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Corsi (sotto)Zero

Una delle più gravi illusioni didattiche prodotte dal behaviorismo e da altre correnti della pedagogia contemporanea è la convinzione che sia sufficiente istituire corsi, organizzare lezioni, svolgere azioni di «recupero» per colmare vuoti di conoscenza e dare alle persone le competenze che non hanno acquisito durante molti anni di studio e di frequenza delle scuole.
Esempio di una tale speranza -tanto patetica quanto pericolosa- sono i cosiddetti Corsi Zero organizzati da diversi Atenei italiani (compreso il mio) anche in seguito ai risultati dei test di ingresso ai vari Corsi di Laurea. Test che nel mio Dipartimento hanno avuto risultati drammatici. La maggior parte dei nuovi iscritti, infatti, ha bisogno di frequentare i Corsi di recupero OFA (Obblighi Formativi Aggiuntivi). Tali Corsi consisteranno in una serie di lezioni tenute in tempi assai stretti su argomenti quali: la lingua italiana, le lingue straniere, le lingue classiche, la matematica (in altri Dipartimenti). I Corsi Zero in tali discipline saranno «indispensabili per superare la prova di verifica che, a conclusione del corso, permetterà di soddisfare gli OFA entro il primo anno di corso, come previsto dal Regolamento Didattico di Ateneo (art. 8 comma 1 e 2 del RDA -D.R. n.2634 del 6.08.2015)».
Riempire le menti di centinaia di studenti con qualche esercitazione e con alcune nozioni di base -che avrebbero dovuto assimilare a scuola-, ritenendo che in tal modo questi studenti saranno in grado di seguire corsi di Ingegneria, Filologia, Lingue straniere, Filosofia, significa cadere in pieno nella sindrome didatticista del «successo formativo obbligatorio», vale a dire quanto di più distante ci sia dalla concreta realtà dell’apprendimento, che è fatta di tempi lunghi, di talento naturale, di dialogo maieutico tra maestro e allievo.
Il tipico pragmatismo statunitense induce invece a credere -ché di una vera e propria fede si tratta- che basti organizzare, fare, recuperare, affinché accada il miracolo. In effetti è un miracolo quello necessario a riempire gli abissi di ignoranza con i quali troppi giovani escono dalle scuole -chiaramente ridotte a luoghi di intrattenimento e di socializzazione- e che si esprimono anche nelle risposte che sto sentendo in questi giorni di esami delle discipline che insegno. Ho ascoltato studenti che non conoscono la storia del Novecento, che non sanno in quale secolo venne scoperta l’America, che sono privi di qualunque anche minimo rigore logico, che ignorano o confondono in modo drammatico i significati delle parole fondamentali della filosofia, della storia, della letteratura.
Di fronte a tanto scempio organizziamo Corsi Zero per «soddisfare gli OFA» e viviamo sereni.

[Corsi sotto(Zero) è stato pubblicato anche su Roars]

Humboldt

Il denso numero 400 di A Rivista anarchica ospita un’articolata riflessione di David Graeber a proposito del futuro, delle attese che lo hanno intessuto nel Novecento, delle delusioni. Graeber affronta anche la questione universitaria osservando che

