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Cancellare l’Università

Al collega Francesco Coniglione si devono molte approfondite analisi della politica universitaria italiana. L’editoriale pubblicato su Historia Magistra. Rivista di storia critica (numero 20-2016) rappresenta un’eccellente sintesi di quanto sta accadendo all’Università italiana e dunque al presente più avanzato e al futuro del nostro popolo.
Ne riporto qui alcuni brani, invitando a leggere l’intero articolo su Roars: Primavera o autunno dell’Università italiana?

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Nel mondo universitario e della ricerca scientifica sono in corso – ormai da più di un decennio – mutamenti strutturali che mirano a cambiarne nello spazio di qualche anno la fisionomia, in direzione di un nuovo assetto strutturale i cui lineamenti sono ancora tutti da decifrare. L’università è alle prese con vincoli sempre più oppressivi che ne dirottano tempi ed energie da un lato verso un sempre maggiore ingabbiamento della ricerca e della didattica in adempimenti amministrativi e burocratici che assai difficilmente ne miglioreranno la qualità, dall’altro verso una conflittualità con l’Agenzia di Valutazione (ANVUR) e il Ministero, che ha avuto nella campagna Stop-VQR – innescata dalla protesta per il mancato recupero del blocco degli scatti stipendiali – una sua plastica raffigurazione.
[…]
Eppure non mancano gli elementi che possono essere interpretati come una inquietante spia del futuro prossimo venturo. Non ci riferiamo tanto alle dichiarazioni di qualche anno fa del premier italiano, in cui si sosteneva che per l’Italia sarebbero bastati per la ricerca 5-6 hub “di eccellenza”, quanto a più recenti fatti e opinioni espressi da autorevoli personaggi, che indicano un futuro che si inserisce in piena continuità sulla strada dell’iniziativa promossa circa 10 anni fa dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti con la creazione dell’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) di Genova. Questo istituto, infatti, è un ente di ricerca di diritto privato, ma finanziato pubblicamente con 100 milioni di euro l’anno.
[…]
Il quadro sembra chiaro: il problema non è quello del finanziamento della ricerca e della mancata volontà ad investire. Il fatto è che questi investimenti non devono transitare dall’università, la quale – dopo decenni di campagne di stampa volte a demonizzarla per il suo (accertato) nepotismo e le sue (verificate) inefficienze – sembra essere scomparsa dall’orizzonte degli interessi dell’opinione pubblica e della classe dirigente. Ormai ritenuta un corpo morto, nella quale immettere denaro equivale a buttarlo nel forno – come si sente continuamente ripetere – essa viene abbandonata a un destino di progressivo decadimento, di centro di istruzione di serie inferiore, in cui non si fa più ricerca, ma semmai si prepara alle professioni. E a nulla valgono le argomentazioni e le prove del fatto che l’università italiana regge benissimo la concorrenza della qualità con le università di altre nazioni e che forma ricercatori in grado di competere al meglio in campo internazionale (come è stato ad abundantiam documentato nel sito ROARS).
[…]
Insomma, non solo una polarizzazione della ricerca in pochi centri identificati non si sa in base a quali criteri e insigniti della medaglia dell’“eccellenza” – con l’emarginazione delle università – ma anche l’idea di trasformare queste ultime in enti di diritto privato, con l’inevitabile conseguenza di un maggiore centralismo nella loro gestione, di una maggiore discrezionalità nella gestione di fondi e personale e quindi della fine di quella “democrazia” universitaria che sinora ne ha caratterizzato la storia. E la conseguenza che sarebbe l’ovvio corollario di queste premesse potrebbe includere la soppressione della cosiddetta “tenure”, cioè il posto fisso per i docenti universitari, a favore di contratti a tempo determinato di volta in volta rinnovabili: la fine della sicurezza del posto in favore del “libero mercato” verrebbe così a far cadere il presupposto indispensabile del libero pensiero e della autonomia, con ricercatori sempre ricattabili e quindi del tutto proni ai vertici accademici e ai loro datori di lavoro. Viene così a maturazione il disegno già prefigurato nella legge Gelmini, che oggi viene con coerenza perseguito dall’attuale governo (e qui l’etichetta di sinistra, centro-sinistra o destra, è irrilevante). È il sogno di sempre del capitalismo italiano, nel quale si è dimostrato storicamente più versato: gestire privatamente i soldi pubblici e disporre liberamente della propria forza-lavoro, grazie a una sua sempre più accentuata precarizzazione.
L’università è stata sinora un centro di residua resistenza democratica alle sempre più accentuate volontà autoritarie che, nel nome dell’efficienza, si implementano sul piano istituzionale e nel mondo del lavoro; essa non è stata ancora pienamente colonizzata dalla politica, in quanto il tanto vituperato “potere baronale” ha cercato di difendere la propria autonomia e si è mosso con logiche trasversali rispetto a quelle dell’appartenenza partitica. Con le prospettive che per essa si vanno disegnando, l’università – così come è avvenuto per le strutture sanitarie – diventerà quel luogo di vassalli e valvassori, assoggettati al potere politico, paventato dalla senatrice Cattaneo. E gli atenei non saranno più il luogo in cui si farà ricerca “curiosity driven”, per amore della cultura, portando avanti il lavoro fondamentale senza il quale non sarebbe possibile alcuna ricaduta applicativa e imprenditoriale. E non parliamo dell’evidente destino cui sono destinate tutte le discipline di carattere umanistico, ritenute “inutili” e incapaci di “stare sul mercato”.
In queste condizioni, l’università non va incontro a quella “primavera” lanciata flebilmente dalla CRUI in risposta alla protesta contro la VQR, ma a un lento autunno. Verrà, dopo, l’inverno di una cultura asservita ai due padroni che oggi si spartiscono la ricchezza: il “mercato” che succhia il denaro dalle tasche dei cittadini, la politica che saccheggia indisturbata la ricchezza sociale e che non vede l’ora di mettere le mani sull’università senza i “lacciuoli” del diritto amministrativo.

