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Infiniti mondi

Giordano Bruno
De l’infinito, universo e mondi
(1584)
in «Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici»
A cura di Giovanni Gentile e Giovanni Aquilecchia
Sansoni, 1985
I volume, pagine 343-544 

L’onestà intellettuale di Giordano Bruno gli fa riconoscere la validità di alcuni argomenti di Aristotele, filosofo che pur critica aspramente. Un’onestà che lo spinge a dismettere ogni fede, pregiudizio, dogma. La consapevolezza metodologico-critica che fonda l’opera bruniana è ben espressa da questa affermazione: «Chi vuol perfettamente giudicare, come ho detto, deve saper spogliarsi della consuetudine di credere; deve l’una e l’altra contraddittoria estimare equalmente possibile, e dismettere a fatto quella affezione di cui è imbibito da natività» (p. 500).
I risultati di questo atteggiamento sono tra i più importanti e fecondi del pensiero moderno e si possono riassumere nella equiparazione della Terra a ogni altro corpo celeste; nella struttura isotropa dell’universo; nella necessità che intride il mondo fisico; nella identità tra corpo e tempo.
Bruno ribadisce infatti e dimostra che «non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole; ma tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose, le quali non sono più né meno in un cielo ed un loco ed un comprendente, che questo mondo, in cui siamo noi, è in un comprendente luogo e cielo (463). In questo modo il dualismo tradizionale -aristotelico ma non solo- tra mondo lunare e mondo sublunare scompare; l’indagine si può aprire a dimensioni inaudite e sconosciute, la cui infinità fa sì che in qualunque punto e luogo ci si trovi dell’universo, esso dà sempre l’impressione di essere il centro dell’intero. Tra gli innumerevoli soli, terre, astri, non esiste vuoto e vi sono 

innumerabili ed infiniti globi, come vi è questo in cui vivemo e vegetamo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo: in esso sono infiniti mondi simili a questo, e non differenti in geno da questo; perché non è raggione né difetto di facultà naturale, dico tanta potenza passiva quanto attiva, per la quale, come in questo spacio circa noi ne sono, medesimamente non ne sieno in tutto l’altro spacio che di natura non è differente ed altro da questo (518).

La materia è perfetta e dunque necessaria, poiché «non può esser altro che quello che è; non può esser tale quale non è; non può posser altro che quel che può; non può voler altro che quel che vuole; e necessariamente non può far altro che quel che fa; atteso che l’aver potenza distinta da l’atto conviene solamente a cose mutabili» (384). Il determinismo è semplicemente la presa d’atto che la materia coincide con le sue stesse leggi, immutabili ed enigmatiche, delle quali l’umano è parte.
Di queste leggi è struttura fondamentale il tempo, vale a dire la potenza stessa del divenire che genera, dissolve e rigenera. Il corpo umano è anch’esso corpotempo. È infatti evidente «che giovani non abbiamo la medesima carne che avevamo fanciulli, e vecchi non abbiamo quella medesima che quando eravamo giovani; perché siamo in continua trasmutazione, la qual porta seco che in noi continuamente influiscano nuovi atomi e da noi se dipartano li già altre volte accolti» (412-413).
L’energia e lo slancio del pensiero bruniano costituiscono una forza davvero rivoluzionaria. Il filosofo ne è del tutto consapevole. A Burchio il quale sconcertato obietta che «con questo vostro dire volete ponere sotto sopra il mondo», Fracastoro giustamente e sensatamente risponde chiedendo «ti par che farrebbe male un che volesse mettere sotto sopra il mondo rinversato?» (465). No, non farebbe male.