quella che è cambiata è la cultura burocratica. Il crescente intreccio tra Stato, università e imprese private ha indotto tutti ad adottare il linguaggio, la sensibilità e le forme organizzative che provengono dal mondo imprenditoriale. Se ciò è forse servito a creare prodotti commerciabili, perché è per questo che sono fatte le burocrazie aziendali, per quello che riguarda il sostegno alle ricerche originali, i risultati sono catastrofici. Le mie conoscenze vengono da università degli Stati Uniti e dell’Inghilterra. In entrambi i paesi gli ultimi trent’anni hanno visto una vera e propria esplosione della percentuale delle ore lavorative destinate a compiti amministrativi a spese di tutto il resto. Nella mia università, per esempio, abbiamo più amministratori che membri di facoltà, e da questi ultimi, per giunta, ci si aspetta un impegno di ore dedicate all’amministrazione almeno pari a quelle destinate alla didattica e alla ricerca sommate insieme. Le cose vanno così, più o meno, in tutte le università del mondo.
L’aumento del lavoro amministrativo è un esito diretto dell’introduzione delle tecniche di gestione d’impresa. Invariabilmente queste sono fatte passare come strumenti per migliorare l’efficienza e per introdurre la competizione a qualsiasi livello. Quello che a conti fatti significano in pratica è che tutti finiscono per dedicare gran parte del proprio tempo nel tentativo di vendere qualcosa: proposte di mutui, offerte di libri, valutazione di posti per studenti e richieste di finanziamenti, valutazione dei nostri colleghi, prospetti di specializzazioni interdisciplinari, istituti, workshop e conferenze, le università stesse (che sono ormai diventate marchi da promuovere presso potenziali studenti e finanziatori) e così via. (p. 51)

Questa descrizione vale ormai in modo pressocché integrale anche per l’Università italiana, segno di una colonizzazione che rischia di distruggere l’identità dell’Università europea come era stata pensata e realizzata nell’Ottocento da Wilhelm von Humboldt, vale a dire una Università istituzionalmente libera dai poteri politici ed economici e solo per questo in grado di svolgere la sua funzione al servizio della scienza, nella unità e pluralità del sapere.
La decadenza dell’Europa è invece mostrata anche -e forse specialmente- dal tramonto di tale modello a favore di una struttura al servizio del potere politico (qualunque esso sia) e degli organismi finanziari, volti alla perpetuazione dell’ingiustizia che ferisce, dell’eccesso che distrugge, dell’ignoranza che dissolve.
Difendere strenuamente l’università europea humboldtiana contro la sua degenerazione burocratica significa semplicemente garantire il presente e il futuro della scienza e quindi dell’intera comunità sociale.

Guerre, migranti ed esercito industriale di riserva

«Un esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial], indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione. […]
Alla produzione capitalistica non basta per nulla la quantità di forza-lavoro disponibile che fornisce l’aumento naturale della popolazione. Per avere libero gioco essa ha bisogno di un esercito industriale di riserva che sia indipendente da questo limite naturale [Sie bedarf zu ihrem freien Spiel einer von dieser Naturschranke unabhängigen industriellen Reservearmee]. […]
L’esercito industriale di riserva preme durante i periodi di stagnazione e di prosperità media sull’esercito operaio attivo e ne frena durante il periodo della sovrappopolazione e del parossismo le rivendicazioni [hält ihre Ansprüche während der Periode der Überproduktion und des Paroxysmus im Zaum ]. […]
Il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa alberga infine nella sfera del pauperismo. Astrazione fatta da vagabondi, delinquenti, prostitute, in breve dal sottoproletariato propriamente detto, questo strato sociale consiste di tre categorie.
Prima, persone capaci di lavorare. Basta guardare anche superficialmente le statistiche del pauperismo inglese per trovare che la sua massa si gonfia a ogni crisi e diminuisce a ogni ripresa degli affari [seine Masse mit jeder Krise schwillt und mit jeder Wiederbelebung des Geschäfts abnimmt].
Seconda: orfani e figli di poveri. Essi sono i candidati dell’esercito industriale di riserva e, in epoche di grande crescita, come nel 1860 per esempio, vengono arruolati rapidamente e in massa nell’esercito operaio attivo».
(Karl Marx, Il Capitale, libro I, sezione VII, cap. 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica», §§ 3-4)

