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Angeli

Anatole France
La rivolta degli angeli
(La révolte des anges, 1914)
Trad. di Alessandra Baldasseroni
Lindau, Torino 2017
Pagine 301

La letteratura che conduce al fondo del reale, che saggia passo passo l’enigma delle vite e degli eventi, è sempre intessuta di filosofia, più esattamente è filosofia espressa con altro linguaggio, privo del rigore della forma ma intriso dell’evidenza degli eventi. Nel caso di Anatole France, a dare forza teoretica al suo narrare è la teologia. Così nel gioiello che ha per titolo Le procurateur de Judée (1902) e così nel suo ultimo magnifico romanzo, La révolte des anges.
Una teologia unita sempre, in France, alla passione politica. Lo sfondo della Terza Repubblica francese è infatti pervasivo sino a essere incombente ma l’autore ha sempre la capacità di trasformare ben precise vicende e contesti storici in una filosofia della storia, come quella che segna i capitoli 18-21 (dei 35 che compongono il libro) e che è esplicitamente volta a demolire la filosofia cristiana della storia elaborata da Bossuet. In questi capitoli, infatti, la storia del cristianesimo appare per quello che in gran parte è stata: storia di un successo criminale, nato nei deserti della Palestina con le tribù ebraiche, diventato ecumene per opera di ‘apostoli della tristezza’ come i monaci e i padri della chiesa, i quali «bruciavano i libri, rovesciavano i templi, incendiavano le città, estendevano i loro danni fin nei deserti» (p. 170), come confermano, tra gli altri, i recenti libri di Catherine Nixey e Giancarlo Rinaldi.
Il cristianesimo stava per tramontare nel fasto artistico e politico della Chiesa rinascimentale quando arrivarono due tristi figure a restituirgli per un poco forza e fanatismo: Lutero e Calvino, i quali vengono da France descritti con accenti nietzscheani: 

Ma, o disgrazia, o cattiva sorte, funesto avvenimento comunque, ecco che un monaco tedesco, gonfio di birra e di teologia, si drizza contro questo paganesimo rinascente, lo minaccia, lo fulmina, prevale da solo contro i princìpi della Chiesa, e, sollevando i popoli, li invita a una riforma religiosa che salva ciò che stava per essere distrutto […] .
Dopo questo grosso incappucciato, bevitore e attaccabrighe, venne il lungo e magro dottore di Ginevra. Imbevuto dello spirito dell’antico Yahweh, che si sforzava di riportare il mondo ai tempi abominevoli di Giosuè e dei Giudici d’Israele, maniaco freddamente furioso, eretico bruciatore di eretici, il più feroce nemico delle Grazie (181).

Nel suo discorso sulla storia universale France perviene ai primi anni del Novecento, a quel periodo di quiete apparente che preparò il macello della Prima Guerra mondiale e il suicidio dell’Europa. Descrivendo la Terza Repubblica, lo scrittore formula l’esatta diagnosi «che sotto il nome di repubblica, questo paese era costituito in plutocrazia, e che, sotto le apparenze di un governo democratico, l’alta finanza vi esercitava un potere sovrano, senza sorveglianza né controllo» (144).
A pronunciare queste parole è Sophar, uno degli angeli ribelli che popolano – non riconosciuti – la Terra. Da poco si è unito a loro Arcade, angelo custode dell’indolente e conformista rampollo di una ricca famiglia parigina, Maurice d’Esparvieu. Frequentando la magnifica biblioteca di famiglia – dove sono conservate bibbie, talmud, l’intera produzione dei padri della chiesa – l’angelo si è reso conto che il suo Signore è ben diverso da come ama presentarsi. Arcade, il cui nome celeste è Abdel, afferma infatti con chiarezza che il Dio degli ebrei e dei cristiani non ha

creato il mondo, tutt’al più ne ha organizzato una piccola parte e tutto quello che egli ha toccato porta l’impronta del suo spirito imprevidente e brutale. Non credo che egli sia né eterno, né infinito, perché è assurdo concepire un essere che non è finito nello spazio e nel tempo. Lo credo limitato, e anche molto limitato. Non credo più che egli sia il Dio unico; per moltissimo tempo, non l’ha creduto nemmeno lui: dapprima fu politeista. Più tardi il suo orgoglio  e le adulazioni dei suoi adoratori lo resero monoteista. Ha poco séguito nelle sue idee; è meno potente di quel che si crede. E per dirla tutta, piuttosto che un dio è un demiurgo ignorante e vano. Quelli che, come me, conoscono la sua vera natura lo chiamano Yaldabaoth (86).

