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Inafabeto

Terramatta;
di Costanza Quatriglia
Con: Roberto Nobile
Italia, 2012
Trailer del film

Avevo visto e gustato la versione teatrale di Terra matta . Questo film ne scandisce le parole, i suoni, il tragico e il comico sullo sfondo delle immagini di un Novecento feroce e progressivo, nel quale dalla miseria profonda di un paesino di Sicilia Vincenzo Rabito viene catapultato dentro la storia, le guerre, i totalitarismi, le rinascite, i consumismi. «Ebiche» che si susseguono incessanti e che a questo «inafabeto» appaiono in tutta la loro incomprensibile necessità.
Ormai anziano e gratificato dal successo ottenuto dai tre figli, Rabito si chiudeva in una stanza per interi pomeriggi e lì batteva e batteva per ore sulla macchina da scrivere, riempiendo migliaia di fogli di una scrittura fitta, straripante di punteggiatura, inventata e arcaica.
Se la parola è tutto per gli umani -animali linguistici-, per uomini come Rabito diventa la forma più clamorosa e raggiante di riscatto, quella che dal subire gli eventi e le arroganze «perché ero senza scuola» conduce all’essere e al diventare padroni della propria memoria, signori della vita, gemelli del tempo.

Terra matta

Scenario Pubblico – Catania

Dall’autobiografia di Vincenzo Rabito
Con Vincenzo Pirrotta, Amalia Contarini, Marcello Montalto, Alessandro Romano, Mario Spolidoro.
Musicisti: Salvatore Lupo, Giovanni Parrinello, Mario Spolidoro
Regia e impianto scenico di Vincenzo Pirrotta
Musiche di Luca Mauceri
Sino al 5 aprile 2009

terra_matta

Dopo una «maletratata e molto travagliata e molto desprezata» esistenza, Vincenzo Rabito scrisse una lunga autobiografia. Lo fece nonostante fosse quasi analfabeta, lo fece per raccontare l’infanzia da bracciante, la chiamata a «salvare la patria contro austriachi e germanisti» essendo nato nel 1899,  lo fece per narrare il sogno colonialista in Abissinia, le grandi adunate «fascistiche», il matrimonio che gli regalò tre figli maschi e una suocera terrificante -«la Cana»-, lo fece per dire la gioia ricevuta dal primogenito diventato finalmente «incenieri». Narrazione fatta di una lingua potente, terragna, stupefatta e profondamente sincera. Una pura invenzione nata dai giorni, dal sudore e dalla fantasia.

L’impresa di mettere in scena questo romanzo è riuscita a Vincenzo Pirrotta in modo quasi commovente. Pirrotta è Rabito, il suo urlo è quello della storia, la sua verità trasuda dal corpo e dalla voce. Come un cantastorie e più di un cantastorie, il regista dà forma ai quadri del tempo con l’aiuto di un gruppo di attori appassionato e versatile, con le musiche che danno risalto ai desideri, alla disperazione, all’euforia, al lutto e all’ironia del protagonista. Intensa la lunga parte dedicata alla Prima guerra mondiale, quando questo contadino attinge a un’ancestrale volontà di sopravvivenza per uscire vivo e integro dalla carneficina che «mi fece diventare macellaio» e alla cui conclusione canta, insieme agli altri reduci, «abbiamo vinto questa mincia, questa mincia abbiamo vinto». Tra il candore ctonio e il sarcasmo alla Grosz, emerge inesorabile la Terra matta, la Sicilia. Dove Vincenzo Rabito cercò, riuscendoci, di «tirare la vita».

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