Skip to content


Il tempo, le larve

Piccolo Teatro Strehler – Milano
La notte dell’Innominato
da Alessandro Manzoni
Regia e adattamento Daniele Salvo
Con: Eros Pagni (L’Innominato), Gianluigi Fogacci, Valentina Violo, Simone Ciampi
Produzione Centro Teatrale Bresciano e Teatro de Gli Incamminati
Sino al 31 ottobre 2021

La notte è il luogo della pace ma anche dell’angoscia, dei tormenti che da nulla possono essere attutiti, risolti, ribaltati. L’intero peso della vita a volte si raggruma nell’insonnia, nelle ragioni disperate e violente che impediscono al corpomente di placare la propria fame di dolori. Onde su onde allora rendono il tempo un istante che non finisce più e al quale l’albeggiare sembra offrire solo i segni lividi della morte che si è stati, della morte che si è desiderato essere. Questo può accadere anche a un uomo spietato, sicuro sino alla tracotanza, portatore di morte e di dolore per tanti. Ma Francesco Bernardino Visconti (1579-1647) non sentiva più soddisfazione nel crimine e anzi «già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze» (I Promessi Sposi, a cura di Giovanni Getto, Sansoni Editore, Firenze 1985, cap. XX, p. 475).
E allora bastò -nella finzione del romanzo- che davanti a quest’uomo di malaffare piangesse una donnetta per ridurlo all’angoscia più insostenibile. «Cos’è stato? che diavolo m’è venuto addosso? che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?» (Ivi, cap. XXI, pp. 502-503), dice nella notte a se stesso rimproverando nella notte se stesso, cercando a tentoni nel buio l’uomo che è stato e che ora non è più. A ogni modo pur di scrollare da sé quel tormento, è pronto a liberare la ragazza. Lo farà. Subito, al mattino. Ma «poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l’altro? che farò dopo doman l’altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!» (Ivi, cap. XXI, p. 506).

Questo il nucleo di una messa in scena fedele al testo del romanzo e capace di rinnovarne la lettura tramite dipinti che diventan vivi -Bosch, Antonello e altri-; mediante il trasformarsi dei terrori interiori dell’Innominato in figure orribili e potenti; attraverso quella tonalità gotica che costituisce uno dei segreti dei Promessi Sposi.
È in questa notte che Manzoni ha toccato uno dei vertici della sua arte: il tempo, la noia, il vuoto, l’essere per la morte. Sì, gli esistenziali di Essere e tempo: «Ricaduto nel vòto penoso dell’avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti» (Ibidem). Quest’ultima frase non vale soltanto per un criminale incallito, per un delinquente diventato vecchio, per un personaggio di romanzo, per una psiche ormai consunta. Questa frase suona per noi, vale per tutti; è vera per l’umano fatto di tempo, divenire, attesa; costituito di «gewesen-gegenwärtigende Zukunft», ‘avvenire essente-stato-presentante’ (Sein und Zeit, §§ 7C e 65).
Quando il tempo diventa il nemico e l’andare delle ore si trasforma nell’insostenibile itinerario dell’assurdo, vuol dire che intorno a noi si addensano le allucinazioni delle quali questo spettacolo è cosparso: nere come la notte, lugubri come il terrore, impersonali come il vuoto. Larve che scandiscono il fallimento dell’esistere e trasformano i corpi nel battere irrefrenabile dei denti, della febbre, di un’alba che è ancora notte.

La grandezza di Manzoni sta anche nel disvelamento della psiche umana ma abita soprattutto nella piena consapevolezza gnostica del male. L’Innominato è questa  psicologia, è questa conoscenza. Certo, poi tale consapevolezza si dissolve nella gloria edificante della provvidenza incarnata dal cardinale Borromeo. Ma a quel punto interviene un bisogno di superficiale redenzione morale. La sostanza profonda sta nelle altre poche pagine dalle quali l’assurdo dell’esserci, di ciò che si è fatto, del vuoto che si farà, emerge come un mostro indicibile dal lago del tempo.
«Un qualche demonio ha costei dalla sua, – pensava poi, rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una parte del pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta, disegnava un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate, e intagliata più minutamente dai piccoli compartimenti delle vetriate. – Un qualche demonio, o… un qualche angelo che la protegge… Compassione al Nibbio!… Domattina, domattina di buon’ora, fuor di qui costei; al suo destino, e non se ne parli più, e, – proseguiva tra sé, con quell’animo con cui si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà, – e non ci si pensi più. Quell’animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con ringraziamenti; che… non voglio più sentir parlar di costei. L’ho servito perché… perché ho promesso: e ho promesso perché… è il mio destino» (ivi, cap. XXI, p. 496).
Il destino, appunto, il demone che esso è per l’umano. Ἀνάγκη, l’inevitabile. Sino a che la morte verrà a offrire a questo grumo di passioni la grazia. E allora la notte sarà solo pace.

