Carlo Carrà Milano – Palazzo Reale A cura di Maria Cristina Bandera
Sino al 3 febbraio 2019
Si viene accolti da Strada di casa (1900), un piccolo magnifico dipinto in movimento. Tutta in moto è infatti l’arte di Carlo Carrà, che fu tra i più convinti sostenitori del Futurismo, come testimoniano molte opere e la gigantografia che lo vede ritratto a Parigi nel 1912 insieme a Marinetti, Russolo, Boccioni, Severini. Il movimento del chiaro di luna (1910) è uno dei quadri più riusciti del periodo, fatto di strutture verticali che si addensano nello spazio con la forza del colore. Il particolare utilizzo del colore è uno degli elementi costanti dell’opera di Carrà, con la sua intensa presenza al confine tra naturalismo e immaginazione.
Un colore che crea città, umani, mare, case, cieli. Ai luoghi l’artista dedica un’attenzione profonda, creando una pittura urbana e insieme corporea, marina, vegetale. Luoghi naturali e luoghi costruiti. È ben presente la lezione di Cézanne, conle case e i tetti immersi nella vegetazione. Ogni forma è scandita, si staglia, parla. Davvero «gli elementi architettonici subordinano a sé tutti i valori figurativi di forma e colore», come Carrà con chiarezza disse.
Ai miei occhi l’apice di questo artista è il periodo metafisico. La metafisica di Carrà è un cubismo raffinato, pulito, luminoso. Natura morta metafisica (1919, qui sopra) immerge nella materia come ombra e come luce dentro le quali abita il corpomente umano, circondato e intriso di oggetti perfetti, che sono una cosa sola con i colori, le forme, la vibrante geometria, il divenire.
Poi Carrà cercò e percorse una strada tutta sua, intessuta di corpi dentro l’aria, palpitanti nello spazio, intramati con i luoghi, con la luce. È quanto testimoniano le opere sue forse più celebri: Il pino sul mare (1921, qui accanto), Dopo il tramonto(il faro) (1927), Cavallo sulla spiaggia (1952), le cui costanti sono l’inoltrepassabile solitudine e la potente malinconia che emergono anche nei versi di Ungaretti, del quale Carrà fu amico.
Come questi: «Balaustrata di brezza / per appoggiare stasera / la mia malinconia» (Stasera [1916] da «L’Allegria», in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori 1977, p. 31).
O questi altri: «Cercata in me ti ho a lungo / Non ti trovavo mai, / Poi universo e vivere / In te mi si svelarono. // Quel giorno fui felice, / Ma il giubilo del cuore / Trepido mi avvertiva / Che non ne ero mai sazio. // Fu uno smarrirmi breve, / Già dita tue di sonno, / Apice di pietà, / Mi accarezzano gli occhi. // Davi allora sollecita / Quella quiete infinita / Che dopo amare assale / Chi ne godé la furia» (Soliloquio I [1969], da «Nuove», ivi, p. 322).
Paterson di Jim Jarmusch USA, 2016 Con: Adam Driver (Paterson), Golshifteh Farahani (Laura), Masatoshi Nagase (il giapponese) Trailer del film
Paterson fa l’autista di bus in una cittadina del New Jersey che si chiama Paterson. Vive con la moglie Laura, che colora la casa, i vestiti e se stessa di bianco e di nero. Con loro il cane Marvin, piuttosto geloso. L’esistenza di questa coppia procede regolare, serena e malinconica. La struttura circolare del film ne descrive ritmi, sguardi, sentimenti, da un lunedì al lunedì successivo. Paterson ascolta i dialoghi di alcuni passeggeri del suo bus. In uno di essi due ragazzi parlano dell’anarchico Bresci che da Paterson partì per giustiziare l’infame re Umberto I di Savoia. La sera Paterson si ferma a prendere una birra nel locale di Doc, il quale gioca a scacchi con se stesso e coltiva la memoria dei personaggi celebri che a Paterson sono nati. Tra di loro alcuni poeti. Anche Paterson scrive poesie. Lo fa al mattino sul bus, prima di cominciare il giro. Lo fa durante l’intervallo, nel quale consuma il pranzo preparato da Laura. Lo fa la sera, nella cantina-studio della sua casa. Due volte incontra dei messaggeri, degli anghelos, dei poeti. La prima è una ragazzina che gli recita dei versi dedicati alla pioggia, il secondo -ed è l’incontro conclusivo- è un giapponese in visita a Paterson, il quale gli regala un quaderno sul quale scrivere nuove poesie. Come sempre in Jarmusch, tutto è sobrio, raffinato, profondo, attraversato da una malinconia che risplende di bellezza. Ma qui c’è qualcosa in più. Paterson riesce infatti a far vedere la poesia. Non soltanto e non tanto nelle righe composte dal protagonista, che appaiono sullo schermo mentre vengono scritte, quanto nelle ragioni profonde che rendono la poesia necessaria alla vita.
