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Siria

Gli Stati Uniti d’America, il più pericoloso stato terrorista del mondo, hanno bombardato stanotte la capitale della Siria, uno stato sovrano a migliaia di chilometri dalle loro coste. A collaborare all’attacco sono state le colonie Regno Unito e Francia. La Turchia di Erdogan e Israele hanno approvato con entusiasmo l’attacco.
Aerei sono partiti anche dalla base catanese di Sigonella. E ciò in spregio dell’articolo 11 della Costituzione repubblicana: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Voi che vi siete bevuti le menzogne sulle armi di distruzione di massa dell’Iraq, sulla Libia, sull’Afghanistan, non siete ancora abbastanza ubriachi? Un poco di razionalità non guasterebbe.
Razionalità e competenza mostrate da una testimonianza del generale italiano Leonardo Tricarico, così come riportata in una mail che ho ricevuto da Marco Tarchi e Giuseppe Ladetto:

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Caro professore, riporto qui in appresso (con parole mie ma cercando di essere il più fedele possibile a quanto ascoltato) l’intervento in Omnibus di questa mattina (14/4/2018) del generale Leonardo Tricarico (già Capo di stato maggiore dell’aeronautica militare e Presidente dell’Unità di crisi) sui fatti siriani.

In questi sette anni di guerra civile in Siria, mai le forze armate di Assad hanno fatto uso di gas, ma si è sempre trattato di messe in scena o di azioni delle forze ribelli che, dopo palesi sconfitte, hanno cercato, talora riuscendoci, di provocare interventi militari da parte degli occidentali. L’azione franco-anglo-americana di questa notte è stata una sceneggiata senza significative conseguenze sul piano militare, più che altro un atto rivolto all’opinione pubblica interna, ma che sul piano internazionale appare come una manifestazione di debolezza perché non collocata in una qualche strategia di lungo periodo. Inoltre, i russi hanno facilmente ironizzato sull’impresa dichiarando che nessun missile occidentale è entrato nell’area da essi controllata: sono bastate le difese antimissilistiche siriane (vecchie di trenta anni) per abbattere un terzo dei missili in arrivo.
Alla osservazione un po’ preoccupata del conduttore, tesa a ridurre queste parole a semplice opinione, il generale Tricarico ha ribadito che non si tratta di un’opinione: infatti lo rivela in primo luogo la logica del cui prodest per la quale nessuno, dopo aver già conseguito il successo, mai avrebbe fatto uso di gas che gli si sarebbe ritorto contro; in secondo luogo, l’esame obiettivo dei fatti relativi ai precedenti presunti attacchi con gas da parte siriana rivela che le accuse ad Assad non reggono come pubblicato da una ricerca del Mit di Boston.
In seguito, commentando le parole di un giornalista che lamentava la totale assenza dell’Italia nello scenario mediorientale, il generale Tricarico ha detto che si tratta di un’affermazione parziale perché le forze armate italiane sono quelle (fra i paesi dell’UE) con il maggior impegno nell’area (Afganistan, Iraq, Libano, Kosovo, Libia, Niger); tuttavia a fronte di tale impegno, gli Usa non danno nulla in cambio, ed è qui sul terreno politico che il Paese è in difetto.

Cordiali saluti,
Giuseppe Ladetto

Contro la guerra giusta

Copio qui alcuni dei testi che ho inserito su Twitter in questi giorni:

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E ora che #Trump attacca la #Siria è diventato buono? L’informazione unilaterale è sempre al servizio degli#USA e del loro impero.