È quest’ultimo, Yaldabaoth, il vero protagonista del romanzo, il funesto demiurgo delle tradizioni gnostiche, «un tiranno ignorante, stupido e crudele» (99), che non è affatto il creatore dei mondi ma è soltanto un’entità inferiore al divino, un facitore «ignorante e barbaro, che, essendosi impadronito di un’infima particella dell’Universo, vi ha sparso il dolore e la morte» (216) ma che gli umani continuano ad adorare, per quanto infelici siano, poiché «è spaventoso per loro il solo pensiero di cessare di essere. […] Gli uomini adorano il Demiurgo che ha reso la loro vita peggiore della morte e la morte peggiore della vita» (129).
Proprio perché il demiurgo è tanto ignorante quanto presuntuoso, opporsi a questo orrore significa praticare la conoscenza: «Non si regna sulla natura, non si acquista l’impero dell’Universo, non si diventa Dio che attraverso la conoscenza. […] Non sarà il coraggio cieco (nessuno in questo giorno ha avuto più coraggio di voi) che ci darà il potere dei cieli: è lo studio e la riflessione» (155-156). Parole, queste, pronunciate da Lucifero, il quale viene da France identificato – e mi sembra una notevole intuizione – con Dioniso, « il più grande degli Dèi» (268), che il suo Sileno attende quando tornerà «seguito dai suoi Fauni e dalle sue Baccanti a insegnare di nuovo alla terra la gioia e la bellezza, e a riportare l’età dell’oro. Camminerò raggiante di gioia dietro al suo carro» (189).
Alla cupezza, alla violenza, all’ignoranza di Yahweh, il quale «non era conosciuto nel mondo, che egli pretende di aver creato, che da alcune tribù miserabili della Siria, da lungo tempo feroci come lui, e perpetuamente condotte da una schiavitù all’altra» (167), questo romanzo oppone naturalmente la luce del Sacro incarnata dagli Dèi della Grecia.
Se, come afferma Arcade, «i Greci non s’ingannavano mai. I moderni sbagliano sempre» (91), è perché tra quelle genti la saggezza e la bellezza pervennero «a un punto che nessun popolo aveva raggiunto prima di loro, e al quale nessun popolo si è, da allora, avvicinato. Da dove viene, Arcade, questo prodigio unico sulla terra? Perché il sacro suolo della Ionia e dell’Attica ha nutrito questo fiore incomparabile? Perché là non vi furono mai né sacerdozio, né dogma, né rivelazione, e i Greci non conobbero mai il Dio geloso» (164).

Da questa compiuta consapevolezza gnostica derivano numerose conseguenze, che traspaiono con chiarezza anche in un’opera narrativa e non teoretica come questa. Tra tali fecondi risultati ricordo solo il superamento dell’etica, il riscatto della materia, l’aristocrazia della mente.
«La natura non ha principi. Essa non ci fornisce nessuna ragione di credere che la vita umana sia rispettabile. La natura, indifferente, non fa alcuna distinzione fra il bene e il male» (228-229). Natura composta di una materia che è soprattutto luce ed energia intercambiabili, come sostiene anche la fisica contemporanea, e dalla quale deriva la gioia del flauto di Sileno (diventato l’angelo Nectaire), il quale «cantava la natura, dava all’insetto e al filo d’erba la sua parte di potenza e di amore, e consigliava la gioia e la libertà» (295). Chi comprende tutto questo, i suoi presupposti e le sue implicanze, è veramente aristocratico poiché «l’indipendenza del pensiero è la più fiera delle aristocrazie» (187). Un’affermazione anch’essa interamente gnostica.
Tratto del tutto originale di questo libro è che tale densità e profondità di temi storici, filosofici e teologici è affrontata in modalità lievissime. Non soltanto perché di un romanzo si tratta ma anche e soprattutto perché è un romanzo intriso di ironia, di scetticismo, di disincanto. Ironia che si mostra anche nella chiusa di ciascun capitolo, apparentemente incongrua e banale rispetto a ciò che nei capitoli si racconta e anche per questo generatrice di straniamento, interrogativi, sorrisi.
Il culmine di tutti questi elementi, diversi e arricchenti, è raggiunto nell’ultimo capitolo «dove si svolge il sogno sublime di Satana» nella notte che precede l’inizio della nuova rivolta alla quale gli angeli gnostici invitano il loro antico capo. Lucifero fa un sogno che è un incubo. Il sogno della sua presa del potere, del precipitare il vecchio demiurgo nell’inferno ma poi diventare come lui. Da tale incubo «Satana si svegliò bagnato di sudore glaciale» (296) ma ormai lucido nella sua decisione. Il testo si chiude infatti con parole di grande saggezza e di intima bellezza, parole che spingono a combattere la tenebra prima di tutto non negli enti, negli eventi, nei processi dolorosi della storia ma dentro la mente che è pervenuta a intuire le loro ragioni.