Aver dimenticato analisi come queste (decisamente poco ‘umanistiche’) è uno dei tanti segni del tramonto della ‘sinistra’, la quale vi ha sostituito le tesi degli economisti liberisti e soprattutto vi ha sostituito gli interessi del Capitale contemporaneo, interessi dei quali i partiti di sinistra sono un elemento strutturale e un importante strumento di propaganda. Negli anni Dieci del XXI secolo l’esercito industriale di riserva si origina dalle migrazioni tragiche e irrefrenabili di masse che per lo più fuggono dalle guerre che lo stesso Capitale -attraverso i governi degli USA e dell’Unione Europea- scatena in Africa e nel Vicino Oriente. Una delle ragioni di queste guerre -oltre che, naturalmente, i profitti dell’industria bellica e delle banche a essa collegate- è probabilmente la creazione di tale riserva di manodopera disperata, la cui presenza ha l’inevitabile (marxiano) effetto di abbassare drasticamente i salari, di squalificare la forza lavoro, di distruggere la solidarietà operaia. È anche così che si spiega il sostegno di ciò che rimane della classe operaia europea a partiti e formazioni contrarie alla politica delle porte aperte a tutti. Non si spiega certo con criteri morali o soltanto politici. La struttura dei fatti sociali è, ancora una volta marxianamente, economica.
Tutto questo si chiama anche globalizzazione. Il sostegno alla globalizzazione o invece il rifiuto delle sue dinamiche è oggi ciò che davvero distingue le teorie e le pratiche politiche, non certo  le obsolete categorie di destra e sinistra. È quanto ha compreso anche il filosofo Michel Onfray, che per questo è stato attaccato in modo tanto violento quanto sciocco dal primo ministro francese Manuel Valls. Davvero, come scrive Alain de Benoist, bisogna essere consapevoli «dell’incapacità dell’immensa maggioranza degli uomini politici di comprendere qualsiasi cosa che abbia attinenza con il dibattito delle idee. […] Non sono i lettori a interessargli, ma gli elettori» (Diorama letterario, n. 323, p. 9).
Si tratta della stessa classe dirigente che in Francia come in Italia va distruggendo la scuola e l’università con ogni nuova legge che emana. L’apprendimento a scuola di una cultura scientifica, filologica, filosofica che non sia banale e superficiale è infatti giudicato ‘discriminatorio’ verso coloro che non riescono o non vogliono imparare. Onfray afferma giustamente che in questo modo «la scuola di oggi uccide sul posto i figli di poveri e seleziona i figli della classi favorite che fanno fruttare nella vita attiva non quel che hanno appreso a scuola ma quel che hanno appreso a casa» (Ivi, p. 11).
Si tratta della stessa classe dirigente europea che sta facendo di tutto per far fallire il progetto di Syriza in Grecia, giudicandolo ‘irrealistico’. «Ma nei fatti l’irrealismo sta piuttosto dalla parte dei giornalisti liberali e dei cronisti stipendiati, i quali assicurano che un debito che è impossibile pagare dev’essere pagato comunque, che la sovranità popolare dev’esser considerata nulla e che è legittimo portare a compimento lo squartamento del popolo greco» (De Benoist, p. 15).
Si tratta della stessa classe dirigente che -cancellando la Libia di Gheddafi e sovvenzionando il terrorismo contro il governo siriano- ha creato il Califfato e l’ISIS; una classe che «pretende di battersi contro un nemico senza voler riconoscere che si tratta di un Golem da lei stessa generato. Il dottor Frankenstein non può lottare contro la sua creatura perché è la sua creatura» (Id., p. 17).

Il generale francese Vincent Desportes ha dichiarato apertamente (lo scorso 17 dicembre) che «lo Stato islamico è stato creato dagli Stati Uniti» (Ivi, p. 16). E così si spiegano sia i finti ‘respingimenti’ stabiliti dai governi sottomessi alla grande industria -la quale ha invece tutto l’interesse ad accogliere l’esercito industriale di riserva costituito dai migranti africani e asiatici- sia la miope accoglienza indiscriminata mediante la quale la sinistra non più marxiana ha sostituito la lotta di classe con l’adesione all’universalismo globalista.
Il risultato di tali dinamiche non ha nulla a che fare con forme di libertà e di giustizia tra i popoli ma rappresenta sostanzialmente «l’incubo di una Cosmopoli di atomi indistinti. Un ben triste scenario» (M.Tarchi, p. 3).