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L’analisi di Coniglione è pienamente confermata dalla recente dichiarazione del  ministro per lo Sviluppo Economico Carlo Calenda, il quale ha annunciato che il governo finanzierà solo 4 o 5 università d’eccellenza e che non rispetterà più il criterio geografico: «Noi non ci possiamo permettere di dire che finanziamo tutti con bandi aperti, qualunque università, qualunque cosa faccia eccetera… dobbiamo scegliere 4 o 5 università di eccellenza sul tema della manifattura innovativa, dargli i soldi, costruire un meccanismo per il quale queste 4-5 università e solo queste 4-5 università costruiscono competence center dove le aziende possono lavorare insieme, e chi vuole entrare in questo gruppo, beh, scali i ranking e ci entra dentro, ma non è che riceve denaro semplicemente per la distribuzione geografica degli atenei».
L’intenzione è quindi cancellare l’università, in particolare in quelle zone -come il meridione d’Italia- che più hanno bisogno di una istituzione scientifica e didattica che dia possibilità di formazione e di crescita. È il trionfo dell’ignoranza e dell’ingiustizia.

Paranoie

Dopo Il gioco al massacro riporto qui un nuovo documento del Coordinamento unico di docenti, ricercatori, pta e studenti dell’Ateneo di Catania per un’Università pubblica, libera e democratica.
Spero che questa accurata ricostruzione degli eventi serva a comprendere meglio che cosa sta accadendo a Catania.

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Il caos della paura e la forza del buon senso

L’Ateneo di Catania è nuovamente sotto i riflettori.
Qualcuno sembra terrorizzato dal fatto che l’attuale Rettore giunga all’esito naturale del suo mandato, ovvero il 2019. Per questo qualcuno il 2019 è troppo lontano, soprattutto troppo pericoloso, troppo fuori controllo.
Per comprendere che cosa stia accadendo sarà necessario vedere con pazienza – e per un attimo “da fuori” – dentro quale narrazione ci troviamo catapultati; e come questa narrazione, passo dopo passo, sia stata volutamente costruita nel corso degli ultimi due anni.