Perfezione

Inferno
Scuderie del Quirinale – Roma
A cura di Jean Clair
Sino al 23 gennaio 2022

Percorsa l’ampia spirale che una volta serviva ai cavalli del Re d’Italia al Quirinale, si arriva a un muro sul quale vengono proiettate alcune scene di Inferno, girato nel 1911 da Bertolini, De Liguori e Padovan (è possibile vedere qui l’intero film, dal quale consiglio di eliminare l’audio posticcio). Immagini ingenue e insieme espressioniste, ispirate a Gustave Doré ma colme più che in lui di una fisicità che ha preso alla lettera le invenzioni dantesche del ghiaccio, del fuoco, dei fiumi attraversati da anime del tutto corporee.
Si giunge da qui alla Porta dell’Inferno di Rodin, che cerca di esprimere nel marmo il dolore senza fine dei dannati. Il Giudizio finale di  Beato Angelico, dove persino la dannazione assume l’armonia delle sfere, sta accanto a una ben più terrificante Morte scolpita nel 1522 da Gil de Ronza (qui a destra).
Alcune magnifiche edizioni quattrocentesche del De civitate Dei introducono altri antichi volumi, compresi alcuni manoscritti. Gli Inferi di Monsü Desiderio (1622; immagine qui sotto) descrivono una profonda e terribile architettura che sembra scavare dentro e oltre e prima delle sofferenze umane e animali. Non potevano mancare Hieronymus Bosch con i suoi inferni, i suoi incubi, il suo grottesco, la sua Visione apocalittica, e Albrecht Dürer con Il cavaliere, la morte e il diavolo, una delle immagini più potenti dell’arte universale.

In mezzo a tutto questo la Medusa del 2008 di Ivan Theimer, in realtà eterna, fuori dal tempo, puro orrore. Di rappresentazione in rappresentazione si arriva ai Lussuriosi di Victor Prouvê (1889) (immagine di apertura), una delle opere più inquietanti e perfette di questo viaggio nel dolore: Paolo è carne senza volto che tocca ancora una volta la carne desiderabile di Francesca ma questi corpi e gli altri spinti dalla «bufera infernal, che mai non resta» (Inferno, canto V, v. 31) danno l’impressione di essere tutti in agonia, nel preciso senso della ‘piccola morte’ -l’orgasmo- che è diventata subito, in quell’istante stesso, il momento della fine. Un istante che la dannazione rende eterno. E poi ancora: gli acquarelli di Miguel Barceló (2001) si alternano alle molteplici versioni delle Tentazioni di sant’Antonio, soprattutto quella di Odilon Redon (1896) in cui la Morte dice alla vita «sono io che ti rendo seria».
C’è una grande forza nei versi con i quali Mefistofele dichiara la propria natura redentrice: «Ich bin der Geist, der stets verneint! / Und das mit Recht; denn alles, was entsteht, / Ist wert, daß es zugrunde geht; / Drum besser wärs, daß nichts entstünde. / So ist denn alles, was ihr Sünde, / Zerstörung, kurz das Böse nennt, / Mein eigentliches Element» (Goethe, Faust, vv. 1338-1344); nella traduzione di Franco Fortini: «Sono lo spirito che sempre dice no. / Ed a ragione. Nulla / c’è che nasca e non meriti / di venire disfatto. / Meglio sarebbe che nulla nascesse. / Così tutto quello che dite Peccato / o Distruzione, Male insomma, / è il mio elemento vero» (Meridiani Mondadori 1990, p. 103); bella, e più diretta, la traduzione che compare in mostra: «Sono lo spirito che nega sempre! / E con ragione, perché tutto ciò che nasce / è degno di perire. / Perciò sarebbe meglio se non nascesse nulla. / Insomma, tutto ciò che voi chiamate / peccato, distruzione, in breve, il male / è il mio specifico elemento». A tanta apollinea verità si coniuga e contrappone la grottesca potenza con la quale Alfred Kubin descrive il Concepimento della donna (1905) dallo sperma che il diavolo emette dal suo enorme fallo (a destra).
E poi: l’inferno delle fabbriche, che per Georges-Antoine Rochegrosse hanno ucciso «la porpora», la bellezza (1914; qui sotto); l’inferno della follia; l’inferno della guerra con L’avvoltoio carnivoro di Goya ripreso da Kubin in Europa (1916); l’inferno delle trincee, descritte in modo realistico e insieme simbolico da Percy Delfi Smith e Otto Dix nelle immagini dedicate al Grande Massacro, alla Prima guerra mondiale, oggetto anche dell’Inferno di George Leroux (1921), un impasto di argilla, carne, escrementi, cadaveri, fumo.

