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Milano e oltre

Miracoli a Milano
Carlo Orsi fotografo

Milano  – Palazzo Morando
A cura di Giangiacomo Schiavi e Giorgio Terruzzi
Sino al 2 febbraio 2025

Carlo Orsi. L’ombra del Grattacielo Pirelli sulla Stazione Centrale di Milano, 1961

Carlo Orsi (1941-2021) ha fotografato Milano e il mondo, facendo della città lombarda una sineddoche della vita ovunque. E ovunque incontrando l’inesausto dinamismo, la curiosità profonda, la malinconia di Milano. Era nato nel cuore della città, a Brera. E nei suoi bar aveva incontrato gli artisti e gli amici che lo hanno sempre accompagnato. A partire da Lucio Fontana, che divenne il suo primo finanziatore, e Ugo Mulas, del quale fu assistente.
Iniziò come fotoreporter per quotidiani e rotocalchi, fotografò poi la moda, inventò immagini pubblicitarie, creò ritratti.
«Posso fotografare qualsiasi cosa» afferma in una intervista video. E in effetti nelle 140 immagini, di Palazzo Morando scorrono le stazioni ferroviarie di Milano, le code ai negozi, l’ippodromo, i grattacieli, le Colonne di San Lorenzo, i locali di Brera, la metropolitana; e poi attori, pittori, scultori, sarti (detti stilisti), cantanti, manifesti pubblicitari, nudi. E poi ancora i deserti, da lui molto amati, i popoli lontani, i meridionali all’assalto dei treni alla Stazione Centrale di Milano, il muro di Berlino mentre veniva demolito, le tristezze e  le svolte della storia.

Carlo Orsi, Salvatore Quasimodo al bar Jamaica, 1965

Tutto in bianco e nero, poiché – spiega – il bianco e nero si concentra sull’immagine, non sui dettagli, non distrae. Perché, qualunque cosa ritragga, «al centro sta sempre la fotografia». Una fotografia densa e materica, non digitale. Di quest’ultima dice: «Non mi importa nulla. Io morirò con la pellicola».

La poetica di Orsi è epica, lo spazio è teatrale, il taglio è spesso fuori contesto. E anche per questo coinvolgente. L’istante privilegiato è quello per le strade, è la non posa dei ritratti (anche se non sempre), è la miscela di tecnica e antropologia, come in particolare si vede negli scatti realizzati nel 2004 in Tibet.
L’esito è spesso al limite del reale, un’arte quasi surrealista.
La forza delle immagini è evidente, qualche volta lo è anche l’inevitabile fru fru di una Milano fatta di sarti idolatrati e di pubblicità furba, dei cascami insomma del capitale.

Carlo Orsi, Metropolitana, 1965

La fotografia, gli umani, l’istante

Ugo Mulas. Esposizioni. Dalle Biennali alla vitalità del negativo
Palazzo della Triennale – Milano
A cura di Giuliano Sergio e Archivio Ugo Mulas
Sino al 9 settembre 2012

I luoghi, gli eventi, gli umani. Questi sono i soggetti ai quali Ugo Mulas dedica lo sguardo della propria macchina fotografica. Soggetti quindi universali, per i quali lo scopo del fotografo è una resa quanto più oggettiva possibile. Come se le foto si fossero fatte da sé, anzi fossero emerse dal divenire stesso delle cose/situazioni per imprimere il loro bianco e nero sulla carta.
La bella città di Spoleto (1962) diventa l’armonioso stridore che sale dai vicoli e delle case medioevali contaminate con sculture contemporanee fatte d’ascesi. Le numerose edizioni della Biennale di Venezia tra gli anni Cinquanta e Sessanta iniziano con eleganti sorrisi e finiscono con i poliziotti che manganellano gli artisti. Nel mezzo svettano lo sguardo di Pomodoro e l’eleganza di Melotti, entrambi colti tra le loro opere.
Il Pergamon di Berlino e la Nike del Louvre danno l’impressione che i visitatori neppure ci siano dentro i musei che li ospitano, tale è la potenza con la quale l’architettura e la scultura ellenistiche vengono colte da Mulas. E invece nella visita a un museo russo è evidente che al fotografo non importano i quadri ma l’umanità che li guarda. In un gruppo di visitatori tutti stanno col naso in su ad ammirare qualcosa. Tutti tranne una bambina, che fissa dritto dritto il fotografo negli occhi. Questo bellissimo e dislocante gioco spaziale degli sguardi diventa esplicita riflessione sul tempo nella serie intitolata Verifiche: l’installazione di Jannis Kounellis -un uomo che suona un pianoforte- viene fotografata in rapida successione. In questo modo, afferma Mulas, «il tempo acquista una dimensione astratta, nella fotografia [il tempo] non scorre naturalmente, come accade nel cinema e nella letteratura. Sullo stesso foglio, nello stesso istante  coesistono tempi diversi, al di fuori di ogni constatazione reale». Mentre dunque le parole appaiono una dopo l’altra nel foglio o sul monitor, mentre i fotogrammi devono scorrere a una ben precisa velocità affinché un film esista, la fotografia può cogliere l’identità dell’istante e la differenza del suo fluire. Può cogliere quindi molto dell’enigma che il tempo è.
Assai altro c‘è in questa mostra. Che cosa, lo spiega Giusy Randazzo in un’erudita recensione alla quale rimando.

Calder. La materia aria

CALDER
Roma –  Palazzo delle Esposizioni
Sino al 14 febbraio 2010

D’aria e di fil di ferro sono fatte le prime sculture di Alexander Calder, quasi impalpabili eppure materiche. A rappresentare animali, volti, eventi, miti (splendidi davvero Ercole e il leone e Romolo e Remo). Poi l’invenzione dei Mobiles, sculture non germinate dalla terra ma arrivate dal cielo. Opere che il vento muove e che sono dunque ogni volta rinnovate nello spazio. Vi si affiancano le grandi Stabiles come il magnifico Tree che sembra trasformare in vita l’inorganico.
Più lieve è il mondo, più aerea la bellezza da quando questo tra i massimi scultori di sempre ha sradicato le opere dalla loro morta fissità e le ha rese movimento, gioco, volo. Come il grande mobile appeso al tetto e intitolato a una data: Le 31 Janvier. C’è qualcosa di ancestrale e di profondo in queste opere, come la rivelazione di ciò che la materia è davvero: non sostanza, sostrato, permanenza, costanza, ma spazio che si dilata, apre, trasforma, cangia, splende, a dire la propria identità col tempo.
Una sezione della mostra espone le fotografie dedicate a Calder da Ugo Mulas, nelle quali il «gigante bambino» è una cosa sola con le sue opere, con l’aria.

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