La distruzione dell’esercito siriano darebbe forza agli islamisti e all’#Isis. Poi però si lamentano degli attentati in #Europa. #AttaccoUsa

Se ne è accorta persino Repubblica: “Aviazione siriana in ginocchio, un vantaggio per la Jihad”  #attaccousa #Siria

4 bambini morti nell’#attaccousa. Tutti i bambini sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri. E #May e #Merkel con #Trump contro #siria

È tanto istruttivo quanto squallido vedere ora l’ di farsi complice del ‘nazista’ in

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In che modo si è arrivati a tutto questo? Quali sono le radici profonde del bellum omnium contra omnes al quale sta pervenendo la politica degli Stati contemporanei?
Le guerre che sconvolsero l’Europa all’inizio dell’età moderna e che si conclusero con il conflitto dei Trent’Anni (1618-1648) furono così totali e feroci perché combattute in nome di Dio. Papisti contro riformati, riformati in lotta tra di loro, re cattolici contro sovrani protestanti ma anche cattolici contro altri cattolici. Tutti combattevano in nome della verità e per motivi quindi di suprema giustizia, poiché nulla -evidentemente- è più giusto che lottare per la verità assoluta del Dio.
Le paci di Westfalia posero fine a tali massacri, regolamentando i conflitti con norme estremamente rigide, che fecero emergere una delle strutture della guerra, il suo essere anche «un gioco diplomatico dominato dalla ragion di Stato con i suoi corredi di segretezza (non a caso nasce in questo periodo la diplomazia come professione) e le sue decisioni sottratte alla passionalità, che in certi momenti sembrava, appunto un gioco; come se si giocasse alla guerra, espressione da non intendere alla leggera, poiché proprio il rispetto ferreo delle regole che si pretende dai giocatori era quello che riusciva a tenere sotto controllo la violenza della guerra. E del resto, come ha mostrato Huizinga, il gioco è uno dei modelli supremi di relazione tra pari» (Archimede Callaioli, in Diorama Letterario 335, p. 22, a proposito del libro La guerra ineguale di Alessandro Colombo).
Il sistema di Westaflia -che escludeva categoricamente i civili dalle azioni di guerra- cominciò a incrinarsi con i conflitti combattuti in nome della Liberté Égalité Fraternité (giacobini e Napoleone) per crollare del tutto nel Novecento con l’evento fondamentale degli ultimi due secoli: la Grande Guerra 1914-1918. Da allora la guerra non ha più rispettato niente e nessuno, tornando a un’altra sua dimensione fondativa e assai diversa dal gioco: la caccia. Decisivi furono gli sviluppi tecnologici, culminati con l’utilizzo dell’aviazione non come sfida nei cieli tra cavalieri/piloti ma come strumento terroristico esplicitamente teorizzato per la prima volta dal generale italiano Giulio Douhet, proprio durante la I Guerra Mondiale. Secondo questo militare l’aviazione avrebbe dovuto svolgere un ruolo del tutto autonomo e capace da solo di mutare le sorti del conflitto, poiché -scrisse- «rende immensamente di più distruggere una stazione, un panificio, una officina producente materiale bellico, mitragliare colonne di camions, treni in marcia, maestranze, ecc. che non bombardare o mitragliare trincee. Rende immensamente di più infrangere resistenze morali, dissolvere organismi poco disciplinati, diffondere il panico ed il terrore che non urtarsi contro resistenze materiali più o meno solide» (cit. da Callaioli, ivi, p. 23).
Attenzione alla parola chiave enunciata da Douhet: terrore. Pur di ottenere la vittoria definitiva contro il male assoluto, rappresentato dalle potenze dell’Asse, si giunse al «momento culminante, ai ‘più perfetti atti terroristici della storia’: Hiroshima e Nagasaki» (Ibidem). In nome della suprema giustizia si giunse a cancellare in pochi minuti le vite di centinaia di migliaia di civili, di persone non in armi. Lo stesso era accaduto tra il 13 e il 15 febbraio del 1945 a Dresda, incendiata dall’aviazione britannica per esplicita volontà di Winston Churchill. Dresda non ricopriva alcun ruolo strategico; per colpirla -e bruciarne centinaia di migliaia di abitanti- il democratico Churchill parlò esplicitamente di terrore da trasmettere ai tedeschi, ai cittadini tedeschi.
Il terrore portato nel Vicino Oriente e in Europa dall’Isis e dalle altre forze islamiste è attuato in nome di Dio e per la verità del Corano. Il terrore portato dagli eserciti statunitensi ed europei in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria è attuato in nome della democrazia, dei diritti umani, della giustizia.
Se tutte le guerre sono delle catastrofi, quelle giuste sono le più feroci, senza confronto. «Non ci sono guerre giuste, ma ci deve essere un ‘giusto’, vale a dire delle regole rispettate, nella guerra. Così accadde nell’età moderna [per merito dei Trattati di Westfalia] e a questo bisogna aspirare oggi per evitare di finire in una ‘guerra civile mondiale’ senza limiti, in cui ciascuno si ritiene portatore di verità assolute» (Eduardo Zarelli, p. 35).
Intendo qui dire con chiarezza che mi pongo contro tutte le guerre combattute per Dio, per la verità, per la giustizia, per la democrazia. Anche perché i primi a opporsi a tali conflitti dovrebbero essere i filosofi. Quando anch’essi, invece, cadono nella trappola della verità assoluta (‘verità’ andrebbe declinata sempre al plurale) accade che si facciano complici dei peggiori crimini, come fu per Jean-Paul Sartre, il quale negando la terribile carestia del 1932-1933 voluta scientemente  dallo stalinismo per punire i contadini ucraini che rifiutavano la collettivizzazione delle terre, «diede una delle sue più ripugnanti prove di falsificazione della realtà e di conformismo, uscendo sconfitta [l’intellighenzia francese], ma non al punto da farsi passare la voglia di impartire lezioni di moralità politica a tutti i propri avversari» (Roberto Zavaglia, p. 25).