L’invenzione del caos

Alcuni “Organi di stampa” – in particolare uno, la testata online SUDPRESS – portano avanti da tempo e in modo martellante e ossessivo una tesi, di continuo gridata e urlata (spesso si urla e grida se si ha paura di ciò che le urla e le grida nascondono); e questa tesi – elemento importante se non fondamentale – ha una esatta data d’inizio, che corrisponde al manifestarsi del contrasto tra il dr. Lucio Maggio, allora Direttore Generale nominato dalla precedente gestione, e l’Amministrazione attuale.
In realtà, il conflitto non è né è mai stato tra il  Rettore Pignataro e il Direttore generale dott. Maggio; il contrasto è sorto invece e in modo chiaro tra l’Amministrazione con i suoi Organi rappresentativi da un lato (in primis il Consiglio di Amministrazione, salvo alcuni dei consiglieri nominati dal precedente rettore, e poi il Senato Accademico), e l’ex Direttore Generale dall’altro. L’Amministrazione, sostenuta dalla quasi totalità dei direttori di dipartimento, dei docenti, del personale tecnico-amministrativo e delle associazioni sindacali, ha ritenuto che la gestione del Maggio sia stata illegittima su alcuni specifici e significativi passaggi amministrativi (la proroga autonoma e non concordata di alcune figure dirigenziali a tempo determinato e la decisione non rispettosa del regolamento su alcuni appalti di consistente importo, tra tutte); e soprattutto la comunità universitaria ha ritenuto che tale gestione sia stata radicalmente improntata a  una concezione e una pratica autocratiche, come tale inidonee a una conduzione equilibrata del ruolo che la legge assegna al DG. Questa tesi è una persecuzione ad hominem, o è piuttosto corroborata da elementi fondati e che i lavoratori e le lavoratrici dell’Ateneo hanno sperimentato quotidianamente? Questa seconda ipotesi è facilmente dimostrabile. Nel periodo della sua gestione, infatti, il dr. Maggio compie un processo di accentramento amministrativo che rende ardua se non impossibile la fisiologica dinamica tra dipartimenti e uffici centrali, per missioni non marginali ma fondamentali come il coordinamento di didattica e ricerca (l’ateneo in quegli anni scivola, tra l’altro, agli ultimi posti nelle performance della didattica a livello nazionale); si spinge addirittura (durante la breve fase del suo reintegro, dal 1/12/2014 al 22/1/2015) a emanare direttive che inibiscono i dirigenti e i funzionari dal parlare con gli organi di governo e i direttori di dipartimento senza una previa “autorizzazione” del DG stesso. Il DG teorizza la superiorità della funzione, certo importante ma amministrativa ed esecutiva, che la legge gli assegna, rispetto al ruolo degli organi d’indirizzo democraticamente eletti  o nominati; sostanziali effetti di paralisi della gestione amministrativa stessa);  ed è curioso, a dir poco, che egli non “scopra” tale sua centralità gestionale-politica, questa sua missione di centro focale dell’universo accademico, all’inizio della sua funzione (prima di Direttore Amministrativo e poi di Direttore Generale sotto l’amministrazione Recca): ma che tale illuminazione lo colga solo all’indomani dell’elezione del candidato che Recca stesso aveva combattuto fino all’ultimo, pur non potendone impedire l’elezione quasi plebiscitaria, ovvero Pignataro… Strano, vero?
Questo quadro, certo conflittuale ma anche “fisiologico” nella vita della Pubblica Amministrazione, viene sistematicamente deformato dal suddetto “organo di stampa”.
Il mandato è: drammatizzare e personalizzare. E soprattutto dipingere la vita dell’Ateneo – complessa e difficile, come quella di tutti gli atenei italiani in età di crisi e tagli strutturali – come un girone infernale di interessi e clientele. Il che forse è stato vero un tempo (a volte si proietta il passato sul presente), ma oggi di certo non è più.
Chi può accusare di irregolarità penalmente rilevanti chicchessia senza prove inoppugnabili? Nessuno che sia corretto con se stesso e con gli altri. Se il dr. Maggio lo fa, noi non lo seguiremo. Gli ricordiamo però un unico passaggio della sua vita professionale di dirigente, semplicemente, tra i moltissimi possibili, che dovrebbe spingerlo a maggior cautela e più serena capacità di contenimento: infatti, in occasione del tristissimo scandalo del Mailgate per il quale il prof. Recca è inquisito e per il quale l’Ateneo si è costituito parte civile, almeno un’intercettazione ambientale lo vede al tavolo col past rettore e un funzionario, mentre il primo indica le azioni necessarie e utili ad addossare a taluni le responsabilità, condivise, di quell’evento nefasto. Questo è del tutto inoppugnabile, ahinoi. Non sappiamo se qualche magistrato chiederà mai al dr. Maggio di rispondere di tale evidenza; ma l’evidenza resta. Sorvoliamo su altri passaggi, dunque, e continuiamo la nostra narrazione.
Non prima però di esserci posti una domanda, che sorge spontanea: perché mai un organo di stampa, che si definisce di giornalismo d’inchiesta,  dovrebbe sposare con tale perseveranza e violenza la tesi di una parte in un conflitto tutto sommato marginale? Perché SUDPRESS diventa il megafono della difesa del dr. Maggio? A questa domanda non troviamo risposta. Ma il dato è anch’esso difficilmente oppugnabile.

La paranoia penale 

La “strategia di pressione” del dr. Maggio – di cui ci sfugge la logica etica e istituzionale – non è tanto, francamente, importante in sé. Essa diviene piuttosto importante in quanto parte di una strategia ancor più complessiva di pressione sull’ateneo e  sul Rettore, attraverso una vera e propria forma di bombardamento mediatico. Questa strategia è viziata da una nemmeno tanto sotterranea paranoia penale e inquisitoriale. Chi vive una tale paranoia, chi concepisce un tale rapporto con il suo luogo di lavoro e i suoi colleghi, tradisce una realtà nemmeno troppo difficile da capire: egli nutre tremendi dubbi non sull’incolumità degli altri (su cui vorrebbe scatenare folgori e pestilenze e  distruzioni), ma su di sé, sulla sua sicurezza, sulla sua stessa incolumità. Ognuno ha i suoi fantasmi, ha anche diritto di averli e coltivarli; ma nessuno è titolato a trasferirli sugli altri né, soprattutto, sulle istituzioni che operano per il bene comune.
Questa “strategia” è dunque dettata dalla paura patologica di chi la ordisce e persegue. E ciò è psicologicamente semplice da capire quanto eticamente triste e difficile da accettare.
Il medesimo schema narrativo viene oggi utilizzato per la vicenda dello Statuto. Lo stesso Rettore che ha creato il vulnus istituzionale dello Statuto illegittimo per il MIUR (nel 2011) usa la vicenda per tentare la vendetta giudiziaria nei confronti del suo avversario.
Il copione è il medesimo. Recca si fa passare quale paladino della legalità, esempio positivo e difensore della legittimità costituzionale (dopo aver fatto quello che ha fatto).
Il Rettore Pignataro viene additato come già decaduto (con grave ma consueta confusione tra desideri e realtà) e come esempio negativo di renitenza all’applicazione di sentenze esecutive e inoppugnabili (anche quando non lo sono).
Infine, la natura del conflitto giudiziario viene drammatizzata e personalizzata in modo infantile. Infatti, la vicenda del contenzioso sullo Statuto non è un conflitto, come caricaturalmente rappresentato, tra un singolo rettore e il Consiglio di Giustizia Amministrativa; la natura vera di quel conflitto è altra, del tutto, ed è quella di un conflitto tra MIUR e CGA sull’applicazione e sugli esiti della Legge 240, generato come polpetta avvelenata dalla passata gestione di Recca, e utilizzato dall’entourage recchiano per ottenere un capovolgimento giudiziario dell’elzione democratica di questa amministrazione (torneremo su questo punto).
C’è un ultimo aspetto. Il dr. Maggio, con grande tempismo, fa sfornare al suo esercito di avvocati (si vede che ha i mezzi per sostenerne le spese), quasi ogni settimana ormai, minacce di denunce o denunce penali vere e proprie contro il Rettore Pignataro. E – fatto davvero inconsueto! – sono gli stessi avvocati a produrre e divulgare dei comunicati stampa. La prima di queste, con una memoria di 1200 pagine (!!!), invero archiviata – supponiamo nel ludibrio degli organi inquirenti – accusa il Pignataro addirittura di “maltrattamenti familiari”; e ancora querele per diffamazione, denunce per danno psicologico, mobbing, inadempienza alle sentenze… manca solo una denuncia per terrorismo internazionale (ma confidiamo che sia in preparazione).
Perché tutta questa enfasi sulle denunce penali?
Vediamo due obiettivi, oggettivamente comprensibili (da un certo punto di vista): il primo è  tenere alta la pressione mediatica tentando di convincere l’opinione pubblica locale (molto distratta, ahinoi, anche nelle sue testate giornalistiche più “titolate”) che la quantità sia qualità. Convincere anzi della qualità attraverso la quantità. Ma avere il bancone pieno di merce è inutile, se la merce è falsa. Siamo ormai consumatori accaniti e smagati, un po’ tutti…
Un secondo obiettivo è però più sottile: ovvero quello di ottenere una qualche forma di inibizione penale in caso di nuove elezioni del rettore (auspicate da qualcuno che fa male i conti, ma di molto). Questo secondo obiettivo ci pare ben lontano dal raggiungersi, ma, se questa seconda ipotesi fosse vera, sarebbe una semplice mascalzonata, che nessun docente dell’ateneo è disposto a sopportare e di cui ogni cittadino avvertito del nostro territorio dovrebbe essere cosciente.