Ora, grazie a noi, il vecchio Dio è spodestato del suo impero terrestre e tutto ciò che pensa in questo globo lo sdegna e lo ignora. Ma cosa importa che gli uomini non siano più sottomessi a Yaldabaoth se lo spirito di Yaldabaoth è ancora in essi, se essi sono, a sua somiglianza, gelosi, violenti, litigiosi, bramosi, nemici delle arti e della bellezza, che importa che essi abbiano respinto il Demiurgo feroce, se non ascoltano affatto i demoni amici che insegnano ogni verità, Dioniso, Apollo e le Muse? In quanto a noi, spiriti celesti, demoni sublimi, abbiamo sconfitto Yaldabaoth, il nostro tiranno, se avremo distrutto in noi l’ignoranza e la paura. […] È in noi, in noi soltanto, che dobbiamo attaccare e distruggere Yaldabaoth (297).

Un invito che è condizione per una vita serena.

 

La terra ospitale

Qualche anno fa, nel 2015, avevo assistito a una messa in scena delle Supplici al Teatro Greco di Siracusa, con la regia di Moni Ovadia e le musiche di Mario Incudine. Una messa in scena scadente, che nulla aveva a che fare con Eschilo. La conferma di un giudizio così duro viene dalla lettura della tragedia con la guida filologica ed ermeneutica di Monica Centanni. Emergono infatti da tale lettura i controsensi di una interpretazione umanistica, attualizzante ed eticamente virata verso l’accoglienza. Nulla in Eschilo c’è che giustifichi una simile interpretazione. Nel mondo greco «l’esilio è considerato una condizione peggiore della morte, perché esclude l’uomo dal suo habitat privilegiato -la città– e lo priva dello statuto di cittadino, necessario al riconoscimento della sua identità»1.
Le cinquanta figlie di Danao che giungono ad Argo in compagnia del loro padre allo scopo di fuggire alle nozze coatte con i cinquanta cugini figli di Egitto scelgono Argo perché sono discendenti di Io, la principessa argiva amata da Zeus, perseguitata da Era, madre di Epafo, generato in Egitto e loro antenato. Queste ragazze sono quindi parenti dei cittadini ai quali ora chiedono protezione e rifugio. Le Danaidi non sono straniere nel significato odierno della parola. E non rivendicano neppure diritti in quanto donne ma in quanto supplici dell’altare di Zeus, loro avo. Non è affatto la stessa cosa, tanto è vero che esse ribadiscono il fatto che «γυνὴ μονωθεῖσ᾽ οὐδέν una donna da sola non è niente» (v. 749, p. 260) e a proposito dei figli di Egitto arrivati ad Argo per rapirle usano espressioni ‘razziste’ come «μελαγχίμῳ σὺν στρατῷ; un esercito di pelle nera» fatto di «ἐξῶλές  μάργον; maledetti e pazzi» (v. 741, p. 258).
A questi neri pazzi e maledetti Pelasgo, re di Argo che ha deciso di acconsentire alle suppliche delle ragazze, si rivolge con parole assai poco ‘accoglienti’, come queste: «οὐ γὰρ ξενοῦμαι τοὺς θεῶν συλήτορας; io non sono ospitale con chi depreda gli dèi» (v. 927, p. 274).
Per i Greci prima vengono gli dèi e poi gli umani, qualunque umano. Per tutti loro infatti i mali sono e rimangono molteplici e variegati «πόνου δ᾽ ἴδοις ἂν οὐδαμοῦ ταὐτὸν πτερόν; e non vedrai mai gli stessi colori sulle ali del dolore» (v. 329, p. 228). Anche per questo non c’è nulla di ‘umanistico’ negli Elleni.
