misure impreviste e impensabili. Se l’astronomia antica dava conforto alla mortalità umana ponendo la nostra specie in ogni caso al centro del cosmo, la scienza contemporanea ha aperto agli astronomi e a tutti gli umani «il regno delle galassie e relegato la Via Lattea a semplice esemplare di un universo isola» (p. 278).
Una ‘contemporaneità’ assai recente – un secolo circa – nella quale le misure lineari si sono dilatate tanto da richiedere un nuovo criterio che non è più lo spazio statico ma uno strumento dinamico e temporale quale la velocità della luce. Come tutto ciò che esiste, anche le stelle hanno mostrato una natura temporale, iniziando la loro esistenza «con un collasso gravitazionale di una nube di gas che scalda il cuore della protostella, completandosi con l’accensione di una fornace centrale. Qui la fusione dell’idrogeno in elio procura l’energia con cui vengono rimpiazzate le perdite per irraggiamento» (437). Un’esistenza che può durare più o meno a lungo ma sempre su tempi per l’umano immensi.

Il valore dell’energia che è in gioco nelle stelle è diventato inimmaginabile, come hanno confermato la scoperta (nel 1934) delle supernovae, «astri ipertesi, con una massa come quella del Sole e grandi come una città» (362) a dimostrazione di quanto estrema possa diventare la densità della materia, e poi la scoperta (nel 1964) delle sorgenti radio quasi stellari, quasar e ancora (nel 1968) la scoperta delle pulsar, sorgenti radio capaci di variare più volte al secondo i propri valori. E su tutto sta il duplice enigma dei buchi neri e della materia oscura, la conoscenza della cui natura è lenta e difficile.
I black holes costituiscono delle singolarità, vale a dire fenomeni per i quali non valgono le leggi fisiche conosciute e che rimangono inaccessibili all’esperienza, «oggetti talmente compatti da essere contenuti entro il proprio orizzonte, ossia entro un ideale guscio che demarca il confine tra lo spazio-tempo reale e quel non mondo dal quale nemmeno la luce può fuggire» (435).
Della dark matter si conosce ancor meno. Sostanzialmente si sa che si tratta di materia «relativamente fredda, cioè animata da velocità modeste rispetto alla luce (il che implica particelle ‘oscure’ con masse individuali relativamente grandi) e non collisionale, ossia che non interagisce né con sé stessa né con la materia ordinaria, gravità a parte» (442). Una presenza pervasiva, dagli effetti decisivi sulla costituzione della materia visibile, della luce e del vuoto. Quasi il 75% della materia/energia sarebbe infatti oscura e la luce rappresenterebbe soltanto una parte piuttosto piccola del cosmo, «un ingrediente marginale dell’universo» (440).
E questo significa che «il vuoto non è affatto vuoto e anzi possiede risorse che crescono proporzionalmente alla dilatazione dello spazio. […] Ci sono invece molte e diverse osservazioni a conferma di un paradigma di universo dove la materia ordinaria è ormai poco più che una traccia spersa in un mare di componenti oscure» (447).
Il lungo percorso – reso da questo libro avvincente – che dall’osservazione dei cieli babilonesi e greci perviene all’astrofisica del XXI secolo è molto differenziato ma è anche segnato da costanti teoretiche, sociologiche e psicologiche.

La prima e più importante riguarda l’indissolubilità del legame tra astronomia e temporalità. Studiare gli astri vuol dire analizzare lo spaziotempo in qualche modo infinito, in qualche modo eterno, in qualche modo costante e insieme dinamico. Se le ipotesi di Wright, Kant, Laplace mettevano «la parola fine al lungo capitolo dell’universo sidereo immutabile e perfetto, introducendo nella filosofia naturale quel concetto di evoluzione che avrebbe avuto come prima conseguenza la nascita della termodinamica in fisica, e nella genetica l’esplosione della rivoluzione darwiniana e lamarckiana» (180), al tempo si piega anche la fisica relativistica, la quale nonostante le tendenze eleatiche e spinoziste del suo fondatore – che da «grande estimatore di Baruch Spinoza, proprio dal filosofo sefardita bandito dalla sua comunità per le temerarie riflessioni sulla religione aveva tratto il convincimento che Dio e natura fossero in qualche misura sinonimi, e che pertanto il cosmo dovesse godere del medesimo attributo della divinità: un’eternità immobile e senza tempo» (289) – ha contribuito alla scoperta e alla comprensione di molti fenomeni che confermano la natura pulsante ed evolutiva della materia, tanto che da una ventina d’anni ormai sembra accertato che «l’età dell’universo [sia di] 13,72 miliardi di anni, con un’incertezza di un centinaio di milioni d’anni. Oramai il modello stazionario di Hoyle, Bondi e Gold era stato ampiamente falsificato dall’accidentale scoperta della radiazione cosmica di fondo (Cosmic Microwave Background Radiation – CMBR)» (392).