 Ognuno risponde delle sue azioni

Immaginate di essere un genitore la cui figlia o il cui figlio sta per compiere la scelta della vita: l’iscrizione ad un corso universitario, il bivio del proprio futuro lavorativo ed esistenziale. Immaginate che la giovane o il giovane si vogliano iscrivere all’Università di Catania. Come potrà farlo, con serenità, dinanzi ad una rappresentazione mediatica che espone l’Ateneo alla gogna quotidiana? “Tutti contro tutti”, “Muro contro muro”, “Organi azzerati”, “Caos all’Università di Catania”…
Chi guadagna (pochissimi) e chi perde (tutti noi) da questa rappresentazione apocalittica del caos viziata da una paranoia e da una paura “penali” profonde?
Il danno è oggettivo. Crediamo sia venuto il momento di chiedere conto di questo danno, come degli altri che si sono verificati in passato. Il tempo del silenzio è finito. Per questo riteniamo si tratti di valutare l’opportunità di controdenunce e di azioni penali collettive volte a tutelare la vita e l’immagine del nostro Ateneo; che è il nostro luogo di lavoro e la nostra missione sociale.
Quando il prof. Recca era Rettore, noi del CUDA lo abbiamo contrastato apertamente. Abbiamo denunciato le sue scelte e criticato gli atti della sua amministrazione: le linee guida per i provvedimenti disciplinari; i provvedimenti disciplinari stessi; la politica delle lauree honoris causa; la scelta di fare il rettore e insieme il presidente regionale del partito di Cuffaro, con un conflitto di interessi inopportuno  ed essendo dunque politicamente vicino all’allora Presidente della Regione Sicilia nel periodo in cui maturavano gli esiti che avrebbero condotto alla condanna di questi per concorso esterno in associazione mafiosa; lo scandalo Mailgate, gravissimo; le scelte sul mancato pagamento dei ricercatori per la didattica frontale; e potremmo continuare…
Abbiamo criticato e contrastato Recca. Ma l’abbiamo contrastato A VISO APERTO; candidandoci nelle elezioni degli organi, venendo isolati e additati, fregandocene dei servi , dei pavidi e degli opportunisti (che allora fiorivano) della prima e della seconda ora, ma continuando a metterci la faccia, senza spostare mai la contesa dal piano politico a quello giudiziario, salvo denunciare e motivare pubblicamente quello che non ci convinceva se non ci convinceva.
Abbiamo condotto una battaglia politica.
Chi sposta immotivatamente e sistematicamente il confronto sulle scelte amministrative sul piano del complotto o della vendetta giudiziaria si pone di fatto fuori dal sistema fisiologico di funzionamento di una comunità. E, soprattutto, mostra debolezza e paura.
Ci chiediamo allora: paura di cosa? Cosa si teme?
Che qualcosa del passato venga alla luce? Che scelte, procedure di appalto, sistemi di controllo magari pressati da interessi privati passino al vaglio degli organi competenti? Accadrà, quando accadrà, inevitabilmente. Se ne faccia ciascuno una ragione. Noi continuiamo a pensare alla vita dell’università; la magistratura penserà al resto, vogliamo credere e confidiamo, con imparzialità e rigore.
La risposta della comunità universitaria catanese di fronte alla “crisi” di questi giorni è stata ed è compatta: si vedano i documenti, le prese di posizione di tutti i direttori (meno uno…), di varie sigle sindacali.
Crediamo però che – per il futuro del nostro ateneo – si debba ragionare ancor più a fondo di come si è fatto finora sugli effetti della passata gestione, su ciò che è accaduto e su come è accaduto, senza mettere la testa sotto la sabbia, senza tacere la realtà delle paure e delle pavidità colpevoli, perché il presente è figlio del passato; e riteniamo che si debbano ampliare gli spazi di riflessione, dibattito e dialogo aperto e franco sull’università e sui suoi problemi, locali e nazionali. Solo così si potrà con ancora più forza non solo difendere un presente, ma rilanciare la nostra università e costruire un futuro di fisiologico confronto e di reciproco rispetto, senza padrini né padroni, in una comunità di ricercatori liberi, responsabili della loro funzione in questo contesto che di libertà e cultura ha bisogno vitale; e consapevoli della possibilità unica, loro offerta, di promuovere benessere morale e materiale delle nuove generazioni.
Dire tutto questo, oggi, senza paura, senza ipocrisia, è già investire su un futuro migliore. Ne abbiamo bisogno, anzi dobbiamo farlo.

