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Odissea

Umanità irrequieta, nel mare e nel sole di un viaggio rapsodico
il manifesto
21 gennaio 2022
pagina 11

Il personaggio e la persona di Odisseo sono una delle incarnazioni più emblematiche dell’ermeneutica, del fatto che la vera storia di una figura letteraria, di un’opera, di un concetto sono i suoi effetti nel tempo. E questo conferma la potenza degli antichi canti dei Greci che vennero selezionati, messi per iscritto e ai quali si diede il titolo di Iliade, la guerra, e di Odissea, i viaggi e i ritorni. Vale a dire i due archetipi della letteratura universale perché modello e forma delle esistenze di tutti noi: i conflitti, la casa, gli affetti, lo spazio, l’inquietudine, la morte.

νόστος

Il 20 ottobre 2016 ho partecipato a un Convegno organizzato dalla Struttura didattica speciale di Lingue e Letterature straniere dell’Ateneo di Catania. Convegno voluto e introdotto da Nunzio Zago e dedicato ad alcuni Aspetti dell’ulissismo intellettuale dall’Ottocento a oggiLa sede è stata la magnifica città di Ragusa Ibla.
Ho partecipato per quello che sono, un dilettante di letteratura, e ascoltando i colleghi specialisti ho sentito l’orgoglio e l’onore di far parte di una comunità di ricerca umanamente coinvolgente e scientificamente feconda. Ho infatti imparato da tutti. Ricordo alcuni degli interventi, alla fine dei quali ho chiesto ai relatori la loro opinione sulla lettura che Horkheimer e Adorno hanno dato di Ulisse come emblema anche del borghese che persegue lucidamente i propri scopi in una logica utilitaristica. Chiarisco che quanto scrivo qui non costituisce una sintesi delle tesi enunciate dai colleghi ma si tratta soltanto di alcune mie riflessioni che partono dai loro eccellenti contributi.

Andrea Manganaro ha parlato dei personaggi di Verga e della loro corsa verso la morte. Ascoltandolo ho pensato al fatto che Ulisse torna da solo a Itaca, tutti i suoi compagni sono morti. Forse Ulisse è anche il potente di cui parla Canetti, è colui che differisce la propria morte attraverso il morire degli altri, a cominciare dalla distruzione imposta agli abitanti di Ilio.
Antonio Sichera analizzando l’opera di Pavese si è riferito alle motivazioni per le quali Ulisse rifiuta la straordinaria proposta di Calipso di renderlo immortale e sempre giovane, invece che tornare da una moglie umana. Forse il motivo di tale rifiuto sta nel fatto che Ulisse ha compreso l’infelicità di Calipso. La dea non si è conciliata con il tempo. Non il tempo Χρόνος, naturalmente, essendo lei divina, ma il tempo Aἰών. E invece Ulisse con il tempo si è conciliato, è stato capace di fare del futuro -dei propri desideri, ambizioni, aspirazioni- il suo stesso presente.
Fernando Gioviale ha raccontato di D’Arrigo. Non soltanto di Horcynus Orca ma anche dell’ultimo romanzo darrighiano, Cima delle nobildonne, un testo dedicato alla placenta. Anche Giuseppe Traina parlando di Bufalino ha accennato al ritorno all’utero.
Ascoltandoli mi sono ricordato di uno dei più grandi narratori del Novecento, Elsa Morante, forse troppo trascurata. Nell’ultimo suo romanzo, il figlio di Aracoeli si rivolge alla memoria della madre dicendole: «Ma tu, mamita, aiutami. Come fanno le gatte coi loro piccoli nati male, tu rimàngiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine pietosa» (Aracoeli, Einaudi, 1982, p. 109). Ulisse è forse anche il desiderio del ritorno al luogo nel quale tutto era caldo, liquido, sicuro. Il luogo nel quale ogni voce, contatto, movimento, erano pura luce. Tornare a Itaca la madre, tornare a Itaca la Terra. Tornare all’intero da cui proveniamo.

Forse è anche per questo che Odisseo -come l’Ettore di Foscolo- vivrà «finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane» (Dei Sepolcri, 294-295), vivrà nelle nostre parole, nei nostri studi, nel nostro tendere al luogo da cui proveniamo. Vivrà in quel νόστος che è l’intera esistenza.

Il Partito Unico

E così tutto è compiuto. Il sogno della fazione di destra del Partito Comunista Italiano -ricondurre una forza anticapitalista dentro l’alveo di un’Europa subordinata agli Stati Uniti d’America- si è realizzato al di là delle stesse speranze di colui che ha tenacemente operato per decenni in questa direzione: Giorgio Napolitano. Passato dallo stalinismo all’ultraliberismo, costui ha mantenuto costante il nucleo autoritario che lo ha sempre ispirato, sino a negare ora apertamente i tre capisaldi di qualunque democrazia degna di tale nome: la distinzione tra maggioranza e opposizione, la divisione dei poteri, l’informazione come strumento di critica dell’azione politica.

