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Bella addormentata

di Marco Bellocchio
Con: Toni Servillo (Uliano Beffardi), Alba Rohrwacher (Maria), Isabelle Huppert (Divina Madre), Maya Sansa (Rossa), Pier Giorgio Bellocchio (Pallido), Fabrizio Falco (Pipino), Michele Riondino (Roberto), Brenno Placido (Federico), Gian Marco Tognazzi (marito della Divina Madre), Roberto Herlitzka (psichiatra)
Italia, 2012
Trailer del film

Cinema. E basta. L’immagine iniziale è di una donna con la testa e il braccio reclinati sulle panche di una chiesa. Questa donna è una tossica che cerca di rubare per procurarsi la dose, che si ferisce di continuo con un coltello, che tenta più volte il suicidio. E che un medico, il dottor Pallido, si intestardisce ogni volta a salvare.
Un’altra donna è Divina Madre, attrice di grande bravura e successo che ha rinunciato al teatro, alla famiglia, all’amore, per stare accanto alla figlia Rosa che continua a respirare solo perché aiutata da una macchina. Divina Madre si è circondata di statue della Madonna, di sacerdoti, di suore e infermiere con le quali recita furiosamente i suoi rosari lungo i corridoi del palazzo dove abita. Rosa è truccata e vestita di tutto punto nel suo letto. Spenta come una bambola. Il tormento della Madre è di non avere fede sufficiente, di non credere davvero e totalmente alle parole evangeliche che ascolta in chiesa: «La bambina non è morta ma dorme».
Due fratelli. Pipino è bipolare, estremo. Sta andando a Udine per esprimere solidarietà a Peppino Englaro, che ha ottenuto di far trasferire la figlia da Lecco a una clinica dove la restituiranno alla naturalità del suo corpo malato. Roberto lo accompagna, lo accudisce, lo protegge. Ma non riesce a evitare che in un bar il fratello incontri delle ragazze che si stanno recando anch’esse a Udine ma per il motivo opposto, per protestare contro quello che definiscono l’assassinio di Eluana Englaro. Pipino lancia un bicchiere d’acqua contro il viso di una delle ragazze. Roberto evita che faccia di peggio, chiede scusa, dà il proprio numero di cellulare a Maria.
Maria. È la figlia del senatore Uliano Beffardi (un Toni Servillo straordinario, ormai al vertice della sua bravura), il quale cerca di non rispondere alle chiamate del presidente dei senatori del PDL che dovranno votare in fretta e furia una legge che imponga di intubare nuovamente Eluana. Non risponde perché ha deciso di non votare per questa legge, di disobbedire agli ordini di Berlusconi e del partito. La moglie di Beffardi e madre di Maria era morta dopo una lunga agonia. Agonia che la donna chiese proprio a lui di abbreviare spegnendo la macchina che la teneva in vita. Ora il senatore non può, non può proprio, rinnegare le proprie convinzioni. E si pone così non soltanto contro il partito ma anche contro la figlia che continua a recitare preghiere a Udine.
Nel proprio studio Beffardi sta preparando il discorso con il quale motiverà il proprio voto e subito dopo si dimetterà da senatore. Dirà che lui, ateo, avrebbe voluto tenere ancora in vita la moglie anche soltanto per un giorno, per una settimana. E che invece la moglie, convinta cristiana, non sopportava più di vivere e gli chiese ancora un atto d’amore, l’ultimo. Per amore di lei e della sua libertà Beffardi l’aveva accontentata, in uno struggente abbraccio.

Dappertutto, nella casa di Divina Madre e di Rosa, nell’ospedale dove Pallido non lascia un momento Rossa la tossica, negli alberghi di Udine, nelle stanze del Senato, dominano i televisori che raccontano ora per ora  quanto sta accadendo a Eluana, la bella addormentata. Un flusso di immagini senza interruzione, una presenza ossessiva. Televisori anche nella sauna del Senato dove Beffardi incontra un disincantato psichiatra che gli riferisce come molti onorevoli cadano in depressione allorché non vengono più invitati in televisione, o vengono invitati di meno. I senatori immersi nella sauna con gli sguardi rivolti verso i televisori formano una magnifica scena quasi felliniana, surreale e drammatica.
Quegli stessi politici si riuniscono in una delle grandi sale per una foto di gruppo sullo sfondo dei filmati che mostrano lo sventolio delle bandiere del Partito della libertà. Sui loro volti sono stampati indifferenza e menzogna. Ma anche paura.
I nomi reali si alternano a quelli simbolici: Beffardi, Rossa, Divina Madre, Pallido. Il flusso della vicenda accaduta si mescola a immagini oniriche. Il vivere e il morire si intrecciano, inseparabili. E a emergere è la Grande Paura che intesse la contemporaneità occidentale rispetto ad altre epoche e ad altre culture, la paura della morte, il suo rifiuto disperato, fanatico e perdente. Prima infatti che il senato possa votare una legge che impone il totalitarismo etico dello Stato, bella addormentata si addormenta per sempre.
Un mondo che della morte sa vedere soltanto l’orrore, e che fa di tutto per nasconderlo e differirlo, è un mondo senza dignità. Quella dignità che si vorrebbe togliere al Leib, ai corpi vissuti, per immobilizzarli nel Körper, nel puro organismo.
Ma questo sta sullo sfondo. Bella addormentata è cinema, grande cinema. E basta.