IL CUDA

Il gioco al massacro

Nel febbraio del 2013 l’Università di Catania elesse un nuovo Rettore -Giacomo Pignataro- con una percentuale di voti che non lasciava dubbi sulla volontà del corpo accademico di segnare una discontinuità con la precedente amministrazione. La quale però non si è rassegnata a tale risultato e ha operato in molti modi per capovolgerlo. L’episodio più recente è raccontato nel documento del CUDA che riporto per intero, condividendone i contenuti e le intenzioni. È bene che soprattutto gli studenti sappiano come si intende paralizzare la vita della loro Università, con grave danno per tutti.

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Questa storia narra di un ateneo presso il quale la parola legalità faticava a far rima con realtà, giustizia e legittimità.
C’era un rettore che aveva dato corso a una legge solo nelle parti in cui gli piaceva. Questa legge gli imponeva di adottare uno statuto raccordandosi con altri attori istituzionali (il MINISTERO). Ma lui niente: lo statuto è mio e me lo faccio come voglio io; anzi, lo approvo “a prescindere”. E se qualcuno si lamenta, vada a raccontarlo ai giudici. Io me ne infischio; anzi, me ne frego.
Nel 2011, questo rettore manda tanti saluti al Ministero e fa approvare uno statuto “fai da te”.
In quegli stessi anni, questo rettore che non amava tanto essere disturbato, e che si segnala anche per il conferimento di laurea honoris causa a un signore – un uomo d’onore, direbbe Shakespeare – che l’ha, ci dicono, successivamente riposta nel poco spazio lasciato libero dagli incartamenti di tutte le pendenze giudiziarie che lo riguardano, questo rettore, amante delle regole, amante del confronto pacato con tutti, si segnala per aver promosso un’azione disciplinare contro un preside, uno tra i pochi docenti del Suo ateneo a farlo in verità, che osa biasimare, ah ingeneroso!, la sua gestione amministrativa.
In quegli stessi anni, il medesimo rettore, uso a discutere ragionevolmente con quanti non riescono a vedere i sacrifici che fa ogni giorno per mandare avanti la baracca, pensa bene di lanciare in politica la moglie di un suo sottoposto. Ma nel farlo si affida, poveruomo, alla collaborazione di maldestri esecutori che gli combinano un guaio con risvolti penali.
Sempre negli stessi anni lo stesso rettore si segnala, nella sua azione politica indefessa, per un esilarante doppio incarico che evidenzia l’ateneo come indiscussa anomalia nel panorama nazionale: presidente regionale dell’UDC – partito dell’allora presidente della Regione Cuffaro Totò – e immarcescibile rettore…
Ora, diciamo noi, ma è possibile che un tale lavoratore indefesso debba anche tollerare che i soliti sfascisti, gufi e rosiconi facciano commenti su tutte le cose buone che fa. Per di più disprezzandole, non cogliendone la bellezza, la purezza, il disinteresse. Ma la libertà di pensiero può mai divenire libertà di scassare i cabbasisi a un santo? No, e infatti arrivano le linee guida comportamentali in caso di azioni disciplinari, incostituzionali e illiberali, tanto da scatenare una polemica nazionale.
Le vite dei santi, genere letterario importantissimo, ispirano una sequela della santità, fanno proseliti. Oggi ci pare che questo esempio di difensore delle regole abbia giuridicamente ispirato una collega, già componente del Cda, che si è accorta che c’era del marcio a Catania.
Menomale. Menomale che ha caricato la sveglia, dato fiato alle trombe, fatto suonare le campane.
C’è un giudice a Berlino, anzi a Palermo, e finalmente c’è, dopo una parentesi di oscurantismo e notte e nebbia, un po’ di luce anche a Catania (dove nel frattempo ricorso-fotocopia è stato presentato, proprio dal già rettore, con perfetto tempismo e pervicace attivismo giudiziario…).