E si potrebbe continuare nell’analisi testuale che conferma l’insipienza di ogni attribuzione ai Greci di sentimenti e sentimentalismi tipicamente moderni e postcristiani. E questo anche sul fondamento di una antropologia del limite per la quale «παν απονον δαιμόνιον; senza sforzo avviene ogni atto divino» e Zeus «ἰάπτει δ᾽ ἐλπίδων / ἀφ᾽ ὑψιπύργων πανώλεις; getta giù dall’alta torre / delle loro speranze i miseri mortali» (vv. 100 e 96-97, p. 212).
Ospitale verso le loro preghiere è a volte Zeus, inospitale altre volte. C’è invece un dio, fratello di Zeus, che tra le divinità è il più ospitale di tutti, «τὸν γάιον, τὸν πολυξενώτατον; Ade, dio della terra e signore della morte; Ζῆνα τῶν κεκμηκότων» (vv. 156-157, p. 214).
Altre divinità presenti, temute e onorate in questa tragedia -insieme a Zeus «δι᾽ αἰῶνος κρέων ἀπαύστου; signore del tempo infinito» (v. 574, p. 248)– sono Ares e Afrodite. Ares, da tutti temuto, dio senza danze e senza musica, padre del pianto –«ἄχορον ἀκίθαριν δακρυογόνον Ἄρη» (v. 681, p. 254). Afrodite il cui nome appare alla fine ad ammonire le ragazze dei rischi che corrono coloro che ne trascurano il culto, coloro che si chiudono alla potenza erotica della vita, al desiderio: «Kύπριδος δ᾽ οὐκ ἀμελεῖ θεσμὸς ὅδ᾽ εὔφρων / δύναται γὰρ Διὸς ἄγχιστα σὺν Ἥρᾳ; Ma neppure Cipride devi trascurare, in questo canto propiziatorio: / è potente, è la più vicina a Zeus, insieme a Era» (vv.1034-1035, p. 280). Tutti gli dèi, in ogni caso, vanno tenuti in conto, onorati dentro la persona umana che di loro è fatta, intrisa, mescolata.
È questo uno dei significati e degli scopi universali della tragedia greca, dell’intero mondo ellenico: che equilibrio, misura, distanza e rispetto siano dovuti in primo luogo agli dèi. Uno dei princìpi apollinei che risuonano a Delfi stabilisce: «τὰ θεῶν μηδὲν ἀγάζειν; Verso gli dèi, mai nessun eccesso» (v. 1061, p. 282).
Ἱκέτιδες non è una tragedia di argomento sociale o morale, è una teologia, come sempre per i Greci.

Nota
1. Monica Centanni in Eschilo, Supplici (Ἱκέτιδες, 463 a.e.v.), Le tragedie, p. 854.
Traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori, Milano 20133, pagine LXXXII-1245. Le citazioni da Supplici saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti da quelli della pagina dell’edizione Meridiani.

[L’immagine del grande teatro di Argo fu scattata da me alcuni anni fa. Micene e Argo costituiscono due dei luoghi dove ho meglio sentito la presenza del sacro]

 

Enrico Moncado, un itinerario

Enrico M. Moncado ha compiuto un itinerario dentro il mio tentativo di pensiero, attraversando in particolare la tetralogia che ho dedicato al tempo ma anche andando al di là. Il saggio è stato pubblicato su una delle più significative riviste fenomenologiche europee, Segni e comprensione. Un testo ampio, labirintico e insieme illuminante, che mostra una comprensione radicale della mia opera. Nel senso che va alle sue radici e ne esplicita le intenzioni di oltrepassamento di quadri epistemologici e teoretici tradizionali. Sono veramente grato all’autore per il modo rigoroso, empatico e insieme critico con il quale ha attraversato testi e pensieri.

