Skip to content


La terra invisibile

«Mεσομφάλοις Πυθικοῖς; l’oracolo pizio che sta al centro del mondo»1 ha decretato da tempi remoti la rovina della casa di Laio, di Edipo, dei suoi figli tutti. Per condurre a compimento il proprio decreto, Apollo -«φιλεῖ δὲ σιγᾶν ἢ λέγειν τὰ καίρια; il dio che ama tacere o dire parole opportune» (v. 619, p. 158)- si serve anche della maledizione che Edipo ha scagliato su Eteocle e Polinice, suoi figli e insieme fratelli, suoi eredi senza cura verso il padre. Dopo che Eteocle è venuto meno al patto di alternanza sul trono di Tebe, Polinice muove guerra a Tebe, la città che da se stessa, dalla terra, ha generato gli abitanti/guerrieri. In essa si muovono dunque le forze telluriche più fonde, immortali e potenti: le Erinni, la Moira. Le quali hanno stabilito che sette argivi combatteranno contro sette cadmei. Sei difensori della città sconfiggeranno i suoi assalitori e Tebe sarà salva ma alla settima porta i due fratelli fatali saranno l’uno per l’altro τεθηγμένον, una lama affilata (v. 715, p. 164) che toglierà loro la luce, conducendoli «νύκτερον τέλος; al termine della notte» (v. 367, p. 140), trascinandoli «ἐν ῥοθίοις φορεῖται; nel flusso del niente» (v. 362).
Il niente è uno dei veri e universali argomenti di questa tragedia scandita come un teorema; nel cui titolo compare un numero; nella cui struttura compare la Furia; nel cui andamento compare Ἀνάγκη, l’inevitabile, la necessità, la morte.
«θεῶν διδόντων οὐκ ἂν ἐκφύγοις κακά; quando gli dèi vogliono donarci sciagure, non c’è chi possa sfuggirvi» (v. 719, p. 166) ed è chiaro che la prima sciagura, condizione di tutte le altre, è nascere, è abbandonare il nulla privo di ogni pena, dolore, pianto. È proprio vero che «il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici» (Nietzsche, La nascita della tragedia, in «Opere», Adelphi 1972, vol. III/1, trad. di S. Giametta, p. 32) e al di là degli Olimpi conobbe un dio ancora più enigmatico e potente, un dio che è l’estremo della vita ed è insieme il confine del niente: «ωὑτὸς δὲ Ἀίδης καὶ Διόνυσος; lo stesso sono Ade e Dioniso» (Eraclito, detto 151 [Mouraviev], DK B 15 [Diels-Kranz]).
Ade del quale il finale non interpolato dei Sette contro Tebe, il finale autentico, costituisce un integrale e necessario trionfo:

πί τυλον, ὃς αἰὲν δι᾽ Ἀχέροντ᾽ ἀμείβεται,
[τὰν] ἄνοστον  μελάγκροκον
ναυστολῶν  θεωρίδα
τὰν ἀστιβῆ Παιῶνι, τὰν ἀνάλιον
πάνδοκον εἰς ἀφανῆ τε χέρσον.

Il colpo del remo che spinge, che sempre trasporta
                                                                          [per L’Acheronte
[la] processione senza ritorno,
il corteo velato di nero,
verso la sponda deserta di sole, dove Apollo non posa
                                                                          [il suo passo
verso la terra invisibile, che in sé tutto accoglie.
(vv. 856-860, p. 176).

Così commenta Monica Centanni: «‘Invisibile’ è la terra dell’Ade, contro la visibilità assoluta del dio della luce» (p. 845). A questa luce, a tale quia, è legato il filo della nostra vita, filo fenomenologico che tesse i pensieri invisibili con la forza della materia visibile. Prima che Àtropo ci restituisca all’intero.


Nota

1. Eschilo, Sette contro Tebe (Ἑπτὰ ἐπὶ Θήβας, 467 a.e.v.), verso 747, p. 168, in Le tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori, Milano 20133, pagine LXXXII-1245. Le successive citazioni saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti da quelli della pagina dell’edizione Centanni/Meridiani.