Che cosa mai dei diavoli potrebbero inventare di più malvagio di ciò che gli umani sono capaci di fare? Con tranquillo disincanto Schopenhauer afferma appunto che l’inferno non è qualcosa di diverso dalla nostra vita. Dovremmo forse riconoscere che l’origine e la forma del male stanno nel funesto demiurgo (Jehovah/יְהֹוָה) al quale si attribuisce la creazione dell’umano e del vivente.
Lucifero merita invece le parole di Giosuè Carducci e di Anatole France. Il primo così si esprime nel suo Inno a Satana (1863): «A te, de l’essere / Principio immenso, / Materia e spirito, / Ragione e senso. […] E splendi e folgora / Di fiamme cinto; / Materia, inalzati; / Satana ha vinto. […] Salute, o Satana, / O ribellione, / O forza vindice / De la ragione! // Sacri a te salgano / Gl’incensi e i voti! / Hai vinto il Geova / De i sacerdoti» (vv. 1-4 ; 165-168; 193-200). Il secondo, riprendendo tesi da sempre presenti nella vicenda religiosa e filosofica dell’Europa, scrive che il Dio biblico è in realtà Yaldabaoth, il demiurgo delle tradizioni gnostiche, «un tiranno ignorante, stupido e crudele», che non è affatto il creatore dei mondi ma è soltanto un’entità inferiore al divino, un facitore «ignorante e barbaro, che, essendosi impadronito di un’infima particella dell’Universo, vi ha sparso il dolore e la morte» ma che gli umani continuano ad adorare, per quanto infelici siano, poiché «è spaventoso per loro il solo pensiero di cessare di essere. […] Gli uomini adorano il Demiurgo che ha reso la loro vita peggiore della morte e la morte peggiore della vita» (La révolte des anges [1914], trad. di A. Baldasseroni, La rivolta degli angeli, Lindau, Torino 2017, pp. 99, 216 e 129).

La densa mostra romana si chiude sui versi finali della cantica dantesca: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (XXXIV, 139). A rivedere gli astri, le luci, le galassie, che si fanno movimento ed energia nelle riprese effettuate dal Telescopio Hubble nel 2014, una delle cose più belle e più vere della mostra. Più vere perché una spiegazione del male della vita che voglia rimanere razionale non può che essere spinoziana, materialistica, cosmica.
Per Spinoza il bene e il male non sono enti reali ma enti di ragione, sono relazioni con le quali delle menti particolari valutano ciò che a loro porta vantaggio e ciò che invece fa patire loro danno. Ciascun ente stia dunque «contento al quia», per dirla ancora con Alighieri (anche se in un significato che Dante non avrebbe accolto; Purgatorio, III, v. 37), al quia della propria identità spaziotemporale dentro il tutto, senza ambire a impossibili eternità per il singolo, che è un modo/elemento dell’eternità che nulla può scalfire o diminuire. Con grande chiarezza Spinoza sostiene che «bene e male o peccato non sono che dei modi di pensare e non delle cose aventi una reale esistenza […], poiché tutte le cose e le opere della natura sono perfette» (Breve Trattato su Dio, l’Uomo e la sua felicità, 6,9; trad. di A. Sangiacomo, in Tutte le opere, Bompiani 2011, p. 235).

Perfetto è il cosmo, perfetta la materia, perfetto è l’intero. «La materiatempo è perfezione libera da ogni sensibilità, malattia, angoscia, bisogno, risentimento, dolore. La realtà nella quale siamo radicati è fatta di vita e non vita, in un continuum di esistenze materiche dentro il quale i corpi viventi vengono poi accolti dentro la potenza metabolizzante degli elementi, delle radici vegetali, della terra. Vengono accolti nell’essere in quanto tale, che è energia, che è materia. Una potenza che viene prima e che rimane al di là di ogni parola e di ogni concetto. Tanto che solo un poeta-mistico ha forse potuto dirla con sufficiente chiarezza mostrando l’essere senza perché di una rosa, la quale ‘fiorisce perché fiorisce’. Lo ha detto Silesius. Lui e il suo maestro Eckhart hanno oltrepassato ogni individualità animale e ogni personalità divina, immergendo l’essere e la parola che lo dice nel flusso del tempo e nell’emanazione della luce, senza un perché» (Tempo e materia. Una metafisica, Olschki 2020, p. 146).
L’Inferno è la condizione di sofferenza e insecuritas del vivente ma la comprensione della luce oscura che è l’esserci «l’immersione in essa, redime dal suo niente e fonda la libertà dello gnostico: libertà dal male e dal bene, libertà da ogni autorità, libertà dalla speranza, libertà dal senso, libertà dal niente dentro il niente» (Ivi, p. 98).  

