«Ecuba infelicissima dov’è?»1 chiede un’ancella che alla regina deve dare l’ennesima notizia di sciagura. Andata a raccogliere acqua per detergere il cadavere di Polissena, sgozzata dagli Achei sulla tomba di Achille, l’ancella ha trovato sulla spiaggia i resti di Polidoro, il più giovane dei figli di Ecuba, affidato al re dei Traci, amico dei Troiani, e da questi ucciso alla notizia che Ilio era caduta. L’unica soddisfazione di Ecuba è la vendetta contro Polimestore, che l’ha tradita uccidendole il figlio e rubandole l’oro. Al traditore Ecuba uccide i figli e toglie gli occhi, e poi proclama -antica- «E non dovrei godere di punirti?» (414).
L’onda del mare che purifica, l’onda del mare che porta altri morti, è la metafora dell’incessante distruzione che segna la vita umana e la sua storia. In questa tragedia «i morti si accumulano, ritornano in forma di fantasmi e di cadaveri, cadono con la bellezza delle statue a riempire un mondo senza dèi, a sostituirne i simulacri, a dare figura all’estrema logica del dominio, della repressione e della ribellione» (Anna Beltrametti, p. 376).
La vicenda comincia infatti con uno spettro, con Polidoro che appare in sogno alla madre sopra la tenda di Agamennone e dice: Ἥκω νεκρῶν κευθμῶνα καὶ σκότου πύλας / λιπών, ἵν᾽ Ἅιδης χωρὶς ᾤκισται θεῶν», ‘Vengo da porte d’ombra, dai recessi dei morti, dove l’Ade ha la sua reggia remota’ (vv. 1-2, p. 379). Al flusso di notizie su notizie, di distruzioni sopra distruzioni, del sacrificio di Polissena mentre Troia decade e si inabissa, Ecuba dichiara, sussurra, grida: «έθνηκ᾽ ἔγωγε πρὶν θανεῖν κακῶν ὕπο», ‘io sono morta prima di morire’ (v. 431; p. 391). Mentre Ilio brucia e le sue donne sono destinate alla servitù tra i Greci, il Coro apre la vicenda agli spazi naturali e politici: «λιποῦσ᾽ Ἀσίαν, / Εὐρώπας θεραπνᾶν ἀλλά- / ξασ᾽ Ἅιδα θαλάμους», ‘Non più l’Asia per me: / in cambio c’è l’Europa, / il regno dei morti’, la terra dell’occaso (vv. 481-483; p. 392). Il morire degli umani è trasformato in elemento cosmico, geografico, assoluto.
Di fronte a simile sciagura, persino Taltibio -araldo acheo- si chiede «ὦ Ζεῦ, τί λέξω; πότερά σ᾽ ἀνθρώπους ὁρᾶν; / ἢ δόξαν ἄλλως τήνδε κεκτῆσθαι μάτην, / ψευδῆ, δοκοῦντας δαιμόνων εἶναι γένος / τύχην δὲ πάντα τἀν βροτοῖς ἐπισκοπεῖν;», ‘Zeus, devo dire che li vedi, gli uomini, o piuttosto che questa è una leggenda e che chi veglia sui mortali è il caso?’ (vv. 488-491; pp. 392-393).
Tύχη, il Caso, è l’altro nome di Ἀνάγκη, la Necessità. Questa duplice potenza domina sia il nostro universo -Kόσμος- sia l’intero -τὸ πάν- del quale il nostro ordine è una parte. La vicenda di Ilio si mostra ancora una volta metafisica.
1. Euripide, Ecuba (Ἑκάβη), in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 396.