Heinrich Ignaz Franz Biber (1644-1704)
Sonata in Sol minore (G-Moll)
Tromba: Reinhold Friedrich
Brano su YouTube – durata 6.18
Brano su Spotify
La tromba è strumento barocco per eccellenza; ne esprime insieme la potenza e la malinconia, come una distanza dalla gloria, che però è sempre pronta a invadere lo spazio della mente e della vita.
Invito a leggere questa pagina narrativa al ritmo di vittoria che da tale musica si leva.
======
No, ribadiva a se stesso, non voglio più tristezze intorno a me. Il tempo che mi rimane nella storia è ormai assai più corto rispetto a quello che ho vissuto sino a ora. Desidero camminare sereno nelle strade.
Non era l’unica, Inca, a esser stata folle e feroce. Anche lei lo era, nello squadernato candore con il quale lo braccava ogni volta che aveva bisogno e col passare degli anni soltanto nel bisogno. Un egoismo assoluto la intrideva. Lui non glielo rimproverava di sicuro. Sapeva che dagli umani altro non è possibile trarre, che ciascuno si rinchiude nelle stanze della propria solitudine e da questo castello alto e desolato cerca di amministrare i feudi della disperazione. Però però lo infastidiva che non gli chiedesse mai, proprio mai, come stesse lui, che cosa sentiva e nutriva, quali fatti lo rendessero lieto o triste, se gli eventi gli dessero carezze o botte. Niente. Col tempo sembrava che ai suoi occhi fosse diventato una specie di macchina d’amore, di consigli, di tenerezza, di compagnia, di soluzioni. Un dispositivo senza cuore e senza bisogni, che si accendeva e spegneva col semplice click della voce di lei. Un oggetto di domotica insomma -quell’ambigua utopia che vorrebbe le case degli umani aprirsi da sole alle esigenze dei loro abitanti- e non un umano. Vabbè, così era fatta. Prendere o lasciare. E aveva lasciato.
Ma ce ne aveva messo di tempo a porre tra il corpo suo e quello di lei i fiumi dell’oblio, le mura del silenzio, la forza del niente. Quando, però, aveva sentito avvicinarsi il balsamo di una divina indifferenza, ah che momenti d’oro erano stati! Come l’insperato aprirsi a un detenuto delle porte, sbriciolarsi il carcere, riavere orbo la vista, alzarsi dal letto di dolore. Rinascere. Ma non aveva infilato subito la porta, no. Una simile grazia va gustata come vino da meditazione, assaporandone con la lingua ogni sinestesia, ogni diventare reale di quanto sino al giorno prima era impensabile. Che poi era banalmente questo: lei non c’è e io sono contento, lei tace e io penso, lei non immagina e io so. Come uno gnostico verso gli ilici. Così sentiva il cuore gonfiarsi di futuro e la mente aprirsi alla luce.
Lontano lontano da quella tenebra sottile che la compagnia di lei gli era diventata. Lontano dalle turpi gelosie e dalle speranze vane. Lontano dalla dolcezza inquieta e dalle infinite attese. Lontano dal sesso e dal sentimento. Lontano dal giudizio senza fine e dal timore di spiacerle. Lontano da un mondo intimo e straniero. Lontano dagli equivoci e dalle parole interrotte. Lontano dalla misericordia immensa e dalla vendetta sicura. Lontano dall’abbandono senza fine, dall’eterno ritorno del no. Lontano dalla servitù e dalla galanteria. Lontano dai silenzi stoici e dalle parole vuote. Lontano dall’ardore e dalla disperazione. Lontano dal gelo e dalla fiamma, lontano dalle ustioni. Lontano dal velo sulla mente e dallo slancio ferito. Lontano dalle lacrime. Nella gloria.