Il nomos della terra

La distruzione della flotta persiana a Salamina da parte degli Elleni è dovuta alla ὕβρiς di Serse, dimentico del nomos terrestre, della prudenza con la quale suo padre Dario aveva rinunciato al tentativo di domare il Bosforo per sottomettere l’Europa all’Asia. Una prudente sapienza che nasceva dal rispetto per «θεόθεν γὰρ κατὰ Μοῖρ᾽ ἐκράτησεν / τὸ παλαιόν; un destino che forte vigeva in antico»1 e che i mortali, tutti, debbono sempre avere davanti nel loro scosceso cammino dentro il morire che si chiama vita. Ate, infatti, «βροτὸν εἰς ἄρκυας Ἄτα, / τόθεν οὐκ ἔστιν ὕπερ θνατον ἐξαλύξαι φυγειν; spinge il mortale dentro la rete ben tesa: da là all’uomo è preclusa ogni fuga, ogni scampo» (vv. 99-100, pp. 22-23).
Storica è dunque la prima tragedia che ci sia rimasta dei Greci? Sì, a condizione di non intendere la storia soltanto come un insieme di avvenimenti accaduti e narrati. La storia dei Persiani è infatti costruita su una antropologia sacra, su una teologia che riconosce al di là di ogni volontà umana (volontà che è una delle maggiori illusioni della cultura venuta dopo i Greci e i Romani) la presenza e la potenza di Ἀνάγκη: «ὅμως δ᾽ ἀνάγκη πημονὰς βροτοῖς φέρειν / θεῶν διδόντων; Necessità [che] costringe i mortali a sopportare sciagure» (vv. 293-294, pp. 36-37).
Ἀνάγκη che salva sempre «πόλιν Παλλάδος θεᾶς; la città della Pallade dea!» (v. 347, p. 40-41) e rispetta coloro che fanno di sé un modo di σωφροσύνη, una forma della misura dolente dell’esserci, evitando per quanto possibile la ὕβρις della quale il persiano Serse è una incarnazione evidente, plastica sino alla disperazione. Contro la tracotanza dissacrante del proprio figlio, il fantasma di Dario pronuncia parole che sono greche sino al midollo, lui che è uno dei più grandi sovrani tra i barbari. L’ironia della tragedia, in particolare di questa tragedia, sta anche nel parlare dei barbari così vicino -identico- alla Stimmung dei Greci.
Sentiamolo dunque questo fantasma di saggezza e di canto: «ὡς οὐχ ὑπέρφευ θνητὸν ὄντα χρὴ φρονεῖν. / ὕβρις γὰρ ἐξανθοῦσ᾽  ἐκάρπωσεν στάχυν / ἄτης; non deve chi è mortale esser troppo superbo. La superbia dopo il fiore dà frutto: ed è spiga di rovina da cui si miete messe di pianto» (vv. 820-822, pp. 72-73). Da barbaro sapiente, da greco, Dario esorta tuttavia i suoi antichi sudditi, che vede prostrati sino a un pianto che sembra non conoscere fine; li invita a gustare ancora il frutto di gioia che ogni giorno può aprire agli eventi: «ὑμεῖς δέ, πρέσβεις,  χαίρετ᾽, ἐν κακοῖς ὅμως / ψυχῇ διδόντες ἡδονὴν καθ᾽  ἡμέραν, / ὡς τοῖς θανοῦσι πλοῦτος οὐδὲν ὠφελεῖ; E voi, vecchi, fatevi animo: anche nella sventura dovete concedere al vostro cuore un po’ di gioia ogni giorno. Questo serve, e non altra ricchezza, a chi è destinato alla morte!» (vv. 840-842, pp. 74-75).
I Greci i quali «οὔτινος δοῦλοι κέκληνται φωτὸς οὐδ᾽ ὑπήκοοι; si vantano di non essere schiavi di nessun uomo, sudditi di nessuno» (v. 242, pp. 32-33) hanno ridotto il Grande Re, il Padrone dei persiani, il Signore dell’Asia, alla condizione di uno straccione che con vesti lacere si presenta e non parla, grida soltanto, canta la propria definitiva sciagura mentre ad attenderlo «κακοφάτιδα βοάν, κακομέλετον ἰὰν; è un urlo di morte, un canto di sciagura» (v. 936, pp. 78-79).
Questo avvenne venticinque secoli fa e tali eventi hanno per millenni garantito l’Europa dalla forma totalitaria della politica. Sino a quando al culmine della modernità che non crede nella sacralità del mondo e della materia si è installata e continua a dominare la ὕβρις. Ma tutto si paga, anche nella forma di un minuscolo virus.