Link al testo
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Trascrivo qui l’abstract del testo e poche sue righe, in particolare quelle che fanno riferimento alla struttura ultima del mondo, che è insieme materica e teologica. Invito, naturalmente, a leggere l’intero saggio, che è articolato  nei tre concetti che gli danno il titolo: Temporalità, Tempo, Metafisica.

«Within the ontological and metaphysical contemporary debate on the status of time is inserted the work of Alberto Giovanni Biuso, who proposes a radical thought against any form of physicalism and reductionism, a thought founded on a philosophical re-emergence of time at the center of a materialistic metaphysics. Thereby, metaphysics and materialism are not opposite philosophical devices, but are two ways in which being and time are ontologically disclosed as identity and difference. This theoretical paradigm, therefore, qualifies most definitions of time as partial and invalidating. Partial because they do not include the simultaneous totality which being and time are; invalidating due to the absence of a phenomenological facticity in which every scientific theory should be rooted. In this way, categorical dualisms such as time-temporality and mind-body are philosophically obsolete. Biuso instead melts the fundamental concepts of philosophy in a relationship of deep identity that always happens as difference».

«Questa affermazione fa trasparire la dimensione prima e ultima della […] struttura di pensiero di Biuso. Dimensione prima perché l’a priori logico, ontologico ed epistemologico di tutta la tetralogia è la metafisica intesa – anche sulla base della sua origine linguistica e semantica – come paradigma di oltrepassamento (μετά) della parzialità teoretica di ogni tesi sul tempo; ultima, perché la metafisica è l’ultimo modo di pensare oramai rimasto per comprendere la cangiante temporalità del reale che i diversi saperi hanno contribuito a “granularizzare” e a rendere sempre più complessa» (p. 195)

«Una teologia del tempo, quarto capitolo – ma primo per forma e contenuto – di Tempo e materia è il dispositivo di un’economia teoretica che attraversa in modo radicale tutta la tetralogia. […] Teologia dunque è per essenza πρώτη φιλοσοφία, è il sapere che pensa la luce, la trasparenza, l’attrito dell’essere entro la consapevolezza della finitudine, del limite che è l’ente rispetto all’essere stesso. È altresì il sapere per il quale l’esserci abita già da sempre nell’accadere della differenza, è lo sguardo gnostico in tale differenza per pervenire a un’identità redentrice, a un’identità che sia casa, dimora e ricetto nella differenza che è il tempo» (pp. 200-201)

Una metafisica

Tempo e materia. Una metafisica (Olschki, 2020, pagine X-158) è il volume che completa la tetralogia che ho dedicato al Tempo. Iniziata con La mente temporale. Corpo Mondo Artificio (2009), proseguita con Temporalità e Differenza (2013) e Aión. Teoria generale del tempo (2016), tale indagine ha dato senso e pienezza alla mia vita di studioso e di uomo. Questo libro coincide dunque con l’ακμή dell’esistere. Un ringraziamento profondo va a coloro che in tanti modi hanno reso possibile questo tentativo di comprendere l’essere, la verità, il tempo.

Il libro sul sito dell’editore Olschki

Pdf con copertina, frontespizio, epigrafi, indice

Recensioni:

Un’estetica teologica

Il Kouros ritrovato
Museo Civico di Castello Ursino – Catania
A cura di Sebastiano Tusa
Sino al 3.11.2019