L’universale necessità che traspare anche dall’immagine di Dante Alighieri, portata con sé da Paterson insieme a quella della moglie, e dal riferimento felice che Laura fa a se stessa quando scopre che il Canzoniere è dedicato a una donna che si chiama come lei. La stessa necessità che illumina questi versi di Ungaretti: «Poesia / è il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti dalla parola / la limpida meraviglia / di un delirante fermento» (Commiato, da «L’Allegria», in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Meridiani Mondadori, p. 58).
Piccolo Teatro Grassi – Milano Quando il tiro si alza / When the barrage lifts Il sangue d’Europa: 1914-1918
Scritto, diretto e interpretato da Guido Ceronetti e dagli attori del Teatro dei Sensibili
Con: Luca Mauceri (Baruk), Eléni Molos (Dianira), Valeria Sacco (Egeria), Filippo Usellini (Nicolas)
e con la partecipazione di Elisa Bartoli (Durga, la ballerina ignota)
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
3-5 ottobre 2014
Prima che il sipario si apra campeggia La Guerre di Henri Rousseau (1893). Poi sta e rimane sullo sfondo una scritta: «1914-1918. La storia dal volto inumano». È vero, certo. Quell’evento terrificante, la cui responsabilità a Versailles venne attribuita alla sola Germania, ha avuto una molteplicità di cause complesse e intricate tra di loro. In ogni caso, ha rappresentato l’avvenimento sinora più importante della contemporaneità. La Prima Guerra Mondiale pose fine non soltanto a un periodo di 44 anni di pace in Europa, non soltanto alla lievità della Belle Époque e alla fiducia del positivismo nelle sorti umane. Pose fine soprattutto all’Europa, per mezzo di quel «suicidio obbligatorio di massa» (così lo definì Guido Piovene, qui ricordato) nel quale vennero massacrate dieci milioni di persone e altre venti furono ferite, storpiate, infollite. Fu il suicidio dell’Europa a favore dell’oriente russo e dell’occidente americano. Ne seguirono la rivoluzione bolscevica, il fascismo, il nazionalsocialismo, la Seconda Guerra Mondiale, Hiroshima e Nagasaki, la Guerra Fredda, il dominio attuale della finanza criminale. Tutto partì da lì, da quello sparo di Sarajevo che in realtà era stato preparato da lungi e nel quale si condensò qualcosa che va oltre le volontà le strutture le cause.
È per questo che quella scritta non è del tutto corretta. Tra il 1914 e il 1918 la storia svelò anche uno dei volti umani più profondi: quello della ferocia. Svelò il volto del Leviatano, di una struttura costruita per evitare la distruzione e che invece della distruzione diventa la causa determinante. Ferocia che arrivò al suo culmine negli Stati Maggiori di tutti gli eserciti, in quell’atteggiamento folle, incompetente e fanatico che accomunò Cadorna ai suoi colleghi di tutti i fronti e che viene descritto in modo perfetto da Kubrick in Orizzonti di gloria.
Guido Ceronetti ha scritto e costruito un cammino lucido, poetico e doloroso dentro il massacro. Lo ha fatto dando voce a testimoni e narratori -Apollinaire, Bloy, Jünger, Döblin, Remarque, Zweig, Lavedan, Ungaretti, Céline- e soprattutto dando carne e movimento ai suoi attori, tutti giovani, intensi, tragici. Il cammino si conclude con un soldato «crocifisso al legno della vostra demenza sadica».