 

Nota
1. Eschilo, Persiani (Πέρσαι, 472 a.e.v.), versi 102-103, pagine 20-21, in Le tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori, Milano 20133, pagine LXXXII-1245.
Le successive citazioni saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti da quelli della pagina dell’edizione Centanni/Meridiani.

Erinni / Apollo

In Oreste (Ὀρέστης) si intrecciano e giungono a sintesi  le vicende del mito umano presso i Greci. Dopo aver ucciso la madre Clitemnestra, infatti, Oreste -che sembra ridotto a un cadavere- dice d’essere assalito dalle Furie, «tre vergini nere come la notte», al che Menelao gli risponde con parole assai significative: «So di chi parli, non le voglio nominare», e Oreste conferma «E fai bene: le avvolge un sacro orrore»1.
Vittima delle Erinni, Oreste non ha imparato comunque la misura. Condannato a morte dalla città di Argo, trama con la sorella Elettra e l’amico Pilade vendetta contro Menelao, poiché non lo difende e non lo aiuta. Morirà, se così è scritto, ma prima vuole uccidergli la moglie Elena, appena tornata da Troia, e prendere in ostaggio la figlia Ermione.
L’antica lotta tra i due fratelli Atreo e Tieste (Atreo massacrò i figli di Tieste e poi li imbandì dandoli in pasto al loro padre), dai quali tutti costoro discendono, non è dunque finita e si riverbera ancora in altro sangue, in altre violenze. Oreste ed Elettra non esitano ad attribuire a un dio, ad Apollo, tali sciagure: «Ingiusto, ingiuste voci parlò / Febo dal tripode: con disumana / mano la madre disse d’uccidere» (870); «Uccidendo mia madre, ho dato retta a lui. È lui che voi dovete giudicare empio e sopprimere. La colpa è sua, non mia» (886). Evidentemente i Greci avevano anche il coraggio di accusare i loro dèi, senza crederli ‘buoni’.
Chiunque parli, che siano figli di Zeus o schiavi troiani, tutti si aggrappano alla luce del Sole, vogliono ancora vivere. Profonda e vera è la tesi di Nietzsche secondo la quale nessuno come i Greci ama la vita; di fronte al dolore e all’orrore in cui l’esistere consiste, il Greco «per poter comunque vivere, dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici»2.
Splendore che sta sullo sfondo della tragedia attica e dà senso anche alla festa selvaggia del rancore, della vendetta, dell’omicidio. Oreste ed Elettra, i matricidi, rappresentano in modo plastico una violenza che non pone limiti a se stessa e anzi gioisce di ogni proprio evento. Oreste è quasi ebbro nel prefigurare «la felicità, per noi: se una salvezza insperata da chissà dove ci toccasse –  dare la morte e non morire» (906). Sentendo le urla di Elena, Elettra grida «φονεύετε, καίνετε, ὄλλυτε», «Morte, sterminio, rovina!» (vv. 1302-1303, p. 911). Davvero, commenta il Coro, «la sorte umana, regola / arbitro un dèmone» (920). È un dio, invece, a parlare di pace, a imporre la pace, «la dea più bella di tutti gli dèi» (927).
Perché dunque gli dèi permettono, organizzano, assistono, vogliono la guerra tra gli umani? La spiegazione che qui, come altrove, formula Apollo è semplicemente meravigliosa, una spiegazione ecologica, antropodecentrata, universale, valida nel mito come nel presente:
«ἐπεὶ θεοὶ τῷ τῆσδε καλλιστεύματι / Ἕλληνας εἰς ἓν καὶ Φρύγας συνήγαγον, / θανάτους τ᾽ ἔθηκαν, ὡς ἀπαντλοῖεν χθονὸς / ὕβρισμα θνητῶν ἀφθόνου πληρώματος», «Gli dèi per la bellezza di costei spinsero gli uni contro gli altri i Greci e i Frigi, e tante morti vollero, per sgravare la terra dall’insolenza d’una ciurma d’uomini sterminata» (vv. 1639-1642, p. 925).