La nuova Università

renzi_lavagnaHo ricevuto un documento, che non è ancora stato reso pubblico, nel quale vengono enunciati alcuni dei criteri meritocratici che andranno, con gradualità, a sostituire quelli attuali; criteri in base ai quali saranno assunti i nuovi docenti universitari e quelli già in ruolo otterranno aumenti di stipendio e avanzamenti di carriera. Il quotidiano Sicilia Journal ha ospitato ieri un mio articolo in merito: Verso nuove vette della conoscenza. La nuova università meritocratica

La trasparenza totalitaria

Lo scorso 14 maggio 2015 alla Scuola Superiore di Catania si è svolto un incontro molto interessante con la Prof. Valeria Pinto (Università Federico II di Napoli), dedicato al tema della Valutazione. Pinto ha iniziato col dire che mentre preparava l’intervento -dal titolo programmato La bêtise: valutazione e governo della conoscenza– le è sembrato necessario fare un passo indietro e concentrarsi sul nesso valutazione/trasparenza. Tema cui, dopo il libro del 2012 Valutare e punire, ha dedicato uno dei suoi saggi più recenti e più profondi: Trasparenza. Una tirannia della luce, pubblicato nel volume collettaneo Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti (a cura di F. Zappino, L.Coccoli e M. Tabacchini, Mimesis 2014). Ha quindi proposto come titolo più adeguato La moneta della conoscenza. Trasparenza e valutazione nella Entrepreneuerial University.
Ho cercato di riassumere per il Bollettino d’Ateneo dell’Università di Catania le linee fondamentali di un intervento che non ha voluto soffermarsi sugli aspetti semplicemente tecnologici della valutazione ma si è incentrato sulla sua sostanza concettuale e politica. L’articolo è stato pubblicato sul numero del 19.5.2015.

Ignoranza e sottomissione

Il CUdA è la struttura di coordinamento dei docenti dell’Ateneo di Catania. Tra i suoi strumenti vi è una lista di discussione piuttosto vivace. Lo scorso 3 aprile il collega Attilio Scuderi vi ha pubblicato la seguente lettera:

«Care e cari,
cito da Repubblica.it

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Ed è sull’università che il ministro [Giannini] annuncia la novità: «Toglieremo l’università dal regime contrattuale della funzione pubblica e costruiremo un contratto proprio. L’università e la ricerca hanno regole specifiche e obiettivi specifici che non sono esattamente quelli del pubblico impiego. Riuscire ad arrivare a un obiettivo del genere sarebbe veramente un grande traguardo”. E si deve avviare una riflessione sul ringiovanimento degli atenei e il reclutamento accademico. “Questo sarà un anno costituente per l’università, come è stato per la scuola. Ricordo che abbiamo liberato garantito 1200 nuovi posti da ricercatore nel biennio, ma ci vuole uno sforzo in più. Sui precari dell’università si deve fare una riflessione più economica, perché sono numeri diversi rispetto alla scuola, ma anche più lungimirante per quanto riguarda la comparazione necessaria con il contesto internazionale. Chi fa ricerca non la fa in Italia, la fa in uno spazio europeo destinato a essere sempre più omogeneo e interscambiabile».
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Lascio valutare a voi cosa questo significhi o possa significare; e quanto possa essere significativa, di contro, la cifra di 1200 rtd [Ricercatori a tempo determinato] a fronte di 10.000 pensionamenti. Certo è singolare questo superamento del  ‘vecchio’ pubblico impiego verso ‘nuove forme contrattuali’…»