A distanza di un secolo dall’inizio della fine, su quella Guerra sono state pronunciate infinite parole ma essa rimane qualcosa che va oltre le parole.
Konrad Lorenz dimostra che l’aggressività nel mondo animale svolge una funzione biologica molto importante perché è indispensabile alla sopravvivenza (aggressività difensiva), all’evoluzione (aggressività adattativa), alla maturazione del singolo (aggressività esplorativa). L’aggressività diventata guerra rappresenta però «nell’attuale situazione storico-culturale e tecnologica dell’umanità il più grave di tutti i pericoli» (L’aggressività, Mondadori1990,p. 66). Il paradosso è che proprio la componente biologica costituisce un possibile freno alla distruttività mentre molte norme culturali impongono -con le motivazioni più varie: religiose, nazionalistiche, economiche- di uccidere. Tutti i grandi predatori hanno dovuto infatti sviluppare nel corso della filogenesi una radicale inibizione a usare le loro armi naturali contro membri della stessa specie, pena l’inevitabile estinzione. Un lupo, ad esempio, non uccide un altro lupo che gli offre la gola in segno di sottomissione, quando basterebbe un semplice morso per finirlo. Qui l’inibizione è assai forte e agisce sistematicamente. Nell’uomo invece essa è assente in quanto egli è privo di armi naturali con le quali possa, in un sol colpo, uccidere una grossa preda: «Nessuna pressione selettiva si formò nella preistoria dell’umanità per generare meccanismi inibitori che evitassero l’uccisione di conspecifici finché, tutto d’un tratto, l’invenzione di armi artificiali portò lo squilibrio fra la capacità omicidiale e le inibizioni sociali» (Ivi, 314-315). Da qui il proliferare di una violenza senza freni, esercitata mediante armi che colpiscono da lontano e in modo anonimo, rafforzata dall’evidente contrasto fra la “nobiltà” dei valori etici -come la democrazia e i diritti umani- e il permanere di istinti fondamentali e atavici di aggressione, sottomissione, moltiplicazione delle proprie risorse. James Hillman osserva a ragione che la guerra è oggi «una devastante operazione high-tech eseguita da tecnici specializzati con un tocco delle dita», tanto che «sempre più distanti dalle distruzioni che innescano, i sicari possono starsene seduti, comodi e puliti, insonorizzati e deodorati, attenti solo ai pixel» (Un terribile amore per la guerra, Adelphi 2005, pp. 114 e 191; su tutto questo cfr. la voce «Guerra» da me curata per il Dizionario di bioetica, Villaggio Maori 2012, pp. 182-184).
Una delle tragedie della guerra è che da essa sembra non si impari mai. Non soltanto dai conflitti più remoti ma anche da quelli recenti o addirittura ancora in corso. E quindi gli Stati Uniti d’America, con Gran Bretagna e Francia come loro più fedeli servitori, si preparano a un nuovo conflitto illegittimo sul piano dei diritto internazionale, pericolosissimo per gli sviluppi che potrà avere, totalmente distruttivo per i civili siriani. Perché? Lascio la parola a due esperti, diversi tra di loro ma convergenti nell’analisi.
Don Renato Sacco, di Pax Christi, sostiene che
«basta vedere a quello che è successo in Afghanistan, in Iraq, in Libia: il rovesciamento del capo del regime non ha portato affatto la pace. È una storia che si ripete sempre, con amarezza: noi abbiamo sempre cullato i dittatori, li abbiamo ritenuti nostri amici, li abbiamo armati e poi abbiamo detto che bisognava fargli la guerra. È successo con Saddam e poi con Gheddafi. La comunità internazionale ha fatto di tutto con la sua indifferenza per far precipitare la situazione, l’Italia stessa ha venduto le armi alla Libia e poi si è detto che bisognava bombardare. […] Chi oggi si scandalizza di fronte alle vittime siriane, se lo fa per arrivare alla guerra lo fa per interessi. Poi le vittime vengono dimenticate e non se ne parla più. In Iraq nel mese di luglio ci sono stati mille morti, siamo arrivati ai livelli di violenza del 2006 e nessuno parla più. Quando si utilizzano le vittime per giustificare una guerra non lo si fa per amore delle vittime ma per amore dei propri affari e dei propri interessi. […] Una chiave di questo precipitare degli eventi potrebbe essere quella delle pressioni esercitate da parte delle lobby delle armi. Qualcuno parla già di accordi economici e militari tra Usa e Arabia Saudita. […] L’intervento armato a sostegno dell’uno o dell’altro schieramento porterebbe alla catastrofe totale, renderebbe esplosiva tutta l’area mediorientale già instabile con conseguenze devastanti per tutti, a cominciare dall’Europa» (Fonte: «Le vittime di Assad sono un pretesto»).