Note
1. Euripide, Oreste (Ὀρέστης) in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 878.
2 Nietzsche, La nascita della tragedia, in «Opere», Adelphi, vol. III/1, p. 32.

 

Ifigenia

A purificare Oreste dal matricidio non è bastata la furia delle Erinni, non la potenza di Atena che le trasformò in Eumenidi, non la sentenza a suo favore che ad Atene diede inizio alla giustizia umana. Non è bastato tutto questo. Apollo ordina ancora a Oreste di trafugare dalla Tauride la statua della sorella Artemide, condurla in Attica, renderle culto. E allora sarà puro.
Va Oreste con il fidato Pilade, attraversa il mare e le Simplegadi ma viene catturato dai locali, la cui usanza è di sacrificare ad Artemide gli stranieri che giungono alle rive. A officiare il rito di sangue in onore di Artemide è Ifigenia, figlia di Agamennone, sorella di Oreste e molto altro, come lei stessa canta all’inizio della storia: «Si recò a Pisa Pelope di Tantalo su cavalli veloci; ivi sposò la figliola d’Enomao, da cui nacque Atreo: figlioli d’Atreo, Menelao e Agamennone, questi fu mio padre. Io sono Ifigenia; mia madre fu la figliola di Tindaro. Sui gorghi dove l’Euripo smuove ai fitti venti cupi marosi, mio padre, per causa d’Elena, mi scannò (lo crede, almeno) ad Artemide, là nella vallata tanto famosa d’Aulide»1.
Lo credette, Agamennone, insieme a tutti i Greci. E invece Artemide salvò la ragazza, sostituendola con una cerva2. Allo stesso modo Menelao e tutti i Greci credettero Elena in fuga con Alessandro Paride verso Troia, quando invece -per volontà di Era–  fu un εἴδωλον ad abitare le case d’Ilio.
Inganno è la vita umana, inganno è questo costruzionismo che ci spinge a credere ciò che più temiamo o più desideriamo (wishful thinking) e ci porta ogni volta alla deriva contro i muri del reale.
Catturati in Tauride, Oreste e Pilade stanno per essere sacrificati quando Ifigenia si rende conto che questi stranieri le potranno essere utili se porteranno ad Argo notizia che lei è ancora viva. Propone quindi loro di recapitare una lettera e in cambio lei li salverà. L’intreccio si dipana sino all’inevitabile riconoscimento di fratello e sorella, alla macchinazione per fuggire e condurre ad Atene la statua della dea dei boschi, all’inganno ben riuscito verso il re Toante, all’ira di costui, alla calma che gli impone infine Atena.
Un trastullo in mano al bimbo cosmico è davvero l’esistenza umana –«αἰὼν παῖς ἐστι παίζων πεσσεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη» (Eraclito, detto 52)–  nel racconto dei poeti e nel divenire della storia.
Secondo Euripide in questo gioco i Greci sono spesso infidi o feroci: a Toante che le dice «tanta acutezza la devi alla Grecia!», Ifigenia risponde con un (auto)ironico «non fidarti mai dei Greci» (515-516); le donne tramano inganni; i sentimenti suonano e di continuo mutano nelle diverse note della tastiera interiore che noi siamo: «E mutare, il peggio, per chi / era felice: per gli uomini / questo è il peso più grave» (512). Versi che il cristiano Alighieri, innamorato della sapienza antica, tradusse in questo modo: ««Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria» (Inferno, V, 121-123).
Ma quando dalla miseria, dal gorgo della fine, dalla disperazione, si apre la luce di eventi impensati e redentori, ‘nessun maggior gaudio che ricordarsi del tempo sofferto nella vittoria’. Ifigenia è anche questa gioia.

Note
1. Euripide, Ifigenia in Tauride (Ἰφιγένεια ἐν Ταύροις), in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 445.
2 Una inquietante ripresa del mito è quella che dà il titolo al film di Yorgos Lanthimos Il sacrificio del cervo sacro (2017).