Anche senza la pratica della guerra giusta, la convinzione di parlare e agire in nome di un bene assoluto può condurre a esiti gravi e paradossali, come quelli che riguardano il tema dei flussi migratori dai paesi africani verso l’Europa. Nei confronti di chi evidenzia che l’identità è un concetto e una realtà del tutto ovvia per qualunque società umana -dalle più piccole tribù ai grandi stati- si alza il coro del conformismo più miope, incapace di vedere -semplicemente vedere– «che nel corso della storia gli individui hanno costantemente mostrato una tendenza ad aggregarsi e a creare codici di riconoscimento reciproco -e di esclusione degli estranei- intorno ad una serie di referenti sia concreti che simbolici che dessero loro la sensazione di co-appartenere ad una o più precise entità plurali. Si sono insomma voluti pensare come comunità e come popoli» (Marco Tarchi, p. 2). Ogni tanto qualcuno si sottrae al conformismo liberale e liberista dell’accoglienza indiscriminata che favorisce il Capitale, mette a rischio le culture di arrivo e crea violenza contro i migranti. Paul Collier ad esempio, figlio di migranti e intellettuale di sinistra, il quale in Exodus. I tabù dell’immigrazione (Laterza, 2015) argomenta una «tesi che può essere riassunta in questi termini: le porte non vanno né aperte né chiuse, ma socchiuse; un po’ di immigrazione sì, troppa immigrazione no» (Giuseppe Giaccio, p. 29).
Paesi come il Canada e l’Australia, pur essendo enormemente più estesi degli stati europei e praticamente disabitati (l’Australia) «limitano  l’immigrazione alle persone in possesso di un titolo di studio superiore e associano ai sistemi a punti una serie di colloqui tesi a valutare altre caratteristiche», come ricorda appunto Collier (ibidem). Di fronte a politiche così ‘fasciste’ attuate dal Canada e dall’Australia, perché non dichiarare loro guerra in nome del supremo diritto all’emigrazione? Sarebbe certamente una guerra giusta.