Contro la fisiologica e necessaria dialettica parlamentare tra governo e opposizione, Napolitano esorta da anni alla formazione di una maggioranza che si estenda a tutte le forze politiche, ha promosso un’unità intessuta di complicità, di interessi personali, di reciproci ricatti. Quando si poteva cancellare l’anomalia criminale del berlusconismo -nel novembre del 2011- sciogliendo le Camere e dando vita a un governo di sinistra, ha invece affidato l’Italia a un banchiere spietato, incapace e clericale, offrendo alla destra più corrotta d’Europa tutto il tempo per ricostituirsi. Ha poi predeterminato il risultato politico qualunque fosse stato l’esito delle elezioni. E infatti nonostante il 75% degli italiani che si sono recati alle urne abbia espresso con chiarezza la volontà di farla finita con Berlusconi, Napolitano ha operato affinché costui fosse di nuovo al centro della dinamica politica, esito non contrastato dal defunto Partito Democratico anche per la ragione indicata da Franco Berardi Bifo: «Il cinismo è il suo [del medium televisivo] tono morale predominante, perché l’inconscio collettivo prevale sulla ragione critica, e l’inconscio collettivo si identifica ora con la figura narrativa del vincente. La sinistra pensava che l’immoralismo avrebbe portato alla sconfitta del mammasantissima. Sbagliava perché gli italiani che vivono nel mondo descritto in Reality da Matteo Garrone voteranno Berlusconi anche quando lo vedranno inculare il bambino Gesù (purché sia mostrato in tivù)» («L’evento italiano», in Alfabeta2, n. 28, aprile 2013, p. 6).
Contro la divisione dei poteri ha lentamente ma inesorabilmente eroso l’autonomia del legislativo sottoponendolo all’azione dilatata di un esecutivo che a sua volta risponde soltanto a un potere -quello del Presidente della Repubblica- al quale la Costituzione nega un simile spazio. Napolitano ha poi sistematicamente umiliato il potere giudiziario sino alla clamorosa richiesta di un intervento della Corte Costituzionale che gli desse ragione nei confronti di chi stava indagando sui suoi amici.
Contro la libertà dell’informazione ha evocato il dovere per quest’ultima di «collaborare» con il governo. Affermazione di inaudita gravità antidemocratica.

La logica dell’Identità, il monoteismo autoritario e verticale del Padre, ha così prevalso sulla logica della Differenza e sulla pratica della molteplicità. Il panorama è quello plumbeo dei vecchi paesi sovietici, verso il totalitarismo dei quali l’anima di quest’uomo non ha in realtà mai cessato di rivolgersi.
E affinché sia ancora più chiara la fine che devono fare quanti osano davvero proporre la differenza, Napolitano e i suoi complici nel governo e nei partiti assistono gelidi all’inusitato attacco alla libertà e ai diritti dei parlamentari del M5S eletti da più di otto milioni di cittadini, assistono compiaciuti alla violazione delle loro caselle di posta elettronica, dei loro computer, delle loro vite private e delle azioni politiche, in modo che nessun personaggio importante che tenga a se stesso e voglia far carriera si azzardi a stare dalla parte di questi appestati. Sta accadendo qualcosa di simile a ciò che si verificò tra il 1922 e il 1924, quando l’immunità parlamentare garantì i fascisti ma non Gramsci e i nemici del Duce.
C’è molta ideologia nell’azione di Napolitano e dei suoi complici, c’è molta fedeltà al fascismo perenne della storia italiana e al sogno di società chiusa del comunismo sovietico. Ma credo ci sia anche la potenza di un ricatto che lo stesso Presidente subisce. Ricatto del quale le intercettazioni prontamente distrutte dopo la sua assurda ma emblematica rielezione sono la prova, il sigillo, il veleno.

In un denso articolo del 24 aprile scorso, Barbara Spinelli paragona l’azione del Movimento 5 Stelle al “folle volo” dell’Ulisse dantesco, al testardo rifiuto di morire nella quiete della non speranza, alla lotta contro «l’ideologia […] con cui Pangloss indottrina l’inerme Candide, in Voltaire: stiamo andando verso il migliore dei mondi possibili, l’Europa meravigliosamente si integra, ed ecco  – horribile visu!-  una coorte di paradossali e tristi sovvertitori mirano proprio al contrario: alla dis-integrazione».
Soltanto delle menti e delle vite profondamente autoritarie, meschine e complici dell’ingiustizia possono interpretare come “dis-integrazione” la parola che dice no, l’anelito alla differenza, la molteplicità politica e ontologica. Nel fallimento di quel folle volo -che non è di Beppe Grillo o del Movimento 5 Stelle ma è di chiunque voglia ancora vivere libero- c’è tutta la tragedia di un’Italia destinata alla miseria antropologica prima che economica; c’è il lutto senza fine di un Paese che da secoli è servo; c’è la prefigurazione di ciò che si vorrebbe diventasse l’intero pianeta, le cui risorse e bellezza e differenze devono cedere alla rapace azione di un unico potere che prende di volta in volta le maschere della finanza, dei Bilderberg, di tutte le massonerie e di tutte le mafie; un mondo le cui risorse e bellezza e differenze devono inabissarsi in un solo gorgo.
«E la prora ire in giù, com’altrui piacque, / infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso»
(Commedia, «Inferno», canto XXVI, vv. 141-142).

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