Skip to content


Teofrasto

Teofrasto
Metafisica
(Τὰ μετὰ τὰ φυσικά)
Introduzione, traduzione e commento di Luciana Repici
Carocci, 2013
Pagine 337

Tecnico-specialistico, a tratti oscuro e a volte ellittico nella sua sintesi, questo scritto di Teofrasto (371-287) che ci è stato tramandato sotto il titolo di Τὰ μετὰ τὰ φυσικά risponde comunque pienamente alla denominazione che la tradizione gli ha attribuito. Nelle pagine che vanno dalla 50 alla 73 si trova infatti una serrata discussione di filosofia teoretica. Le pagine precedenti e le molte successive costituiscono l’introduzione della curatrice e il densissimo e accurato commento praticamente a ogni riga dell’opera.

Mentre altri editori/curatori a volte dividono il testo in un elenco di paragrafi, Luciana Repici ne evidenzia il carattere unitario, nel quale i periodi e i problemi si susseguono in un ordine ben preciso e argomentato.
A succedersi sono precisamente una serie numerosa ed essenziale di domande, di questioni. Teofrasto fa infatti proprio il metodo aporetico del pensare, quello che non ricerca nella filosofia una serie di risposte certe, definitive e dogmatiche ma privilegia una serie continua di aperture, tesi, controargomenazioni, sviluppi, nuove questioni. È il metodo inventato da Socrate, messo in atto da Platone – molti dialoghi del quale si concludono senza aver risposto alla questione sollevata, in modo appunto aporetico – e pienamente sviluppato da Aristotele. Teofrasto, infatti, intende e utilizza aporia e aporetico non «nell’accezione negativa di problema o difficoltà o ostacolo» ma «nell’accezione propositiva di strumento dialettico di accertamento della verità» (Repici, p. 112).

Con questo metodo Teofrasto studia «il principio di tutte le cose», che è «divino» poiché è grazie a esso che «tutte sono e permangono»  (I 3, 4b14-4b15, pp. 51-53). Meglio sarebbe dire, e Teofrasto infatti lo dice, che non si tratta di un principio unico ma di una molteplicità di principi che la ‘filosofia prima’ indaga nella loro natura, mentre le altre scienze si limitano a utilizzarli per fondare i propri ragionamenti e conseguire i risultati ai quali aspirano.
Si tratta di un pluralismo ontologico – per il quale l’essere e i principi si dicono in molti modi e sono intramati di differenza – e di un pluralismo gnoseologico, per il quale la conoscenza scientifica costituisce una visione unitaria di ciò che è e permane identico nella molteplicità degli enti e del loro incessante divenire: «Il sapere quindi non <sussiste> senza una qualche differenza [’Αλλ ηδε μεν οιονερβατός τις σοφία]. Infatti, una qualche differenza c’è sia nel caso in cui <le cose> sono una diversa dall’altra, sia negli universali, dato che molte sono le cose che ricadono sotto gli universali» (VIII 19, 8b16-19, p. 62).
La differenza è dunque sempre coniugata all’identità e anche questo fa sì che il mondo e gli enti siano caratterizzati da ordine e definitezza; lo è specialmente il cielo che, per Teofrasto come per Aristotele, è  divino, è dunque vivo di una vita superiore, ed è il luogo e la struttura dell’intero, dello ‘smisurato’ rispetto alle dimensioni contenute e modeste di ciò che è soltanto biologicamente vivo: «L’animato è infatti una piccola porzione, mentre smisurato è l’inanimato» (IX 32, 11a-16-17, p. 71).

Contrariamente a quanto spesso si pensa e si legge, la potenza e la perfezione dell’intero non implicano intrinsecamente una struttura teleologica, finalistica: «In vista di che cosa infatti <hanno luogo> l’irrompere e il rifluire del mare, o di che cosa gli avanzamenti o i disseccamenti e le modificazioni, e in generale i mutamenti ora in un senso ora nell’altro. […] Inoltre la grandezza delle corna, come <quelle> dei cervi che da esse sono pure danneggiati […] e altre e non poche cose di questo tipo si potrebbero prendere <ad esempio>» (IX 29, 10b1-16, p. 69). Repici osserva a questo proposito che «non è di Aristotele l’assunto che ogni cosa è in vista di un fine e nulla invano, dato che egli non esclude l’esistenza di cose che accadono accidentalmente e senza un fine. Ciò vuol dire che siamo di fronte non a una teleologia strutturalmente illimitata, ma ad una teleologia compatibile con l’esistenza di una necessità condizionante e limitante» (292).
L’intenzione e la natura oggettiva dello sguardo teofrasteo sul mondo sono confermate dalla distinzione tra l’essere del tutto e lo studio del tutto, con la quale l’opera si chiude: «Bisogna cercare di assumere qualche definizione, sia nella natura sia nell’essere del tutto [φύσει και εν του σύμπαντος ουσια], dell’essere in vista di qualcosa e dell’impulso verso il meglio. È questo infatti il punto di partenza nello studio del tutto [ἀρχὴ της του σύμπαντος θεωρἰας], <cioè> in che cosa <consistano> le cose che sono e come sono reciprocamente disposte» (IX 34, 11b24-12a2, p. 73).