Determinismo

Ἡρακλῆς μαινόμενος -Eracle furioso, Eracle impazzito– è il titolo completo di una tragedia di Euripide. C’è sempre infatti un dio che non tollera il trionfo di un umano, qualunque ne sia la ragione. O intrinseca: Eracle è figlio di uno dei tanti amori umani di Zeus ed Era non lo sopporta; o data da eventi che scatenano l’invidia: Eracle riesce a tornare dall’Ade e a salvare i figli e la moglie da morte imminente e sicura. Quei figli e quella sposa ai quali, impazzito, sarà lui stesso a dare la morte dalla quale li aveva salvati.
Un’inemendabile violenza percorre la vicenda di Eracle dalla sua nascita e ancor prima. Una violenza che si esprime come giusta vendetta poiché, lo afferma più volte Anfitrione, «un gusto c’è nella morte d’un uomo nemico che paga il fio delle colpe commesse»1 ed è naturale «τοῖς φίλοις τ᾽ εἶναι φίλον  / τά τ᾽ ἐχθρὰ μισεῖν: ἀλλὰ μὴ ‘πείγου λίαν», «essere amico ai cari e odiare i tuoi nemici» (vv. 585-586, p. 827). In questa naturalità della vendetta, i Greci erano tuttavia assai più etici di noi, dei moderni. Teseo dà infatti per scontato che «i ragazzi non sono mai coinvolti da una guerra: è chiaro che si tratta di ben altro» (847). Nelle guerre del Novecento e del XXI secolo, invece, i bambini sono coinvolti totalmente. Chi è più crudele? Noi o loro?
Eracle è il più grande degli eroi, le sue imprese vanno al di là dell’umano e del possibile. E tuttavia viene annientato come uno qualsiasi dei figli dell’uomo, viene colpito negli affetti più fondi, nell’onore, nella saggezza. In quale altro modo mai i Greci potevano esprimere la loro sapienza? Che si tratti dell’intervento di un dio, di τύχη-Caso o di Ἀνάγκη-Necessità, l’esito è l’Inevitabile che sta scritto nei gangli stessi della materia, nelle cellule della vita, nell’intrico degli eventi in cui «ἐξίσταται γὰρ πάντ᾽ ἀπ᾽ ἀλλήλων δίχα», «tutto si muta con vicenda alterna» (v. 104, p. 813), nel divenire, nel tempo. Il determinismo è, semplicemente, la verità del mondo. Anche chi lo nega fa parte di tale necessità. È questa la convinzione dei due filosofi più greci che dopo i Greci ci siano stati: Spinoza e Nietzsche.
Eracle è il testo dove necessità e determinismo sconfiggono ogni umano e ogni divino andare. Nessuno vi si oppone poiché nessuno si può opporre: «ὃ χρὴ γὰρ οὐδεὶς μὴ χρεὼν θήσει ποτέ», «nessun uomo potrà mai fare in modo che ciò che deve non debba accadere» (v. 311, p. 818); «non c’è nessuno che sfugga alla sorte, non un mortale, non un dio, se è vero quanto si legge nei poeti» (852). La prima affermazione è di Megara -sposa di Eracle–, la seconda è di Teseo, il suo più che fraterno amico. Tradotto in siciliano: «A ccu è distinato di  moriri o scuru, ammatula cci menti l’ogghiu lantirnatu».
Pagina magnifica di questo capolavoro è il racconto dettagliato, accorato, terribile e inevitabile che il Nunzio formula della follia di Eracle e dei suoi effetti (vv. 922-1015, pp. 839-841). Una descrizione perfetta nella varietà dei toni,  nella sintesi, nella concitazione, nella distanza e nel moto. Una descrizione degli eventi che conducono Eracle a esclamare, ormai distrutto, «φεῦ: / αὐτοῦ γενοίμην πέτρος ἀμνήμων κακῶν», «Ah! Diventare un sasso…smemorare!» (v. 1397; p. 854). Come di tanto in tanto dico ai miei studenti, un sasso è entità più consona di qualunque vivente, un sasso è libero da ogni immaginabile soffrire. È dai Greci che ho imparato anche questa sapienza.