Il vuoto

Maurizio Consoli – Alessandro Pluchino
Il vuoto: un enigma tra fisica e metafisica
Aracne Editrice, 2015
Pagine 174

Tra i concetti più antichi, enigmatici, pervasivi del pensare, sempre attuali pur nel mutare delle concezioni fisiche e filosofiche, il vuoto si delinea sempre più come un altro nome dell’essere. Vuoto è infatti la condizione del movimento, del divenire, del tempo. Non soltanto nel banale e semplice senso che qualcosa per muoversi e diventare deve farlo in un elemento libero, spazialmente occupato e temporalmente non ancora compiuto ma anche e soprattutto in un significato assai più radicale, che questo importante libro indaga in una molteplicità di direzioni: dal rigore delle equazioni che intessono un intero capitolo (il settimo) ai riferimenti esatti e costanti alla storia della filosofia e alle tradizioni metafisiche orientali.
Il fecondo paradosso che attraversa tutto il testo è che il vuoto non è ‘vuoto’ ma consiste, usando il linguaggio della fisica contemporanea, nello «stato di minima energia» (p. 166); è il ground state, lo stato fondamentale che riempie uniformemente lo spazio e con il quale alla fine coincide. Il vuoto può dunque essere anche la forma oscura di materia ed energia che non è percepibile o misurabile (almeno con i nostri strumenti) ma che interagisce gravitazionalmente, determinando la struttura stessa della materia, la sua origine, il suo evolversi.
I nomi e le forme che questa potenza del vuoto ha assunto nelle differenti culture, tradizioni e paradigmi sono diversi, radicali e fondanti: l’ἄπειρον di Anassimandro, l’indifferenziato che consente l’esistenza e il dinamismo di tutti gli elementi nel tempo; la materia del Taoismo, dell’Induismo e del Buddhismo, non il mero nulla – anche qui – ma l’unità degli opposti; la χώρα platonica, «un elemento primordiale oscuro, informe ed invisibile» (p. 68); il Sein di Heidegger come trasparenza che fa vedere, attrito che fa muovere, intero che rende possibile la parte.
Un altro nome del vuoto è, infine, l’etere della millenaria tradizione fisica e metafisica, vale a dire la sostanza che pervade tutto l’universo e dentro la quale si muovono i corpi, compresa la luce. È sull’etere che questo libro formula ipotesi e propone interpretazioni di grande significato sia per la storia della scienza sia per l’epistemologia. Dall’indagine condotta in queste pagine emerge infatti come non sia vero che la relatività abbia definitivamente cancellato l’etere. Non soltanto perché, come si disse sin da subito, nella teoria einsteiniana dell’invarianza (o della relatività) l’etere continua a rimanere centrale prendendo il nome di spazio, ma per numerose altre ragioni sia sperimentali sia matematiche.
Lo stesso Einstein fu sulla questione molto più aperto di quanto di solito si pensi. Nel Manoscritto Morgan del 1920 e in una lezione tenuta a Leida  lo stesso anno, affermò infatti che «nel 1905 ero convinto che non fosse più permesso di parlare di etere in fisica. Tuttavia questa opinione era troppo radicale. Secondo la relatività generale, lo spazio è dotato di proprietà fisiche. In questo senso, un etere esiste…Si può perciò dire che l’etere è risuscitato nella teoria della relatività generale, anche se in una forma più sublimata. A differenza della materia ordinaria, esso non è pensabile come composto di particelle che possano essere seguite individualmente nel tempo» (qui citato alle pp. 100-101).
Consoli e Pluchino mostrano in modo documentato che se questa posizione non venne dallo scienziato tedesco ulteriormente sviluppata fu per ragioni che non hanno a che fare con la fisica ma con la sociologia della conoscenza e con la situazione storica della prima metà del Novecento. Di fatto oggi si assiste a un ritorno dell’etere «sotto altre specie, tramite la nozione di un condensato che pervade uniformemente lo spazio e fa da sfondo ai processi fisici osservabili. Peraltro […] il campo di Higgs non  è l’unica forma di etere che viene introdotta» (17).
