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La donna di un tempo

Teatro Libero – Milano
(Die Frau von früher, 2004)
di Roland Schimmelpfennig
Con: Corrado d’Elia, Alice Arcuri, Monica Faggiani, Laura Ferrari, Marco Taddei
Regia di Sergio Maifredi
Sino al 18 luglio 2009

Frank e Claudia stanno per lasciare la loro casa e trasferirsi lontano. Bussa alla porta Romy, conosciuta da Frank da ragazzo -ventiquattro anni prima- e da allora mai più rivista. Romy gli ricorda la promessa di eterno amore e reclama Frank tutto per sé. Lasciata fuori di casa, la donna viene colpita con un sasso scagliato da Andreas, figlio dei due. Temendo di averla uccisa, il ragazzo la riporta dentro. Né lui né i suoi genitori partiranno.

Personaggi che si muovono a scatti, che parlano a blocchi; l’azione descritta da una voce narrante e costruita su dei rewind-forward, sull’andare avanti e indietro nelle ventiquattro ore in cui si svolge il dramma. Un Corrado d’Elia capace di restituire per intero la natura vuota e meccanica di Frank; le attrici isteriche, dolci e implacabili. Riferimenti al teatro greco, a Medea, alle Trachinie, al coro che scandisce. E soprattutto la capacità di entrare a fondo nei rapporti umani, nella consustanzialità del tempo e della morte, dei quali la comparsa di Romy è figura. Il grottesco inseparabile dal tragico. La tragedia amnesica dell’esistere.

I Greci e l’Irrazionale

di Eric R. Dodds
(The Greek and the Irrational, 1950)
Trad. di Virginia Vacca De Bosis
La Nuova Italia, Firenze 1978
Pagine XIII-387

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«Un semplice professore di greco» (p. 314), così si definisce Eric R. Dodds (1893-1979). Ma questo suo libro ha contribuito a modificare a fondo l’immagine edulcorata e neoclassica della Grecità. Se i Greci pervennero alla ricchezza di risultati, alla molteplicità di prospettive, al rigore razionalistico che stanno a fondamento della cultura europea, fu anche perché non ebbero timore di scorgere nell’umano la tenebra.
«I Greci avevano sempre sentito l’esperienza delle passioni come un fatto misterioso e pauroso in cui sperimentiamo una forza che è in noi, e che ci possiede, anziché venir posseduta da noi» (222). Questa ipotesi guida l’itinerario di Dodds dall’VIII secolo al II d.C. Nei poemi omerici l’ate si impadronisce della mente, annebbia la coscienza, rende temporaneamente folli. Si tratta quindi di una forza esterna e oggettiva, che si inscrive in una civiltà di vergogna per la quale ciò che conta non è la buona o la cattiva coscienza del soggetto ma il godere o meno della pubblica stima. Con l’irrompere della tragedia, invece, quella greca si trasforma in una civiltà di colpa, nella quale spira -specialmente in Eschilo– «un’atmosfera oppressiva, popolata di spettri», di angosce, di indicibili colpe (55). Tale civiltà trova ulteriore espressione nel mito dei Titani, in fenomeni come lo sciamanesimo, nella credenza in premi o in castighi post mortem, nella paura dei corpi. In questo modo, e prima dell’Ellenismo, si sarebbe sviluppata una dottrina della colpa: «Il mito dei Titani spiegava in modo soddisfacente ai puritani greci perché si sentissero contemporaneamente dèi e criminali; il senso “apollineo” del distacco dal divino, e quello “dionisiaco” di identificazione con la divinità, erano ambedue spiegati e ambedue giustificati» (208-209).

Il tentativo di reagire a un quadro così incontrollabile non ebbe inizio secondo Dodds con la Sofistica ma assai prima, con le origini stesse della filosofia nella Ionia. Dai pensatori greci arcaici prenderebbe avvio il razionalismo dell’età classica, del quale Platone rappresenta la più complessa e controversa manifestazione. Dodds scrive un vero e proprio saggio su di lui. Platone sarebbe sempre rimasto un autentico figlio di Socrate e dell’Illuminismo ellenico. Tuttavia la progressiva indipendenza dal maestro, la morte stessa di Socrate, gli eventi politici ai quali partecipò, indussero Platone a operare sul tronco del razionalismo «un fecondo innesto delle idee magico-religiose che hanno remota origine nella civiltà sciamanistica settentrionale» (245-246). Dodds giunge ad affermare che i tanto controversi Custodi della Repubblica sarebbero «una specie nuova di sciamani razionalizzati» (248). Nel pensiero platonico pulsa dunque una duplice e contraddittoria spinta: da un lato la fiducia nella ragione umana propria del V secolo, dall’altro la disincantata e amara consapevolezza di che cosa sia l’umano e di quanto poco esso valga.

Mentre Platone e anche Aristotele erano consapevoli della, per dir così, rarità della ragione e della necessità di comprendere i fattori irrazionali del comportamento, filosofi come Epicuro e gli Stoici vollero invece eliminare il nocciolo duro della prassi e, in ciò necessariamente fallendo, aprirono la strada a ogni sorta di pensiero della salvezza, a riti e culti lontani dalla mediazione razionale. L’analisi di Dodds si chiude proprio con l’invito a tener conto del cavallo (le tendenze più nascoste) per conoscere meglio le possibilità e i limiti del cavaliere (la razionalità). Solo così si potrà «affrontare il salto decisivo» oltre ogni chiusura, paura, fanatismo «e saltare felicemente» (316).

Il libro costituisce anche una messa alla prova filologica della Nascita della tragedia. Dodds cita Nietzsche soltanto una volta (molto più di frequente, invece, Rohde) ma fra i due libri vi è un legame inevitabile, che si esprime, tra l’altro, in due tesi care a Nietzsche e qui ribadite e argomentate con un apparato filologico più agguerrito.
La prima sostiene che «il senso schiacciante dell’ignoranza umana, dell’assenza di sicurezza in cui vivono gli uomini, la paura del phthonos [invidia] divino, la paura del miasma [contaminazione]» sarebbero stati intollerabili «se un divino consigliere onnisciente non avesse garantito ai Greci, dietro il caos apparente, l’esistenza di una sapienza e di una finalità» (100). Apollo, il dio solare, nasce da tale abisso di angoscia, dalla densità di questa paura.
In un’altra pagina Dodds rileva quanto spesso il razionalismo si mostri miope col non tener conto che anche quando la divinità scompare i suoi riti possono sopravvivere assai più a lungo nella coscienza dei popoli e dei singoli. E questo mi sembra il fondamento culturale e psicologico della definizione nietzscheana delle chiese come «die Grüfte und Grabmäler Gottes» (“le fosse e i sepolcri di Dio”, La Gaia scienza, af. 125, p. 130 della traduzione Adelphi).

Diventa così molto più ricca, contraddittoria, feconda, la visione di un mondo -i Greci- la cui suprema forza è forse consistita nella consapevolezza dello strato ctonio e indicibile della razionalità, nel percepire l’orrore della luce.

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