Massimo Fini afferma che
«tra l’altro non si sa affatto se Assad ha usato armi chimiche, ci sono gli ispettori ONU per questo, o l’ONU non conta nulla? Evidentemente non conta nulla perché quando serve c’è il cappello ONU, se non c’è il cappello ONU si aggredisce lo stesso. Questo è avvenuto in Serbia nel ’99, in Iraq nel 2003 e in Libia recentemente. Tutte azioni e aggressioni senza nessuna copertura ONU. Si dovrebbe per lo meno aspettare la relazione degli ispettori. C’è un precedente che dovrebbe consigliare prudenza, non dico agli Stati Uniti che non ne hanno, ma ai suoi alleati, ed è quello dell’Iraq, dove sostenevano che Saddam Hussein avesse le armi chimiche, di distruzione di massa, e poi non le aveva. Certo, lo sostenevano perché gliele avevano date loro a suo tempo, gli Stati Uniti, in funzione anti sciita e anti curda, però non le aveva più perché le aveva usate ad Halabja, gasando cinquemila curdi. […] Obama aveva tracciato una linea rossa, ma chi lo autorizza a tracciare linee rosse in altri paesi? Gli americani hanno sfondato un principio di diritto internazionale che era valso fino a qualche decennio fa, della non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano. I diritti umani sono il grimaldello con cui in realtà intervengono dove vogliono e quando vogliono, anche perché non hanno più contraltare, la Russia non è più una superpotenza. […] Tutti questi interventi si sono sempre risolti in altri massacri, prendiamo l’Iraq, l’intervento americano ha causato direttamente o indirettamente tra i 650 mila e 750 mila morti! Quindi ogni intervento cosiddetto umanitario si risolve in una strage umanitaria» (Fonte: La Siria e la terza guerra mondiale).
Giuseppe Ungaretti era stato un fervente interventista e si era arruolato -partendo da Alessandria d’Egitto- nell’esercito italiano che combatteva contro l’Austria-Ungheria. Ma si rese subito conto, al di là della propaganda bellica, di quale sia la vera natura della guerra. Scrisse allora queste parole: «Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro // Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto // Ma nel cuore / Nessuna croce manca // È il mio cuore / Il paese più straziato» («San Martino del Carso», in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori 1977, p. 51).
E anni dopo così si espresse sulla «bestialità e l’imperialismo» che delle guerre sono sempre la vera radice:
Città di lago, borgo medioevale e rinascimentale, alture che si ampliano a paesaggio, specchio della bellezza d’Italia. E di fronte la piccola isola colma di edifici, balconi, viottoli e chiese. Nel settecentesco Palazzo Penotti Ubertini di Orta San Giulio sono stati raccolti alcuni dei ritratti che Gianni Berengo Gardin ha realizzato e che nell’istante dello scatto riassumono il senso della vita di un uomo e delle situazioni nelle quali è immerso.
Vite come quella di Ungaretti, colto in due fotografie: la prima lo raffigura da vecchio in un suo intabarrato cappotto, l’altra nel saluto che dava a Venezia a dei manifestanti. E insieme a lui tanti altri tra gli artisti della seconda metà del Novecento. Immagini di fronte alla quali vengono in mente le parole di Elias Canetti sulla salvezza che l’arte rappresenta: «Così i morti si offrono come il più nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi: grazie a questo capovolgimento del sacrificio del morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine» (Massa e potere, Adelphi, p. 336).