«ἡ δὲ τῶν ἀνδριάντων ποίησις καὶ ἡ τῶν ἀγαλμάτων ἐργασία θέαν ἡδεῖαν παρέσχετο τοῖς ὄμμασιν». Una traduzione di queste parole di Gorgia (Encomio di Elena, § 18) fa da epigrafe alla mostra: «Il fare statue di eroi e costruire simulacri degli dèi procura agli occhi una dolce malattia»; altri traducono «offre agli occhi un gradito spettacolo». Lo spettacolo della bellezza fu la magnifica malattia dei Greci. Una bellezza che aveva e ha ben poco di ‘estetico’. Si tratta di teologia invece, si tratta della bellezza del divino. Il marmo pario delle loro statue è la materia sacra, è l’omaggio della ποίησις umana allo splendore della potenza, della luce, del sorriso.
Il κοῦρος di Λεοντῖνοι, il ragazzo di Lentini, ha finalmente ricomposto il proprio corpo, ha unito il torso acefalo conservato al Museo di Siracusa con la ‘testa apollinea’ del Castello Ursino. Presentando il Kouros a Palermo nel novembre del 2018, il compianto Sebastiano Tusa affermò che «le evidenze scientifiche confermano l’appartenenza dei due reperti a un’unica scultura e il loro ricongiungimento costituisce a tutti gli effetti un vero e proprio nuovo ritrovamento archeologico che arricchisce il patrimonio culturale della Sicilia».
Per alcuni mesi il Kouros ha abitato a Catania, da dove tornerà a Siracusa. La Sicilia ha quindi riguadagnato un dio, anche con l’aiuto di tecnologie d’avanguardia che dal calco in gesso hanno condotto alla ricostruzione digitale attraverso analisi petrografiche e geochimiche, accurati studi anatomici, indagini diagnostiche su ogni centimetro dell’opera, la sua riconfigurazione estetica e l’assemblaggio finale.
Il risultato è un dio che ci guarda dalla distanza del suo orizzonte, dalla potenza del suo corpo, dal segreto della sua materia. Questo è il destino degli dèi. Quando civiltà barbariche come quella dell’ebraismo che proibisce le immagini, delle correnti cristiane iconoclaste, dell’islam distruttore di idoli, saranno arrivate alla loro fine, quando esse imploderanno sull’assurdità teoretica e sulla miseria estetica che le intessono, allora accadrà come al κοῦρος di Lentini: gli dèi riappariranno dalla terra e dal tempo. Tranquilli, ironici, saggi, filosofi, belli.

Hollywood / Teologia

Ave, Cesare!
(Hail, Caesar!)
di Joel ed Ethan Coen
USA, 2016
Con: Josh Brolin (Eddie Mannix), George Clooney (Bard Whitlock), Ralph Finnnies (Laurence Laurentz), Alden Ehrenreich (Hobie Doyle), Tilda Swinton (Thora Thacker / Thessaly Thacker), Channing Tatum (Burt Gurney), Scarlett Johnson (DeeAnna Moran)
Trailer del film

Si comincia con un sacramento. Eddie Mannix confessa al sacerdote di aver fumato due o anche tre sigarette e di averlo nascosto alla moglie. Si continua con gli orologi che segnano gli impegni molteplici di Mannix negli Studios hollywoodiani che dirige. Controlla infatti che attori e attrici non finiscano sulle riviste gossip, che le riprese di vari film vadano a buon fine, che un film dedicato a Gesù sia accettabile per i rappresentanti di tutte le chiese cristiane e anche per un rabbino. L’attore che in Ave, Cesare! interpreta un comandante romano viene però rapito da un gruppo di sceneggiatori comunisti, i quali chiedono un riscatto che servirà per finanziare la patria del socialismo e dell’uomo nuovo: Mosca. Bard Whitlock, il rapito, si trova dunque a discutere di materialismo storico e  dialettico con un professore di nome Marcuse, nella villa di un attore il cui cane si chiama Engels. Liberato anche con il contributo del peggior attore di Hollywood -un tizio specializzato in film western e incapace di pronunciare anche una sola battuta-, Whitlock sembra quasi convertito al comunismo. Mannix però lo schiaffeggia e lo fa tornare sul set, dove un lungo dialogo con Gesù sotto la croce si interrompe perché l’attore non ricorda l’ultima parola. Intanto, Mannix trova il tempo di tornare ogni giorno dal confessore.
Tutto questo sembra sconclusionato? Sì, in parte lo è ma il film dei Coen ha il coraggio e il merito di coniugare una vera e propria storia dei generi hollywoodiani -compreso il western e il musical- con un serrato dibattito cristologico-trinitario e con le tesi fondamentali del marxismo. Le chiese, religiose o politiche che siano, ne escono in tutta la loro serietà e in tutta la loro insensatezza.
Hail, Caesar! è grottesco e teologico, umoristico e metafisico, musicale e politico. Coloratissima e barocca la fotografia, divertita la recitazione, da antologia del comico il dialogo fra il regista Laurence Laurentz e l’attore (?) Hobie Doyle.