Questa è stata la mia risposta:
«Caro Attilio,
è evidente che si tratta di un altro passo -forse definitivo- verso la realizzazione di un progetto da anni tenacemente perseguito: la trasformazione dell’Università da struttura scientifico-didattica a struttura aziendale. Basta aver seguito con un po’ di costanza le attività della Confindustria negli ultimi quindici anni in questo ambito -in particolare i suoi rapporti con il Miur- per rendersene facilmente conto.
È una tendenza in atto dal cosiddetto Processo di Bologna iniziato nel 1999 e voluto con entusiasmo da Luigi Berlinguer. In tutto questo la Confindustria ha goduto del sostegno convinto degli eredi del Partito Comunista Italiano. Le ragioni di tale comportamento possono essere numerose e diverse:

  • un tipico senso di colpa che ha fatto transitare costoro dallo statalismo di marca sovietica al più sfrenato liberismo;
  • i vantaggi in termini personali (carriere, finanziamenti e altro) impliciti in una simile alleanza;
  • il seguire lo ‘spirito del tempo’;
  • l’abituale conformismo.

SpesaIstruzioneTerziariaItalyIl risultato è quello indicato dal grafico che allego (tratto da un breve articolo odierno di Roars). E soprattutto il risultato è quanto tutti noi -docenti e studenti- viviamo ogni giorno, ormai da anni. Per quanto riguarda, infine, gli ‘eredi del PCI’, essi non esistono più. Si sono distrutti da soli, affidando quello che rimaneva del loro partito a un democristiano e ai suoi legami (palesi e nascosti). È il caso, pressoché unico, di un partito che si spiaggia e muore per restituire vita alla ‘Balena Bianca’, al peggio della vecchia Democrazia Cristiana. Riposino in pace. Il dramma è che questi zombie cercano di afferrarci nel loro morire».

La conferma che il Partito Democratico è un assemblaggio di bande criminali, dedite a difendere i privilegi delle peggiori strutture sociali, sta in un fatto assai grave: dal prossimo anno infatti i corsi universitari potranno essere tenuti in piedi da docenti precari e non selezionati, i quali non potranno offrire alcuna garanzia scientifica e didattica ma che avranno il pregio di non essere assunti e di venire pagati poche migliaia di euro all’anno (sì, all’anno). Roars li chiama, giustamente, «non docenti di riferimento». E perché si è arrivati a questo? Soprattutto per garantire la sopravvivenza delle cosiddette ‘università telematiche’, dei diplomifici di infimo livello, presso i quali è possibile, in pratica, comprarsi le lauree. Mantenendo i criteri stabiliti dalla legge -numero minimo di docenti strutturati [di ruolo], numero minimo di docenti ordinari- molte di queste ‘università’ avrebbero dovuto chiudere. Ma la loro capacità di lobbying deve essere assai convincente -e con argomenti concreti- tanto da aver sconfitto persino l’Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione della ricerca che è ultrasevera nei confronti delle Università pubbliche e che però ha dovuto cedere di fronte all’influenza che le finte università esercitano sui parlamentari della maggioranza di governo, sul governo stesso e sui partiti che lo sostengono.

Giuseppe De Nicolao giustamente si chiede: «Che legittimità resta all’ANVUR, se non riesce ad imporre un livello minimo neppure alla “zona franca” delle telematiche? Se Fantoni [presidente dell’Anvur] fosse coerente con la sua intervista a Repubblica (titolo: “Lauree facili non fidatevi degli atenei web”), dovrebbe dare le dimissioni in segno di protesta nei confronti del Ministro che lo ha clamorosamente sconfessato. Altrimenti, sembra che tutta la retorica del rigore e della meritocrazia sia solo un pretesto per dismettere l’università pubblica» (Telematiche contro ANVUR: 1-0 e palla al centro, Roars, 8.4.2015).
Questa è la non-università voluta dal governo del Partito Democratico-Nuovo Centrodestra. Per un’Italia senza ricerca. Per un’Italia senza futuro. Per un’Italia sempre più ignorante. E quindi più facilmente sottomessa.