Il vuoto non è il nulla, l’etere non è il nulla. Vuoto ed etere sono il vacuum condensation, la condensazione del vuoto, tanto che  diversamente «dallo spazio-tempo banalmente vuoto che Einstein aveva in mente nel 1905, il vuoto della fisica di oggi andrebbe piuttosto pensato come permeato da diversi condensati di quanti elementari» (140).
A partire da questa complessa e ricca fondazione epistemologica, Consoli e Pluchino conducono una duplice operazione: interpretano in modo diverso – rispetto alla vulgata – il significato e i limiti degli esperimenti di ottica effettuati da Michelson-Morley nel 1887; analizzano e riproducono tali esperimenti su base matematica. Mostrano in questo modo che i residui di quegli esperimenti – il cui obiettivo consisteva nell’osservare il moto della Terra nell’etere e stimarne la velocità – conducono a un valore di 370 km al secondo, che è esattamente quello confermato dallo studio della Cosmic Microwave Background (CMB, radiazione cosmica di fondo). La loro indagine suggerisce quindi di rivalutare alcuni elementi di quegli esperimenti che risultano compatibili con l’esistenza dell’etere, non riducendoli per intero a errori strumentali ma anzi mostrando che «possono anche essere consistenti con il modello stocastico di ether-drift che abbiamo discusso» (124). Si tratta di un risultato assai fecondo, dato che «riuscire a rivelare in laboratorio un ‘ether-wind’ (vento d’etere) finirebbe con il modificare sostanzialmente il nostro modo di concepire la realtà» (10).
I primi esperimenti di Michelson-Morley, e i numerosi che seguirono nei decenni successivi, se da un lato non diedero i risultati che ci si attendeva per poter confermare l’ipotesi dell’esistenza dell’etere, dall’altro diedero però dei risultati con essa compatibili. Riformulati con metodi matematici, questi risultati «differentemente dall’interpretazione tradizionale, che tende a considerarli come puri effetti strumentali, potrebbero invece acquistare un significato fisico ed indicare un debole flusso di energia, associato al moto cosmico della Terra, che induce correnti convettive in sistemi debolmente legati come i gas ed una conseguente leggera anisotropia della velocità della luce» (140-141). Ricordo che con anisotropia si indica quella proprietà per la quale il valore di una grandezza fisica dipende dalla direzione che il fenomeno studiato assume. Questo implica che un punto di riferimento conta nell’accadere e nei risultati del fenomeno studiato e che quindi siano possibili riferimenti assoluti.
Un altro elemento favorevole a questa ipotesi è una delle più interessanti interpretazioni della meccanica quantistica, vale a dire la teoria dell’onda-pilota di de Broglie-Bohm: «Nella sua formulazione più semplice, vengono introdotte due entità distinte: un corpuscolo materiale localizzabile ed un’onda che lo guida, la funzione d’onda Ψ che compare nell’equazione di Schrödinger. L’onda ha un diretto significato fisico ed andrebbe interpretata come una reale eccitazione di un etere sottostante, cioè del vuoto. Essa viene provocata dal corpuscolo ma, nello stesso tempo, lo ‘pilota’ nel senso che ne determina il momento spaziale P tramite la relazione P = −h∇S, dove S è la fase di Ψ = |Ψ|eiS» (164). In questo modo non soltanto si supera il dualismo onda/particella ma l’etere acquista lo stato di ipotesi ancora ben presente e ben plausibile all’interno della fisica contemporanea, un’ipotesi radicata nell’intera scienza e metafisica, non soltanto europee, e coerente con la meccanica quantistica.
L’etere può costituire l’ἄπειρον come campo/energia nel quale la materiatempo fluisce, si condensa, sta e accade. In termini generali, l’etere può rappresentare lo spaziotempo assoluto la cui esistenza non è affatto esclusa ma anzi è implicata da alcune delle teorie cosmologiche più recenti.
Il fatto che la meccanica quantistica conduca «a una visione della realtà come un tutt’uno profondamente interconnesso» (52) conferma il significato e la fecondità del pensiero greco arcaico, da cui matematica e fisica sono sorte e del quale – come si vede anche in questo libro appassionante – rimangono eredi.