A conclusione di questa doverosa, lunga e ricca (ma di povertà) premessa storica – perché la tendenza a dimenticare è una tentazione diffusa nel nostro Paese e dalle nostre cuffariane parti in ispecie – ecco il punto. Proprio da parte di chi ha creato un vulnus grave e dunque una condizione di potenziale ingovernabilità e stallo istituzionale (con l’approvazione dello Statuto “a prescindere”) viene oggi agitato quel vulnus, per dire che l’attuale amministrazione è illegittima, non ha titolo, e che un rettore votato da  oltre l’80% dell’ateneo è abusivo. Addirittura, in un’ultimissima esternazione a mezzo stampa, avente per oggetto niente di meno che “elezioni del nuovo rettore”, il prof. Recca, in abborracciato blasone istituzionale, dichiara “grande soddisfazione” per la sentenza del CGA che a suo dire azzererebbe tutte le cariche dell’ateneo (Rettore compreso) e si lancia come suo solito in accuse incontrollate e ardite nei confronti dell’attuale Rettore (mentre allestisce già gazebi elettorali agostani e lancia prevedibili candidature civetta). Scorda, il Recca (o finge di scordare e ignorare), che la stessa sentenza del CGA da lui osannata lo censura gravemente, ribadendo testualmente (come già la sentenza di primo grado) che “male ha fatto il rettore Recca” (si veda p. 12, rigo  7 e seguenti della stessa) ad avviare un contenzioso così pernicioso per l’Ateneo approvando lo Statuto in conflitto con MIUR e TAR.
Ma oggi il prof. Recca – con ennesima e metamorfica giravolta –  si erge a paladino della “legalità”! Fantastico! Abbiamo avuto notizia che alcuni colleghi, appena ricevuta la sua esternazione, l’hanno prontamente stampata e incorniciata, ponendola in bella mostra tra una foto di Totò e una di Dario Argento…
E dunque, e veniamo al punto, c’è da chiedersi: perché tale accanimento nei confronti della presente amministrazione? Un’amministrazione che noi abbiamo sostenuto ma con franchezza e libertà criticato su alcuni aspetti, anche rilevanti, della sua azione (tra questi la composizione troppo gerarchica e poco rappresentativa del SA [Senato Accademico] nel nuovo Statuto, o la posizione contraria assunta nella protesta sullo Stop VQR [Valutazione Qualità della Ricerca]); ma un’amministrazione che – non dimentichiamolo – ripristinando forme fisiologiche di confronto e dibattito (prima inimmaginabili), ha ereditato e affrontato, con importanti risultati, una crisi fortissima del nostro ateneo nella didattica e nella ricerca (nel settennio precedente altre erano le priorità), che ha  ripristinato modalità trasparenti di gestione degli appalti, che si è costituita parte civile nell’avvilente affaire del mailgate, che ha affrontato situazioni gravi e complesse – segnalandole  a tutti gli organi competenti – come la lievitazione esorbitante dei costi della Torre biologica e del contratto Global Service stipulato in precedenza dall’ateneo (solo per citare alcune delle azioni “sensibili” di questa amministrazione)?
Siamo in presenza di un gioco al massacro? Ovvero di un gioco in cui chi non ha nulla più da guadagnare nell’attuale situazione, ma tutto da perdere nel perdurare di azioni di trasparenza amministrativa, gioca il tutto per tutto, il “la va o la spacca”, il “muoia Sansone con tutti i Filistei”?
Calma, calma, con le illazioni. Diciamo calma a tutte le colleghe e i colleghi (circa un migliaio) che si stanno ponendo questa esatta domanda in queste settimane e in questi giorni.
E in attesa che si stabilizzi il contenuto – invero non chiaro e talora sibillino – della recente sentenza del CGA (si chiede il rinnovo degli organi statutari escluso o compreso il rettore? La prima ipotesi sembrerebbe ben più probabile a rigor di legge e di logica…), ci pare di potere dire una cosa, con serenità.
A chi ha ispirato, sostenuto, incoraggiato, promosso le recenti azioni giudiziarie vorremmo dire che noi non abbiamo MAI avuto paura delle regole né di chi le applica in un determinato momento. Se non ci piacciono le rispettiamo, ma cerchiamo di cambiarle e anche di cambiare chi le fa e le applica (se democraticamente eletto).
Il passato non ritorna mai uguale a prima e noi siamo ancora qui.
Pensiamo, dunque, che il  nostro ateneo non possa più di tanto stare al palo a farsi indebolire da interessi obliqui e giochi al massacro. Se l’incertezza dovesse perdurare, in assenza di un’interpretazione autentica della sentenza, aggravata anche da un gioco di rimpalli giuridici e di  indignazioni tanto strillate quanto interessate, c’è – in extrema ratio – un modo semplice per risolvere la questione. Tornare  a votare. E se (in questo ipotetico scenario) il Rettore Pignataro vorrà ricandidarsi e presenterà un programma condivisibile, lo sosterremo convintamente come abbiamo fatto la volta passata, per dare sia serenità e continuità alla gestione amministrativa quanto per migliorarla e rafforzarla dove possibile e necessario: ciò che riteniamo sia nell’intendimento della stragrande maggioranza dell’ateneo, docenti, personale amministrativo e studenti. Perché – come ricorda Machiavelli nei suoi Discorsi – “la malignità non è doma dal tempo né da alcuno dono”. Ma la volontà collettiva, serena e vigile, può sanare e correggere storture che il tempo lascia in eredità. Ma non per sempre.