Bresson / Schopenhauer

Au hasard Balthazar
di Robert Bresson
Francia-Svezia, 1966
Con: Anne Wiazemsky (Marie), François Lafarge (Gerard), Walter Green (Jacques), Philippe Asselin (Padre di Marie), Nathalie Joyaut (Madre di Marie)

Battezzato con il nome di Balthazar dai suoi padroncini, un asino attraversa la vita in un borgo e nelle campagne francesi. Il suo occhio oggettivo assiste alle azioni degli umani, alla loro violenza,  insensatezza, malvagità. Al loro pianto e alle loro menzogne. Caricato di pesi, ridicolizzato in un circo, oberato di lavoro, frustato e preso a calci, utilizzato per il contrabbando, si spegnerà in un mattino di luce, circondato da un gregge. Il legame più costante di Balthazar è con Marie, una ragazza altrettanto sola e perduta, e con Arnold, un ubriaco che lo picchia e che qualche volta lo protegge.
Ciò che segna questo capolavoro è l’assoluta sobrietà dello sguardo cinematografico, l’oggettività degli eventi -come un piano inclinato, come una legge della materia che va da sé, senza volontà di alcuno-, la sapienza del montaggio capace di trasformare in pensiero un qualunque fotogramma. Il mondo degli esseri umani vi viene descritto per quello che è, per quello che è sempre stato, per quello che sempre sarà: un mondo perduto.
E soprattutto vi appare la distanza e la vicinanza tra l’umano e l’altro animale. Distanza nell’essere l’altro animale libero dal male libero dal bene. Vicinanza nella sciagura che per l’animale rappresenta l’incontro con l’umano.
Proiettato qualche giorno fa al Centro San Fedele di Milano, al film è seguita l’analisi di un filosofo cattolico. Il quale ha accentuato la simbologia cristologica dell’asino -certamente presente in Bresson- ma che ha quasi con disprezzo respinto la dimensione anche animalistica dell’opera. Non c’è niente da fare, ha ragione Schopenhauer:

Si guardino invece le atrocità inaudite che nei paesi cristiani la massa commette contro gli animali, ammazzandoli, ridendo e spesso senza nessuno scopo, mutilandoli e torturandoli, e perfino quando si tratti di animali che direttamente procurano il pane all’uomo, come i cavalli, che anche in vecchiaia vengono strapazzati fino all’estremo delle forze, perché si cerca di tirare l’ultimo midollo dalle loro povere ossa, finché non crollano sotto le bastonate del padrone. In verità verrebbe da dire che gli esseri umani sono i diavoli sulla terra e le bestie le anime torturate. Queste sono le conseguenze di quella ‘scena di insediamento’ nel giardino del paradiso. Infatti soltanto la violenza o la religione possono avere influenza sul volgo: ma per quello che riguarda gli animali il cristianesimo ci pianta vergognosamente in asso. […] Non già pietà, ma giustizia si deve all’animale.
(Parerga e Paralipomena tomo II, a cura di G. Colli, Adelphi 1981, pp. 488-489)

Queste parole potrebbero ben costituire una summa di Au hasard Balthazar. Le ragioni del vero e proprio accanimento teoretico e pratico del cristianesimo e della sua teologia contro la Natura, e in particolare contro il mondo animale, sono chiare. Esse affondano nell’antropocentrismo biblico, in una cosmologia che fa dell’essere umano il senso e il padrone dell’universo, in una teologia convinta che persino il Dio si sia fatto uomo e sia morto per la nostra specie, in una escatologia che riserva a tutto ciò che non è umano un solo destino: la nientificazione. Sono altri i miti e le religioni che possono aiutarci a riconoscere nello sguardo dell’animale, nell’occhio di Balthazar, un’alterità senza la quale è l’umano a essere niente.

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