Imperialismo e ultraliberismo

Per quello che possono valere le cronologie, bisogna pur dire che il 2016 è stato un anno sorprendente: «Prima la Brexit, poi l’elezione di Trump, il testa a testa delle presidenziali austriache, l’uscita di scena pressoché in contemporanea di Sarkozy e Hollande, il rotondo risultato del referendum costituzionale italiano con la sconfitta del campione della Commissione europea, delle redazioni giornalistiche e degli ambienti economico-finanziari, e alla fine persino il rovescio delle ‘rivoluzioni arabe’ con la riconquista di Aleppo ad opera delle truppe lealiste del governo di Assad» (M.Tarchi in Diorama letterario 334, p. 1).
Eventi che mostrano ancora una volta la necessità di elaborare categorie politiche e metapolitiche diverse rispetto all’obsoleto schema destra/sinistra nato con la Rivoluzione Francese e ormai inadeguato a comprendere un mondo profondamente diverso rispetto a quello che si è chiuso nel 1989.
Il concetto di populismo, ad esempio, è utilizzato dai media e dai politici in un modo troppo generico, polemicamente connotato e parziale. Più esatta è la definizione scientifica che ne dà Tarchi nel suo Italia populista: «La mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione» (Il Mulino, 2015, p. 77).
Due dei protagonisti dello scorso anno sono stati Trump e Hollande. Il primo è in entrata, l’altro in uscita. Due personaggi emblematici, la cui azione politica passata e futura è stata e sarà analizzata nella sua varietà e complessità. Intanto, si può subito dire che per Trump « ‘America first’ vuol dire anche: l’Europa ben lontana dietro di noi! Dopo decenni di interventismo a trecentosessanta gradi e di imperialismo neocon, il ritorno ad un certo isolazionismo sarebbe una buona cosa, che può però avere il suo risvolto. Non dimentichiamo che nessun governo americano, interventista o isolazionista, è mai stato filo-europeo!» (A.de Benoist, p. 6).
Per quanto riguarda Hollande, Eduardo Zarelli si sofferma sul significato della decisione del presidente francese di far sfilare, lo scorso 14 luglio, delle truppe del Mali sugli Champs Elysées. La motivazione più importante di questo evento sta nel fatto che «il Mali è il terzo paese al mondo per i giacimenti auriferi e conta anche giacimenti di petrolio, di gas e soprattutto di uranio. In un periodo di crisi mondiale epocale, il governo francese voleva assicurarsi riserve significative di materie prime, in modo da riuscire ad alimentare le sue 60 centrali nucleari totalmente dipendenti dall’uranio africano, e nel contempo rimpinguare le riserve auree di Stato» (p. 15). Come si vede, si tratta di una politica classicamente imperialista, «che risponde alla strategia geopolitica di mantenere l’intero continente sotto il controllo militare e gli interessi economici delle grandi democrazie, che tornano in Africa, dopo le tragedie ottocentesche e novecentesche, con il casco coloniale dipinto con i colori dell’arcobaleno della pace. […] L’universalismo ugualitario prolunga una tendenza secolare che, nelle forme più diverse e in nome degli imperativi più contraddittori (propagazione della vera fede, superiorità della razza bianca, esportazione mondiale dei miti del progresso e dello sviluppo) non ha mai cessato di praticare la conversione, cercando di ridurre ovunque la diversità e ricondurre l’altro al medesimo riferimento: la modernità occidentale» (p. 16).
Più in generale, si tratta degli effetti di ciò che Paolo Borgognone definisce il «radicalismo liberale» sostenuto da «una sinistra mondialista, officiante l’ideologia dei diritti umani e la dittatura del ‘politicamente corretto’, tanto votata unilateralmente ai diritti civili quanto dimentica di quelli sociali; così ‘tollerante’ e libertaria da sostenere l’irreversibile uniformità dell’occidentalizzazione del mondo a colpi di ‘bombardamenti etici’ e ‘guerre umanitarie’ in ogni dove, perfetta interprete del conformismo dei nostri tempi, di quelle ‘passioni tristi’ snob e radical chic che ben vestono la misoginia morale del perbenismo. Il progressismo non solo è perfettamente calzante con il sistema liberal-capitalista, ma è anche la forza politico-culturale più adatta alla gestione delle dinamiche di una modernità che, vocandosi apolide, diventa globale e senza frontiere» (così Zarelli recensendo di Borgognone L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale, Zambon, Frankfurt am Main/Jesolo 2016, pp. 33-34).
In tutto questo è fondamentale strumento l’informazione, che anche nelle ‘democrazie avanzate’ è asservita ai grandi gruppi finanziari ed economici, i quali orientano soprattutto le emozioni, dando enfasi a immagini, dichiarazioni, eventi in relazione non al loro contenuto ma al mettere in buona o cattiva luce determinati soggetti. Un esempio evidente di tali dinamiche sta nella dichiarazione che il Segretario di stato del secondo mandato Clinton -Madeleine Albright- fece alla Cbs a proposito del mezzo milione di bambini morti durante la guerra in Iraq. La signora rispose in questo modo: «So benissimo che si è trattato di una scelta difficilissima, ma noi siamo convinti che sia stata una scelta perfettamente legittima». Zarelli si chiede opportunamente «che cosa accadrebbe nel mainstream mondiale se una tale risposta venisse data dal presidente della Federazione russa Vladimir Putin, dal presidente cinese Xi o da quello della Repubblica islamica dell’Iran, Hassan Rouhani. Non verrebbero immediatamente additati come satrapi sanguinari?» (p. 35).
Un comunista che si oppone alla svendita culturale della sua ideologia è il filosofo Slavoj Žižek, il quale in La nuova lotta di classe  (Ponte alle Grazie, 2016) sostiene la necessità che la sinistra antagonista si renda conto delle molte trappole culturali e politiche che l’ultraliberismo dissemina nei confronti proprio di chi si batte per un diverso sistema di vita individuale e collettiva. Tra queste, Žižek annovera il ‘buonismo’ che la trasforma in una «innocua sinistra del capitale, in inoffensiva sinistra borghese perfettamente funzionale alla riproduzione dei meccanismi del capitalismo globale che in teoria dice di voler combattere» (ricordato da G. Giaccio a p. 28). Sono tesi molto simili a quelle di Cornelius Castoriadis, Jean-Claude Michéa, Michel Onfray.
Esiste dunque una sinistra capace ancora di pensare e non soltanto di commuoversi.