CUDA (Coordinamento unico di docenti, ricercatori, pta e studenti dell’Ateneo di Catania per un’Università pubblica, libera e democratica)

Una catastrofe didattica

Qualche giorno fa ho svolto gli esami di una delle materie che insegno. Riepilogo qui i risultati.
Studenti esaminati: 21
Non approvato (è il modo burocratico di definire una bocciatura): 10
Voto 18: 5
Voto 20: 1
Voto 22: 2
Voto 23: 1
Voto 24: 1
Voto 26: 1
Come si vede, una catastrofe didattica. Non è la prima volta, anche se devo aggiungere che in altre mie discipline i risultati sono migliori. E tuttavia l’esito avrebbe potuto essere anche peggiore se non fossi stato un po’ accondiscendente e mi fossi attenuto con rigore al livello scientifico che un esame universitario sempre richiede.
Le spiegazioni di una simile situazione possono essere numerose: il docente è una carogna (tendo per ovvie ragioni a escludere tale risposta); gli studenti tentano la fortuna (lo si fa più spesso di quanto si pensi e con esito anche positivo); i contenuti sono troppo difficili (ma siamo all’Università, vale a dire al livello più alto della formazione); le conoscenze di base sono scarse (credo che questa sia una delle spiegazioni più sensate, visto il livello medio di preparazione con il quale gli studenti escono dalle scuole, nonostante l’impegno totale e la serietà professionale di moltissimi insegnanti, impegno e serietà che ben conosco per la mia lunga esperienza nei licei); le persone hanno dei limiti naturali, come ha osservato in maniera assai franca Arthur Schopenhauer: «Il nostro valore intellettuale, come quello morale, non ci giunge quindi dall’esterno, ma sgorga dalla profondità del nostro proprio essere e nessuna arte educativa pestalozziana può fare di un babbeo nato un uomo pensante» (Parerga e Paralipomena, tomo I, trad. di G. Colli, Adelphi 1981, p. 647) (una tesi che rappresenta l’opposto dell’onnipotenza educativa sostenuta dai comportamentisti e più di quella mi sembra corrispondere alla realtà); viviamo in un contesto sociale che tende a illudere le persone, producendo così molti danni individuali e collettivi (grave è che su tali temi si pensi spesso al ‘trauma’ che un soggetto può subire per il fallimento delle proprie aspirazioni personali, senza porre attenzione al trauma sociale prodotto da competenze attestate ma non possedute: vi affidereste a un medico che ha ottenuto la laurea ‘per ragioni umanitarie’?); nel profondo si è convinti che scuola e università non servano a nulla e che quindi una laurea non la si debba negare a nessuno, neppure a chi -come mi è accaduto di sentire in questa sessione di esami- a una domanda sul periodo nel quale venne inventata la stampa a caratteri mobili ha risposto: «Nel 1965»; le strutture universitarie si adattano al principio punitivo imposto dalla Legge Gelmini (mantenuta con convinzione dall’attuale governo), la quale riduce i finanziamenti agli Atenei in relazione al numero di studenti che non riescono a completare l’iter formativo nei tempi previsti (un principio giuridico-contabile tanto insensato quanto micidiale).
Scuola e Università non sono soltanto luoghi di scienza ma anche efficaci strumenti di ascesa sociale. A condizione però che diplomi e lauree non perdano di valore e di senso. Gramsci lo sapeva bene:

Il ragazzo che si arrabatta coi barbara, baralipton si affatica, certo, e bisogna cercare che egli debba fare la fatica indispensabile e non più, ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare a costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè sottostare a un tirocinio psico-fisico. Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso. […] La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare “facilitazioni”. Molti pensano addirittura che le difficoltà siano artificiose, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale.
(Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi 1949, pp. 116-117).

Le difficoltà sono reali, invece. Studiare, apprendere, capire il mondo è qualcosa di splendido e come tutto ciò che vale richiede tenacia e fatica. Illudere dei ventenni che la frequenza di Corsi Zero o analoghi strumenti didattici possa sostituirsi alla loro intelligenza e al loro impegno, illuderli con il rendere tutto facile o persino regalando materie e voti, significa mancare loro di rispetto, significa ingannarli.
La ragione forse ultima e più profonda di questa e di altre catastrofi didattiche sta nel fatto che governi, media, pedagogisti sono attivamente impegnati -ciascuno per la sua parte- a favorire la costruzione di un Corpo sociale incompetente, ignorante, passivo. E dunque più facilmente manipolabile. Non lo accetterò mai.

Modernità

La natura reazionaria e socialmente criminale del Partito Democratico è ormai confermata da una miriade di parole e azioni. Tra queste spiccano per la loro intelligenza le affermazioni della ministra Boschi a proposito della sua riforma costituzionale -nelle quali ha preso per fascisti anche i partigiani– e quelle della ministra Giannini sulla bellezza e modernità insita nell’essere precari.

«Dobbiamo abituarci all’idea di un mondo impostato su un modello economico di stampo americano, dove il precariato è la norma. Dobbiamo abituarci a vite con meno certezze immediate, fatte da persone che si spostano continuamente e dobbiamo incentivare i loro movimenti». Un concetto, questo, che la Ministra riprende da Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, che intervistato dall’Espresso ha spiegato come il modello sociale a cui si debba tendere sia quello statunitense, nel quale «bisognerebbe tassare tutto ciò che è immobile e detassare tutto ciò che è dinamico». (Fonte: Huffington Post, 4.5.2016)

A queste ridenti dichiarazioni il Prof. Andrea Miccichè -docente di Storia contemporanea presso l’Università Kore di Enna- ha risposto sulla lista del Coordinamento Unico di Ateneo di Catania. Il collega ha ricordato la modernità del nonno emigrante. Un modello, questo, al quale evidentemente si ispirano non soltanto gli ultraliberisti statunitensi ma anche il Partito e il Governo guidati da Matteo Renzi:

«Leggendo le parole del ministro ho pensato a mio nonno e alla sua modernità, perché non aveva certezze immediate e si muoveva continuamente. Stava una stagione in Venezuela, e poi tornava in Sicilia. Là faceva l’ambulante, qui il contadino, e con una plurima condizione: un po’ bracciante, un po’ piccolo(issimo) proprietario, un po’ mezzadro. Si muoveva continuamente da una parte all’altra del globo. Poi si è imborghesito, ma solo un po’,e ha limitato i suoi movimenti al continente europeo. Andava in Germania da manovale (o ‘mastro’, le fonti sono incerte, ma non doveva essere un gran ‘mastro’ evidentemente) e poi tornava giù in Sicilia  a mietere il grano, a raccogliere l’olio, a vedere i figli, perché erano sempre diversi ogni volta che li incontrava. Alternava professionalità in gran numero, però, e con gran modernità si muoveva continuamente. Come un ‘modello americano’. Magari di meno che in passato, ma continuava a essere modernissimo. Poi ha smesso di essere moderno e si è comprato un pezzo di terra e ha fatto di tutto per dare un’istruzione a suo figlio, affinché almeno lui avesse l’opportunità di vivere con meno modernità. La modernità se l’era già fatta lui per tutti, anche per i nipoti. Almeno quella era la sua speranza.
Ma malgrado tutto, malgrado i cedimenti finali, lo possiamo dire: quanta modernità americana in quella generazione di emigranti».

«Rasenta l’umiliazione»

L’Assemblea odierna dei docenti dell’Ateneo di Catania ha confermato la volontà di proseguire nella rivendicazione dei diritti calpestati dall’attuale governo e di difesa del futuro dell’Università italiana, della sua esistenza.
Sullo stesso argomento il filosofo Eugenio Mazzarella ha pubblicato sul Corriere della sera di sabato 30.1.2016 una lettera aperta al Presidente Sergio Mattarella. La ripropongo qui perché mi sembra particolarmente efficace nel descrivere le ragioni della nostra mobilitazione.

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Illustre Presidente Mattarella,
mi rivolgo a Lei su una questione dell’università italiana, che, per i motivi che Le illustrerò, rasenta l’umiliazione.
Questione che conosce, per una lettera a Lei firmata da oltre quattordicimila docenti. Prima di arrivare al punto più dolente, riepilogo la situazione. La Pubblica Amministrazione, nella crisi del Paese, ha fatto sacrifici importanti: un pressoché generale blocco del turn over e un altrettanto pressoché generale blocco degli stipendi dal 2010. In concreto si è percepito per sei anni gli stessi emolumenti. Con l’ultima Legge di stabilità questa stagione di “fermo immagine” al 2010 per il pubblico impiego si spera si avvii a chiudersi, riattivando una fisiologia della dinamica salariale che chi vive di reddito fisso sa quanto pesi.
I sacrifici fatti sono stati consolidati, con senso di responsabilità dei diretti interessati: di un quinquennio di arretrati neanche l’ombra, ma solo il riconoscimento giuridico, agli effetti economici del quinquennio di blocco, ai fini del ricalcolo retributivo. Ma non per tutti. Ne sono esclusi i professori universitari. Per loro lo sblocco salariale non comporta riconoscimento giuridico del quinquennio trascorso. I danni che ne derivano sulla prospettiva di una carriera media dei docenti sono quantizzabili sulle due voci a più di 90.000 euro netti (il calcolo è su un professore che abbia adesso 55 anni). La maggior parte dei docenti dovrà peraltro aspettare fino alla fine del 2017, quasi due anni, per l’aumento previsto, che si avrà scaglionato nel tempo: mediamente 105 euro mensili invece dei circa 365 se fosse riconosciuto giuridicamente il periodo 2011-2015; una perdita di 260 euro mensili.
Oltre al danno la beffa: nello stesso tempo gli stessi docenti devono impegnarsi in una procedura di valutazione del loro lavoro­ –per gli addetti VQR, valutazione qualità della ricerca– per un quinquennio che agli effetti giuridici ed economici non esiste! Più che uno schiaffo economico e giuridico, è uno schiaffo morale a studiosi, docenti e ricercatori, già decimati dai tagli all’università.
Ma il peggio è il motivo per cui mi sono risolto a scriverLe. Per far valere le loro ragioni, migliaia di docenti hanno scelto il rifiuto di sottoporsi alle procedure di valutazione scientifica. È sembrato essere lo strumento di pressione meno penalizzante terzi incolpevoli (studenti). Che cosa sta succedendo? Poiché ai dati della VQR è legata la ripartizione delle risorse agli atenei, e quindi il budget per assunzioni e progressione delle carriere, si è creata la seguente situazione, più o meno chiaramente proposta negli atenei: “se volete, potete non fornire i dati della ricerca, però così rischiate di danneggiare voi stessi e i vostri allievi”. Come ricatto fattuale e morale, che vanifica ogni dialettica negoziale negli atenei, non c’è male.
La cosa è talmente indecente che il Presidente della CRUI ha scritto al Ministro perché si diano risposte al malessere dei docenti. Presidente, Lei è stato un autorevole docente universitario. Sa di che cosa si parla. Usi la sua moral suasion perché il Parlamento metta riparo ad un’ingiustizia che i professori universitari italiani non meritano.

Eugenio Mazzarella

 

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