La costante sociologica si esprime nella inseparabilità delle vicende di una scienza in qualche modo assoluta qual è l’astronomia rispetto alle vicende storiche e sociologiche alle quali il libro dedica riferimenti sintetici ma sistematici. E si esprime soprattutto in un fattore tutto interno al lavoro scientifico, il quale è sempre sottoposto alle forze d’inerzia della tradizione, del potere accademico, delle strumentalizzazioni e dei finanziamenti da parte del potere politico. «Un esempio recente e clamoroso di questo condizionamento psicologico è il modello statico cui Albert Einstein fu indotto dalla sua adesione al panteismo spinoziano che pretendeva l’immutabilità del tutto; una pregiudiziale visione del mondo che il genio tedesco riconobbe essere stato il ‘più grande errore’ della sua vita» (34) e un altro esempio riguarda sempre Einstein attraverso il sostegno datogli da uno dei maggiori astronomi del Novecento, Arthur Eddington, il quale arrivò a misure che collimavano perfettamente con le previsioni einsteiniane ma che successivamente vennero dimostrate false: «Forse, nel cercare una risposta commise qualche errore o forse, abbagliato dal desiderio di poter provare la veridicità di una teoria che lo aveva completamente sedotto, forzò la mano ai dati. Buon per Einstein, che di punto in bianco diventò un’autentica star» (289).

La costante psicologica è data dalla presentazione sempre vivace, disincantata e persino divertita dei caratteri degli astronomi, delle loro passioni, idiosincrasie, gelosie, cecità, miserie. Tra i più spregiudicati e scorretti scienziati di ogni tempo vi è certamente Newton, il quale giunse «persino a far distruggere una tela che rappresentava il suo nemico [Robert Hooke] nelle sale della Royal Society. Meschino ma anche pavido: non osò infatti pubblicare il suo trattato di ottica (Opticks, 1704) sin quando Hooke, piegato dagli acciacchi, non si spense. Forse il contorto genio del Trinity College temeva l’insorgere di altre accuse di plagio, come quella rivoltagli dal tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz in merito alla teoria delle flussioni. Una disputa internazionale nella quale Newton diede nuovamente prova della sua totale mancanza di scrupoli» (135). Tendenza al plagio che caratterizzò anche alcuni momenti della carriera di Edwin Hubble (313).

Storia dunque di umani e di macchine, di astrazioni e di tecnologie – dettagliatissima la storia dei telescopi –, di paradigmi e di rompicapo che mettendo in crisi le verità conducono a nuove risposte perché fanno sorgere rinnovate domande. Emblematico il caso della cosiddetta ‘costante di Hubble’ che dovrebbe indicare l’età dell’universo e che è caratterizzata da una radicale incostanza, mutando valore con una certa frequenza. Essa infatti non soltanto «assume valori differenti a seconda del metodo impiegato» ma diventa un elemento «patologico qualora le misure siano molto precise e tuttavia in disaccordo tra di loro. Se confermata, questa anomalia richiederà un drastico ripensamento della teoria che ne prevede la costanza» (447).
In ogni caso, l’astronomia conferma di costituire insieme alla matematica la più filosofica delle scienze poiché per sua natura la cosmologia è «la scienza che studia il tutto nel suo insieme con l’intento di spiegarne l’origine e la trasformazione» (444), uno degli obiettivi costanti della filosofia.

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