Gli autori del libro – che si può scaricare in pdf – ne hanno scritto un altro, molto più tecnico, pubblicato nel 2018 in lingua inglese con la World Scientific.
Le loro ipotesi sulle relazioni tra l’etere e la radiazione cosmica di fondo erano state anche sintetizzate in forma semplificata e per un più vasto pubblico in un articolo in lingua italiana, inizialmente preso in considerazione da una rivista di divulgazione scientifica ma che poi per varie traversie non è stato pubblicato. Ne pubblico qui il pdf (con le mie evidenziazioni).
Si tratta di pagine che possono aprire un dibattito fecondo, anche nel caso si volesse respingere i loro contenuti. Significativa è la conclusione del testo, che indirizza alla questione della complessità. Se un articolo così fecondo non è stato ancora pubblicato è perché, oltre i meccanismi di censura e rifiuto analizzati magistralmente da Kuhn e Feyerabend, in questi casi agisce anche la consueta antropologia del branco, tesa a respingere i membri della comunità che mostrino troppo coraggio. Un coraggio che rischierebbe di mettere in pericolo l’identità e la forza della comunità stabilita. Insomma, che siano fisici, matematici, filosofi o altro, gli umani rimangono una comunità di primati. È bene che lo sappiano per non incorrere nella ὕβρις antropocentrica. Tanto più apprezzo chi, come Pluchino e Consoli, ha il coraggio e la curiosità di muoversi su territori non dogmatici e realmente scientifici.

[La fotografia raffigura il nostro pianetino, con la Luna che gli gira intorno, come si vede da Saturno;  a una distanza di circa un miliardo e mezzo di km, che corrispondono a 90 minuti luce]

Wille zum Leben

Life
di  Daniel Espinosa
Usa, 2017
Con: Olga Dihovichnaya (Kat), Rebecca Ferguson (Miranda North), Jake Gyllenhaal (David Jordan), Ariyon Bakare (Hugh Derry), Hiroyuki Sanada (Sho Kendo), Ryan Reynolds (Roy Adams)
Trailer del film

La prima prova che c’è vita anche su altri pianeti arriva sotto forma di un minuscolo organismo unicellulare proveniente da Marte. L’equipaggio in orbita terrestre lo chiama Calvin. L’entità evolve velocemente, si mostra fisicamente forte e molto intelligente. Si muove, agisce, sfugge, insegue, divora per vivere e sopravvivere. Dietro e dentro la sua forma tentacolare si mostra l’implacabile verità della vita, una struttura che esiste per assorbire altra vita, per distruggere ed essere distrutta. La vita -non gli umani- è in quanto tale bellum omnium contra omnes. «Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?» Alla domanda semplice e radicale di Leopardi nessuno risponde (Dialogo della Natura e di un Islandese, in «Operette morali»).
Assai più luminosa della vita è la materia. La materia che in un suo intervallo sarà stata anche protoplasmatica, vegetale e animale, sarà stata materia artificiale e macchinica. Ma quando la vita -questo straziante ed effimero intervallo nell’oggettività e nella potenza del cosmo- sarà scomparsa anche dal nostro insignificante pianetino, rimarrà la materia minerale e cosmica, la sua potenza. Rimarrà la materia e basta. Non più gli umani, entità miserrima dentro l’universo, e neppure soltanto gli altri animali, vertebrati o invertebrati, di terra o di mare, volatili e insetti. Nemmeno le piante, i fiori, il grano. Rimarrà soltanto la materia, le rocce, le lave. E le stelle. La pura luce, la loro luce. Le trasformazioni elettromagnetiche che invadono di fulgore lo spazio silenzioso nel quale di tanto in tanto la materia si raggruma in polvere, pianeti, astri. Qui non c’è sofferenza. Non c’è mai stata. Nulla nasce e nulla muore ma tutto diviene. Tutto è perfetto.

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