Sul disordine costituito

Che cosa vuole il potere? Quali sono gli strumenti e insieme gli obiettivi di chi comanda? L’elenco potrebbe essere lungo ma esso dovrebbe in ogni caso comprendere la rassegnazione, il silenzio, l’adesione al pensiero dominante. Sono esattamente questi gli elementi del potere contemporaneo. Il quale però, a differenza di altre epoche, è assai più sottile e anzi tende a presentarsi come il garante e lo spazio delle libertà, dei ‘diritti’.  E quindi bisogna affinare gli strumenti culturali e teoretici –metapolitici– mediante i quali resistere all’omologazione, poiché «rassegnarsi è un delitto commesso contro la nostra stessa coscienza di uomini liberi di assegnarsi un destino» (M. Tarchi, Diorama letterario, n. 330, p. 3).

Il postulato è che non bisogna avere «il benché minimo rispetto per l’ordine costituito, che il più delle volte è solo un disordine costituito» (A. de Benoist, 3). Disordine che si mostra in una varietà di espressioni e forme:

– la globalizzazione economica e i conseguenti esodi di intere popolazioni, il cui risultato consiste nel fatto che «i ‘disperati’ accettati in nome del dovere di accoglienza, della solidarietà e della incapacità politica di attuarne il rimpatrio finiranno con il vivere in larga misura di sussidi statali pagati con le imposte dei cittadini già residenti e, in larga misura, alimenteranno una vera e propria armata di riserva del Capitale addetta al lavoro e al contenimento dei salari» (Tarchi, 2);

– la pervasività dei Social Network e dei loro scopi di controllo e di profitto, profitto esteso anche allo sfruttamento delle relazioni sociali, le quali «sono state trasferite su piattaforme elettroniche che ne annientano le qualità nello stesso momento in cui le rendono quantificabili e monetizzabili» (M. Virgilio, 35);