Mercedes palermitana

È stato il figlio
di Daniele Ciprì
Con: Toni Servillo (Nicola Ciraulo), Fabrizio Falco (Tancredi Ciraulo), Alfredo Castro (Busu), Giselda Volodi (Loredana Ciraulo), Aurora Quattrocchi (Nonna Rosa), Benedetto Ranelli (Nonno Fonzio), Piero Misuraca (Masino), Alessia Zammitti (Serenella Ciraulo)
Italia, 2012
Trailer del film

Seduto in un ufficio postale di Palermo, un uomo racconta strane storie. Come quella di un ragazzo che uccise il padre a causa di un graffio su un’automobile. Erano gli anni Settanta, Palermo era assolata e sporca. Nicola Ciraulo abitava in un quartiere orrendo e cercava di “campare” la famiglia raccogliendo ferro vecchio. Il figlio primogenito, ormai ventenne, non combina niente; Serenella, la secondogenita, è “la luce dei suoi occhi”. Una luce che viene spenta da una pallottola vagante. Disperato Nicola e disperata la famiglia, sino a quando qualcuno suggerisce che per le vittime di mafia si può ottenere un risarcimento. Dopo una lunga attesa i soldi arrivano. Sono tanti  e Nicola convince gli altri familiari a comprare con una parte del denaro una Mercedes fiammante e superaccessoriata. Da quel momento è l’automobile a diventare la luce dei suoi occhi. Non è semplicemente il “feticismo delle merci”, non è neppure il riscatto di una vita da poveracci mediante un oggetto di lusso, è la cristallizzazione della vita in una cosa, è illusione, autoinganno, disperazione.
Grottesco nei toni, inabissato dentro la bruttezza antropologica e urbanistica, interpretato da attori in stato di grazia -Fabrizio Falco (il figlio), Alfredo Castro (il narratore) e soprattutto un Toni Servillo colmo di volgarità, di energia e di candore-, questo film è simbolico dall’inizio alla fine. Simbologia evidente nella presenza di un uomo vestito di nero, che assiste silenzioso a molte delle scene, e in quella di una bambina diversa dalle altre. Sull’immagine di questa bambina il film si chiude: sola tra i palazzi, davanti a una pozza di sangue, accanto alla carcassa di un’auto bruciata, sotto un cielo livido come quello di alcuni dipinti del Greco.
Niente di straordinario, comunque, sino al quarto d’ora finale nel quale si scatena una tragedia antica e la tensione si placa soltanto nella plumbea solitudine del mondo.

 

Una vita tranquilla

di Claudio Cupellini
Italia, Germania, Francia 2010
Con Toni Servillo (Rosario Russo), Marco D’Amore (Diego), Francesco Di Leva (Eduardo), Juliane Köhler (Renate), Alice Dwyer (Doris), Maurizio Donadoni (Claudio)
Trailer del film

Nel cuore della Germania. Uno dei tanti emigranti italiani ha fatto fortuna, è il proprietario e lo chef di un ben avviato ristorante, ha sposato una bella donna, ha un bambino di nove anni. Una vita tranquilla, appunto. Sino a che arriva Diego, un altro suo figlio che Rosario ha dovuto lasciare fuggendo da Napoli tanti anni prima. Diego non viene da solo e ha una missione criminale da compiere. Con lui ritorna dunque il passato, in tutta la sua necessità.

Questo film non è la ripresa -come alcuni hanno detto- de Le conseguenze dell’amore, e non è soltanto imperniato sull’interpretazione di Servillo. Anche gli altri caratteri e personaggi sono ben delineati e la sintassi cinematografica è di buon livello. Il film, insomma, intriga e coinvolge dall’inizio alla fine. Servillo conferma di essere il miglior attore italiano vivente, con una interpretazione ancora una volta splendida, che dà corpo e vita a un personaggio plurale: timoroso e spietato, affettuoso e individualista, limpido e oscuro. Una scena, in particolare, colpisce: quando Rosario rivolge all’amico di Diego uno sguardo profondo, carico di rancore, di minaccia e di odio. La dramatis personae, la maschera, è perfetta.

Gorbaciòf

di Stefano Incerti
Italia, 2010
Con Toni Servillo (Gorbaciof), Yang Mi (Lila), Gaetano Bruno (L’Arabo), Geppy Geijeses (L’avvocato), Nello Mascia (Vanacore)
Trailer del film

Marino Pacileo fa il cassiere nel carcere di Poggioreale. Lo chiamano “Gorbaciòf” a causa di una vistosa voglia che ha in fronte. Vive da solo, ha la passione del gioco d’azzardo, parla pochissimo. Per giocare sottrae soldi alla cassa del carcere ma poi li restituisce regolarmente. Un uomo come questo non può innamorarsi. E però si innamora, corrisposto, della figlia del proprietario del ristorante cinese nel cui retrobottega gioca a poker. Tra di loro un sentimento quasi adolescenziale, silenzioso, dolce, impossibile. Il gioco si fa grande.

Ennesima, meravigliosa interpretazione di Toni Servillo che si fa ancora una volta il suo personaggio, che diventa il corpo di Gorbaciòf. Di questo guappo intriso di tenerezza e di una primitività quasi selvaggia e insondabile. Un uomo senza morale e senza malvagità, per il quale non parla la lingua ma le gote, le labbra, il modo straordinario in cui cammina, quasi remando nell’aria vuota di Napoli, le gambe. E soprattutto gli occhi, sino alla fine. Una fisicità della quale fanno parte le banconote da 20, 50, 100 euro. Simboli onnipresenti di un’ossessione che gira a vuoto. Poche volte l’assurdità del denaro fine a se stesso è stata resa in un modo così gelido ed esplicito. Il film ha il grande merito di essere cinema, e cioè opera visiva, pura immagine. Le rade parole scandiscono il divenire visivo del silenzio. Lontani dalla chiacchiera della fiction televisiva, dentro il cuore d’amore e di tenebra del mondo.

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