Teofrasto formula anche un interessante accenno, ontologico prima che etico, al fatto che nel tutto non soltanto sono necessari i contrari ma anche «il peggio pareggi quasi il meglio, o piuttosto lo sopravanzi anche di molto» (VII 18, 8a22 – 8a25, p. 62). Più in generale, la sua attenzione alla necessità, alla materia biologica (le piante) e a quella celeste (gli astri) rappresenta anche, come in Aristotele, il tentativo di temperare il matematicismo dell’Accademia platonica con un richiamo costante alla potenza della materia formata.
Dato che «si ripaga male un maestro, se si rimane sempre scolari» (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte prima, «Della virtù che dona», § 3; trad. di M. Montinari, Adelphi 1979, p. 92), Aristotele ha espresso molta φιλία – amicizia/amore – verso Platone ma una φιλία ancora più grande verso l’ἀλήθεια, verso il modo in cui l’essere si disvela da se stesso e non soltanto attraverso le parole di un maestro. Allo stesso modo Teofrasto mostra di aver ben appreso da Aristotele il rifiuto della auctoritas: la necessità del pensiero rispetto alla semplice ripetizione del già pensato. La sua essenziale e densa metafisica deve infatti molto al filosofo di Stagira ma da lui si distanzia aprendo altre strade. Anche questo è uno dei frutti del metodo aporetico.

«Che l’uomo non sia carnivoro per natura»

Plutarco
Del mangiare carne
Trattati sugli animali
(Plutarchi Moralia selecta: De esu carnium; Bruta animalia ragione uti; De sollertia animalium)
Introduzione di Dario Del Corno
Traduzione e note di Donatella Magini
Adelphi, 2001
Pagine 296

Una delle ipotesi più accreditate sulle origini del Coronavirus è che si sia sviluppato nei mercati di carne animale, viva e morta. Può dunque essere utile leggere quanto un antico saggio ha argomentato contro la pratica umana di mangiare la carne di altri animali.
Il volume – ben tradotto e arricchito da due feconde introduzioni e da un imponente apparato di note – raccoglie infatti tre testi di Plutarco (47-127) dedicati all’animalità: De esu carnium; Bruta animalia ragione uti; De sollertia animalium, vale a dire Del mangiare carne, Gli animali usano la ragione, L’intelligenza degli animali di terra e di mare (questo il vero argomento, al di là del modo in cui viene intitolato in latino il terzo testo). 

Molto più che trattati di zoologia antica, molto più che una godibilissima antologia di centinaia di affascinanti leggende greche e romane sul mondo animale, le pagine di Plutarco mostrano alcune delle ragioni per le quali i due immediati successori di Aristotele alla guida del Peripato – Teofrasto e Stratone di Lampsaco – si allontanarono dalla scala naturae del Maestro, sostenendo invece la presenza di una ψυχή, della mente, in tutti gli animali.
Il paradigma proposto da Teofrasto, Stratone, Plutarco è opposto a quello biblico ben testimoniato dalle parole che Yahweh (הְוֶה) rivolge a Noè all’uscita dall’arca: «Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo» (Genesi, 9, 2–3; trad. La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane 1988, p. 50).