– l’emergere di personaggi inaffidabili e francamente stolti, ai quali vengono affidati interi Stati e arsenali, come Donald Trump -«un miliardario paranoico incrociato con un potenziale dottor Stranamore», che «di fatto, non conosce assolutamente niente delle questioni internazionali e non ha la benché minima idea di cosa sia la politica»- e la sua rivale, «l’istericissima strega neo-conservatrice Hillary Clinton. […] È certo che, a confronto con lo spaventapasseri spennato e con la bambola Barbie che ha superato la data di scadenza, Bernie Sanders perlomeno fa la figura di un umano» (de Benoist, 4-5);

– la progressiva eliminazione o ridimensionamento della libera corporeità, delle sue strutture e ritmi naturali  e innati, a favore di una culturalizzazione ed economicizzazione totale dei corpi. Un esempio è quello presentato da Jonathan Crary nel suo 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (Einaudi, 2015). Il dormire è infatti ritenuto un’attività assolutamente ‘improduttiva’ e come tale da ridurre quanto più possibile. «Un fatto, questo, del quale il capitale è stato cosciente sin da quando ha deciso di operare come se il tempo non esistesse, e che lo ha costretto ad impegnarsi a fondo nella costruzione di un soggetto umano in grado di adeguarsi completamente ad ‘un sistema in cui le operazioni produttive non si fermano mai’, ad ‘un lavoro che, per diventare più redditizio, funziona appunto 24/7. […] Altre necessità primarie della vita umana come la fame, la sete, il sesso, sono state mercificate, il sonno, no. Grazie alla sua natura, esso resta libero dal giogo del profitto. Dal sonno il capitale non può estrarre nulla che si possa considerare di valore. Per questo gli ha dichiarato guerra, erodendo a poco a poco il tempo che gli può essere dedicato» (M. Virgilio, 35-36).

– l’estensione del pensiero unico sin nei gangli della coscienza individuale e dei corpi collettivi. È questo lo strumento più potente e più pericoloso, in quanto «per la specie umana, i nudi fatti sono in sé sprovvisti di senso. L’uomo è un animale ermeneutico, che cioè ha bisogno di interpretare i fatti in funzione di una griglia che possa conferir loro un senso» (de Benoist, 5), l’uomo è un dispositivo semantico.

La cultura, le letteratura, l’arte, la filosofia costituiscono gli antidoti più forti a questa regressione dei Corpi sociali verso la servitù volontaria. Alcuni miti mantengono la loro carica sovversiva ed emancipatrice a distanza di secoli e millenni. Uno di questi è Don Giovanni, letto da Roberto Escobar in una interessante chiave temporale. L’attitudine di Don Juan lascia infatti «intravedere una concezione del tempo vissuto nella umana libertà effimera dell’esserci, in cui si colgono addirittura echi heideggeriani ante litteram. Così è il Convitato di Pietra a dover lamentare ‘più tempo non ho’, riconoscendo indirettamente che non ne ha mai avuto, avendo barattato questo e la sua libertà con quella che a Don Giovanni appare come l’ingannevole promessa dell’eternità» (G. Del Ninno, 37). Don Giovanni non è soltanto un seduttore, un libertino, un amorale. È una figura della resistenza al Grande Altro. Invece che darne una lettura banalizzante, bisogna «piuttosto, cedere all’invidia e all’ammirazione» (Id., 38).

Opporre dunque al mito dell’autorità il mito altrettanto potente della libertà. E allora si può condividere la fiducia, nonostante tutto, di de Benoist sui limiti del potere contemporaneo: «La classe dominante vive al di fuori del terreno, in un universo fittizio di cui ha fatto un prolungamento di se stessa. Nega la realtà per non ‘fare il gioco’ di coloro che vogliono tenere gli occhi aperti. Tutto questo è in pura perdita. La banchisa ha iniziato a fondere e le dighe ad incrinarsi. Nessuno ci crede più» (10).

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