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Irrazionalismi

Irrazionalismi
Aldous, 9 settembre 2023
Pagine 1-2

Con la fine del progetto comunista incarnato dagli stati guidati dall’Unione Sovietica, il sedicente ‘progressismo’  è diventato una forma della reazione che va assumendo caratteri sempre più globali. Si tratta infatti di posizioni politiche, culturali, finanziarie che si pongono al servizio delle multinazionali, del loro globalismo che è una forma di imperialismo economico e dunque politico e che si presenta con caratteri etico-religiosi come forma del Bene, quando invece – come tutte le pratiche di dominio che tendono all’egemonia – è espressione di atteggiamenti esclusivi ed escludenti, che non dialogano con altre posizioni ma semplicemente le condannano.
In questo articolo ho cercato di indicare alcune espressioni e forme di tale fenomeno, in particolare quelle che per il loro fanatismo e la loro bizzarria mi sembrano affette da particolare irrazionalismo. Tra queste ho accennato anche all’involuzione che i Dottorati di ricerca delle Università italiane (certamente quelli di Unict) stanno subendo a causa delle imposizioni, delle forme ideologiche, degli interessi finanziari che si celano nella formula esoterica ‘PNRR’.

[Foto di Salvador Altamirano su Unsplash]

Distanziamento

Per una specie come la nostra le parole sono tutto, perché sono insieme pensiero in atto, pensiero pubblico, pensiero che comunica. Un’espressione come «distanziamento sociale» dice quindi molto, e drammaticamente, della visione che sta attualmente vincendo; ‘attualmente’ da alcuni decenni, da quelli che videro Thatcher e Reagan imporre l’ordine liberale e liberista al mondo. Un ordine del tutto ed esclusivamente individualista e quantitativo, si tratti di beni, risorse, denaro, velocità, vita. L’ordine che anche un fisico come Carlo Rovelli ha mostrato di condividere pienamente quando sul Corriere della sera del 2 aprile 2020 ha affermato che «il bene più prezioso» è «un po’ di vita in più». Che significa qualche anno, mese, giorno in più. ‘Tempo’ in più. Una contraddizione ironica e non piccola per chi afferma che il tempo esiste soltanto come struttura della mente (ho discusso le tesi di Rovelli in Tempo e materia. Una metafisica). Ma è sempre così: i negatori teorici del tempo diventano i suoi più fanatici sostenitori pratici quando si arriva al dunque della finitudine, vale a dire della condizione pervasivamente temporale dello stare al mondo.

Un po’ di vita in più è anche quella che i decisori politici si sono assunti come compito primario, a costo di rendere quel tempo ottenuto un periodo di miseria, angoscia, depressione. A questo conducono infatti superstizione e panico quando si impossessano non soltanto del corpo sociale ma anche di chi avrebbe il compito di guidarlo: «I terrori irragionevoli si allacciano alle folli speranze: quale laboratorio, per primo, fornirà il vaccino miracoloso? Si prendono misure di ‘distanziamento sociale’, a volte eccessive, a volte tardive, spesso inapplicabili. […] Nessuna autorità, pubblica o privata, vuole subire il rimprovero di ‘non aver fatto abbastanza’. Quindi spesso ne fanno troppo. L’economia e l’intera popolazione ne faranno le spese» (Slobodan Despot, in Diorama Letterario 353, p. 8).
La vicenda del coronavirus nell’anno 2020 è stata ed è anche la testimonianza di un complottismo al contrario, testimonianza dell’attribuzione di ogni responsabilità all’elemento biochimico, al virus – indubbiamente presente – e però del silenzio a proposito delle condizioni finanziarie; delle modalità alimentari e produttive (i macelli e i mercati della carne); delle politiche sanitarie (la diminuzione drastica e feroce dei finanziamenti alla sanità pubblica) che ne hanno favorito la comparsa, la virulenza, la diffusione. 

Il nascondimento della presenza umana e politica dentro questo virus impedisce la comprensione dei suoi effetti o la loro riduzione a polemiche tra i partiti, qualcosa non solo di patetico ma anche di criminale rispetto al pericolo che il Covid19 rappresenta. Il silenzio sulle ragioni strutturali del contagio conferma che per il complottista, anche per quello al contrario, «dietro c’è sempre qualcuno, mai qualcosa. Egli si focalizza sugli uomini ed ignora i processi privi di un attore e quelli senza un soggetto, per riprendere una griglia analitica cara agli strutturalisti, e più specificamente a Louis Althusser. […] Non capisce che le strutture sono più potenti degli attori» (François Bousquet, ivi, p. 21).
Gli attori sono in questo caso i Fontana, i Conte, gli Speranza et similia. Le strutture sono l’Unione Europea, i debiti degli stati, il nutrirsi di carne, l’ossessione liberista dell’‘austerità’ a danno delle vite umane, qualunque durata esse abbiano.

[Photo by Sasha Freemind on Unsplash ]

This is England

di Shane Meadows
Con: Thomas Turgoose (Shaun), Stephen Graam (Combo), Joe Gilgun (Woody), Jo Hartley (Cynth), Andrew Shim (Milky), Rosamund Hanson (Smell)
GB, 2006
Trailer del film

Gran Bretagna, 1983. Shaun è un dodicenne che ha perso il padre nella guerra per le Falkland. A scuola lo prendono in giro e la sua vita sociale è minima. Viene però accolto da un gruppo di ragazzi e ragazze che cercano di non annoiarsi troppo ma anche di non fare troppo danno. Finché riappare Combo, un amico adulto del gruppo, che in carcere ha maturato idee ultranazionaliste e razziali. Alcuni rifiutano di farsi condizionare, altri aderiscono alle sue proposte. Tra questi c’è Shaun, che comincia ad avere i modi e i comportamenti di un naziskin sino a prender parte ad azioni violente nei confronti della comunità pakistana. Un fallimento sentimentale subìto da Combo contribuisce a scatenare la sua violenza verso tutti. L’ultima scena, che vede ancora una volta protagonista Shaun tornato alla propria solitudine, è la più  emblematica.

Il film è uscito nel 2006 ma soltanto oggi viene distribuito in Italia. Ed è un film bellissimo. Prima di tutto per la sua tecnica, fatta di campi lunghi alternati a primissimi piani, di dissolvenze tra il visivo e il sonoro,  di una fotografia impastata e documentaristica, di un’efficace colonna sonora, di filmati d’epoca ben integrati nella trama del racconto, di una cinepresa che scava dentro volti e gesti dei protagonisti. Poi per la capacità di analizzare e svelare il mondo degli skinhead dal di dentro, senza troppi giudizi moralistici né semplice oggettività sociologica ma mostrando i modi e le ragioni per le quali si può entrare o non entrare in quell’ambiente. È un grande film, infine, perché analizza con un linguaggio artistico rude e insieme raffinato la catastrofe sociale e antropologica che l’ultraliberismo thatcheriano ha prodotto e che ha fatto dell’Inghilterra il posto orribile che forse è sempre stato ma che adesso ha pochi paragoni in Europa quanto a politiche antisociali e a squallore esistenziale. This is England, davvero.

 

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