Il paradigma di questi Greci si può invece riassumere in alcuni punti tanto chiari quanto fondamentali per comprendere le dinamiche dell’οἶκος, della comune abitazione dei viventi:
-tutti gli animali, qualunque sia la loro specie, sono dotati di percezione, ragionamento, comprensione della complessità degli ambienti nei quali vivono. A volte alcuni di essi impazziscono e non si può impazzire se non si possiede la ragione. Essi tutti sono in grado di comprendere i pericoli e di perseguire i vantaggi, in caso contrario semplicemente non esisterebbero; rispetto agli umani, sono anche dotati di un maggiore equilibrio nei comportamenti quotidiani, tanto è vero – afferma Grillo nel Bruta animalia ragione uti – che «le bestie, invece, hanno un animo totalmente inaccessibile e impenetrabile alle passioni di provenienza esterna, e vivono tenendosi lontano da vane illusioni» (cap. 6, 989 C, p. 91). Una superiorità etica alla quale si ispirò Machiavelli per il suo splendido e incompiuto poema L’Asino;
-tra le passioni che li muovono, gli umani nutrono una ferocia smodata, una costante aggressività, un eccesso persino sadico, dal quale le specie carnivore sono invece libere. Se infatti «per loro [serpenti, pantere, leoni] il sangue è un cibo vitale, invece per voi è semplicemente una delizia del gusto» (De esu carnium, 2, 994 B; 58), sino al punto che «per un minuscolo pezzo di carne priviamo un essere vivente della luce del sole e del corso dell’esistenza, per cui esso è nato ed è stato generato» (Ivi, 3, 994 E ; 59-60);
-la struttura anatomo-fisiologica di Homo sapiens è la più evidente prova della sua natura frugivora e non carnivora: «Che l’uomo non sia carnivoro per natura, è provato in primo luogo dalla sua struttura fisica. Il corpo umano infatti non ha affinità con alcuna creatura formata per mangiare la carne: non possiede becco ricurvo, né artigli affilati, né denti aguzzi, né viscere resistenti e umori caldi in grado di digerire e assimilare un pesante pasto a base di carne. Invece, proprio per la levigatezza dei denti, per le dimensioni ridotte della bocca, per la lingua molle e per la debolezza degli umori destinati alla digestione, la natura esclude la nostra disposizione a mangiare la carne. Se però sei convinto di essere naturalmente predisposto a tale alimentazione, prova anzitutto a uccidere tu stesso l’animale che vuoi mangiare. Ma ammazzalo tu in persona, con le tue mani, senza ricorrere a un coltello, a un bastone o a una scure» (Ivi, 3, 994 F -995 A; 60-61);
-l’abitudine al sangue e alla violenza inflitta ad altri animali si trasforma inevitabilmente in crudeltà verso i propri conspecifici, verso gli umani. Lo hanno ribadito, tra gli altri, filosofi come Kant, Schopenhauer, Horkheimer, Adorno, Marcuse e lo afferma con chiarezza anche Plutarco: «Queste pratiche insegnano […] a considerare il sangue, la morte di esseri umani, le ferite e i combattimenti il più raffinato degli spettacoli» (Ivi, 2, 997 C, 67); «Una volta che ebbero così gradualmente temprato la propria insaziabilità, gli uomini si volsero alle stragi dei loro simili, ai delitti e alle guerre» (Ivi, 4, 998 C; 70); «La caccia sia responsabile del diffondersi fra gli uomini dell’insensibilità e della ferocia» poiché essa corrobora «la componente sanguinaria e ferina, che è insita in loro [gli umani] per natura, e la resero inflessibile alla pietà […] Infatti l’abitudine è straordinariamente efficace nel far progredire l’uomo con il graduale insinuarsi degli affetti» (De sollertia animalium, 2, 959 D-F, 106-107);
-nutrirsi della carne di altri animali è, di fatto, un nutrirsi di cadaveri. Plutarco è su questo punto del tutto chiaro: «Io mi domando con stupore in quale circostanza e con quale disposizione spirituale l’uomo toccò per la prima volta con la bocca il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto; e imbandendo mense di corpi morti e corrotti, diede altresì il nome di manicaretti e di delicatezze a quelle membra che poco prima muggivano e gridavano, si muovevano e vivevano. […] Come mai quella lordura non stornò il senso del gusto, che veniva a contatto con le piaghe di altre creature e che sorbiva umori e sieri essudati da ferite mortali?» (De esu carnium, 1, 993 B; p. 55).

L’ultimo trattato è il più lieve e curioso. In esso infatti due interlocutori, Aristotimo e Fedimo, difendono con convinzione rispettivamente l’intelligenza profonda degli animali di terra e di aria e quella degli animali marini. Una lode che arriva sino all’ammirazione e al sacro. Una lode così convinta che Soclaro, che li ha ascoltati, conclude che «collegando i vostri discorsi contrapposti, entrambi lotterete insieme validamente contro chi priva gli animali di ragione e di intelligenza» (De sollertia animalium, 37, 985 C, 188). Emerge in questo modo evidente la contraddizione logica e retorica che intride tutto il dialogo e che consiste nel fatto che gli animali così efficacemente descritti, dei quali si dimostra la sensibilità, l’intelligenza, la nobiltà dei comportamenti, vengano lodati da coloro che però difendono poi la caccia che a loro viene data, la morte che a loro viene inferta.
Credo si tratti di un effetto voluto da Plutarco, il quale – per bocca di Fedimo – riconosce l’universalità della lotta, della violenza e della morte che intridono il mondo dei viventi, di tutti gli animali: «E la natura ha creato per loro tale ciclo e tale avvicendarsi di reciproci inseguimenti e fughe come esercizio e pratica di competizione per l’abilità e l’intelligenza» (Ivi, 27, 979 A, 168). E però l’intelligenza è capace di allontanarci, per le ragioni da Plutarco ben argomentate, da una pratica tanto insensata quanto feroce come il mangiar carne.

Vai alla barra degli strumenti