1. Euripide, Eracle (Ἡρακλῆς μαινόμενος), in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 832. La tragedia fu messa in scena nel 2018 da Emma Dante al Teatro greco di Siracusa.

Lupi

Anche se nata in ambiente euripideo, Reso è una tragedia quasi certamente non autentica. La sua lettura mostra in modo plastico la differenza tra uno scrittore di tragedie -molti ce ne furono– e Euripide. Manca infatti di ricchezza teoretica, di penetrazione nella psiche degli umani, di splendore teologico.
E tuttavia è un testo di interesse per gli archetipi antropologici che lo intessono. La trama è tratta dal decimo canto dell’Iliade. La prima parte narra della spedizione del troiano Dolone come spia nel campo greco. Ettore pensa infatti che gli Achei stiano per tornare alle loro terre, dopo la strage da lui compiuta degli eroi greci. Dolone però viene catturato e rivela la parola d’ordine per infiltrarsi nel campo frigio. Odisseo e Diomede approfittano di questa circostanza, entrano nel campo nemico e uccidono Reso, re dei Traci appena arrivato in aiuto dei Troiani. Reso è tuttavia figlio di un fiume e della Musa; per questo non scenderà nell’Ade «ma, nascosto negli antri della terra che celano l’argento, uomo-dio, giacerà morto e avrà vita, alla stregua del profeta di Bacco che dimora nella rupe Pangea»1.
La tragedia mescola due archetipi.
Il primo è quello dell’uomo-lupo nel quale Dolone si traveste, una vestizione che viene descritta con molti dettagli che la ricerca antropologica ha confermato. In quasi tutte le culture conosciute, infatti, il lupo mannaro è simbolo di forza, astuzia, contaminazione profonda tra l’animalità umana e l’animalità ferina. Tra i testi a questo proposito più controversi ma anche suggestivi c’è un libro del 1951, da poco tradotto in italiano: Uomo diventa lupo. Un’interpretazione antropologica di sadismo, masochismo e licantropia, di Robert Eisler. L’Autore argomenta a favore della natura pacifica e frugivora dell’Homo sapiens, la cui alimentazione carnea sarebbe nata sostanzialmente da pressioni ambientali -la fame generata da modifiche climatiche– e dall’imitazione dei comportamenti di altri mammiferi, soprattutto i lupi.
L’altro archetipo è quello solare e dionisiaco, di cui è figura Reso, emblema di regalità orientale, splendente, luminosa, destinato a essere profeta di Dioniso.
Tutto questo viene descritto e narrato in schemi troppo rigidi ed elementari. Due verità comunque vi compaiono, a sancire l’appartenenza all’Ellade. Atena, giunta ancora una volta in aiuto a Odisseo, dichiara che «οὐκ ἂν δύναιο τοῦ πεπρωμένου πλέον», «oltre il destino non si va» (v. 634, p. 1028); la Musa, compiangendo la morte di Reso, afferma che «creare figli, che sventura e quale affanno per i mortali! Chi ci pensa bene, vivrà senza prole» (p. 1039). Esatto.

1. Euripide, Reso (Ῥῆσος), in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 1039.

Euripide a Siracusa

Conversando con Eckermann il 28 marzo del 1827 Goethe affermò che «wenn ein moderner Mensch wie Schlegel an einem so großen Alten Fehler zu rügen hätte, so sollte es billig nicht anders geschehen als auf den Knien», ‘se un moderno come Schlegel avesse da rimproverare un così grande antico per qualche errore, gli dovrebbe essere consentito farlo soltanto in ginocchio’ (J.P. Eckermann, Gespräche mit Goethe). Il ‘großen Alten’ al quale Goethe si riferisce è Euripide.
Sul numero 19 (luglio 2019) di Vita pensata ho raccolto le riflessioni che avevo pubblicato qui a proposito delle due tragedie euripidee messe in scena quest’anno a Siracusa –Elena e Troiane-, inserendole in un quadro più ampio e cercando di far emergere anche la componente orfico-gnostica di questo immenso drammaturgo.

Vai alla barra degli strumenti