Autoritarismo

«Il governo Renzi sarà ricor­dato per l’istituzione del ‘pre­side mana­ger’, una figura di padre-padrone dotato del potere di chia­mata diretta dei docenti, ma anche di quello di con­fe­rire un aumento sti­pen­diale, dopo avere con­sul­tato gli organi del suo isti­tuto. Lì dove non è riu­scito Ber­lu­sconi e Gel­mini, con il Ddl Aprea, lì è arri­vato il governo gui­dato dal Pd che rea­lizza un vec­chio sogno ricor­rente: quello di una scuola com­piu­ta­mente azien­da­li­sta, gerar­chica e pro­dut­ti­vi­stica. Ma non basta: a questo diri­gente dotato di super-poteri verrà con­cessa la parola finale sulla for­ma­zione dei docenti che avverrà nell’istituto dove lavora» (Roberto Ciccarelli, il manifesto, 13.3.2015). Sì, è un altro dei progetti berlusconiani che il Partito Democratico va realizzando, uno dei più importanti e dalle conseguenze di lunga durata.
Per comprendere in quali forme e sino a che punto sia autoritario il progetto illustrato dal governo del PD-Nuovo Centrodestra è utile il quadro sinottico pubblicato su repubblica. Basta guardarlo per capire come i presidi posti a capo delle scuole italiane durante il regime del Partito Nazionale Fascista fossero meno potenti dei Dirigenti Scolastici voluti dal Partito Democratico e dai suoi ministri. Non sono pochi, dunque, coloro che pur avendo militato nella sinistra antiautoritaria -compresi molti militanti del ’68 e di Lotta Continua- ora sono zitti e pronti a sostenere o almeno ad accettare una scuola peggiore di quella fascista. Dov’è adesso chi chiedeva a D’Alema di ‘dire qualcosa di sinistra’? È un’intera generazione ‘di sinistra’ che trova il proprio totale fallimento in questo grave progetto di subordinazione delle scuole alla volontà e all’arbitrio di un singolo soggetto.
Ho insegnato per molti anni nei Licei e ho conosciuto numerosi presidi; se uno di essi –un preside del Liceo Beccaria di Milano– avesse avuto i poteri che ora gli vengono attribuiti, la mia presenza in quella scuola sarebbe stata impossibile; invece che portarmi in tribunale -come fece- costui mi avrebbe semplicemente licenziato. Altri casi sono illustrati in un libro del 2012 dal titolo Presidi da bocciare?Ma la realtà del mobbing, del condizionamento, del ricatto è nelle scuole assai più pervasiva di quanto tali testimonianze indichino. In un clima di questo genere non è ovviamente possibile educare davvero i ragazzi. È possibile solo trasmettere loro ipocrisia, individualismo, sfrenata competizione. Vale a dire alcuni dei valori del Partito Democratico di Renzi. L’Università -forse a causa anche della sua tradizione secolare- rimane più democratica. I direttori dei Dipartimenti (i vecchi presidi di Facoltà) vengono infatti eletti dall’intero corpo docente. Ed è quanto si dovrebbe fare anche nelle scuole. Esattamente l’opposto di «questa trasforma­zione gene­tica delle forme demo­cra­ti­che nella scuola», una degenerazione del tutto coerente con l’estremismo liberista al quale l’intera politica italiana è subordinata.
Il governo del Partito Democratico sarà ricordato anche per aver istituzionalizzato le pratiche così descritte da Dario Generali: «La loro miserabile benevolenza viene concessa non ai docenti migliori e più qualificati, che appaiono sempre troppo autonomi e pericolosi, in quanto non controllabili, ma a chi sostiene l’aspirante despota nel proprio ruolo, mostrando deferente sottomissione» («Presidi e stato di diritto», in Presidi da bocciare?,  a cura di Augusto Cavadi, Di Girolamo Editore, Trapani 2012, p. 101).

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