L’eterno ritorno dei quanti

Source Code
di Duncan Jones
Sceneggiatura di Ben Ripley
USA – Francia, 2011
Con: Jake Gyllenhaal (Colter), Michelle Monaghan (Christina), Vera Farmiga (Goodwin), Jeffrey Wright (Rutledge), Michael Arden (Derek)
Trailer del film

Invece che in Afghanistan, un capitano dell’esercito USA si risveglia dentro un treno, con davanti a sé una ragazza che non ha mai visto ma che lo chiama con un nome non suo e gli parla come fosse la sua fidanzata. Davanti allo specchio del vagone vede una persona che non è lui. Trascorrono 8 minuti e il treno esplode. Il capitano Colter è però ancora vivo, sta in una specie di capsula, da un video gli parlano altri militari e un fisico quantistico. In qualche modo gli spiegano che non si trova più in Afghanistan, che un programma digitale quantistico -denominato Source Code– gli consente di assumere il corpo di un’altra persona morta, anche se limitatamente agli ultimi 8 minuti che precedono il morire. E che il compito che gli è stato affidato consiste nello scoprire chi sia stato a mettere la bomba sul treno, poiché il responsabile sta per portare a termine un nuovo devastante attentato.
Come si vede, la Science Fiction comincia ad attingere alle oscurità e ai profondi controsensi della meccanica quantistica per costruire storie interessanti come questa. Il responsabile del progetto, infatti, spiega al capitano Colter che «non si tratta di viaggiare nel tempo ma di redisporre il tempo», non di influire sul passato (cosa che qualunque teoria fisica nega e non può che negare, pena il cadere nell’assurdo e in paradossi irresolubili come quello del figlio che tornando nel passato uccide il padre che lo ha generato) ma di evitare che qualcosa accada nel futuro. La base di tutto questo è l’ipotesi del multiverso, a sua volta fondata sulla teoria delle stringhe, secondo la quale la materia non sarebbe composta di particelle discrete e compatte ma di stringhe infinitesimali che vibrando incessantemente e in modo differenziato producono le componenti atomiche, dai quark agli elettroni. Il cosmo quindi, da una delle nostre cellule sino alle galassie più estese, sarebbe composto di processi e non di entità statiche, cosa -quest’ultima- che mi sembra del tutto plausibile.
Della ipotesi delle stringhe si danno in realtà cinque versioni. Si chiama M-teoria il tentativo di unificarle in una concezione la quale ritiene che lo spazio visibile e percepibile sia solo parte di un cosmo più vasto, costituito da immense membrane (braneworld) che a loro volta vibrano, si avvicinano e si allontanano generando in tal modo una varietà di universi e tra questi il nostro. Universi non soltanto spaziali ma anche temporali e nei quali dunque la minima variante può generare sviluppi degli eventi del tutto diversi, come appunto accade durante le cinque volte nelle quali il capitano Colter si risveglia sul vagone, dando vita a cinque diversi sviluppi degli stessi eventi. Che sia il frutto di fluttuazioni nel caos primordiale (alla Boltzmann) o di una ordinata produzione di multiversi inflazionari (tesi preferita dalla maggior parte dei fisici), la realtà che ci appare sin dentro le più remote distanze dell’orizzonte cosmico (e cioè dello spaziotempo la cui luce ci sia già arrivata), ciò che insomma chiamiamo universo, sarebbe parte di un tutto e questo tutto comporterebbe un numero indeterminato di mondi nei quali l’esistenza di ciascuno di noi come di ogni ente vivrebbe diramazioni, fatti, alternative diverse.
Il mondo che percepiamo e nel quale conduciamo le nostre esistenze spaziotemporali appare come l’ombra di Platone, il velo delle Upanishad e di Schopenhauer, il fenomeno kantiano. Illusioni confermate dalla teoria quantistica, in particolare dalla interpretazione di Copenaghen e di Bohr, per le quali «prima di misurare la posizione di un elettrone non ha senso chiedersi dove si trovi: non ha una posizione definita […] Ciò non significa che l’elettrone ha una posizione che noi non riusciamo a conoscere se non dopo averla misurata: in realtà esso non possiede proprio una posizione definita prima che si effettui la misurazione» (Brian Greene, La trama del cosmo. Spazio, tempo, realtà [The Fabric of Cosmos: Space, Time and the Texture of Reality, 2004] Einaudi, 2006. p. 113).
Una grande mitologia scientifica è la fisica dei nostri giorni. Essa non solo rende plausibili, con il “teorema di ricorrenza” di Poincaré, l’eterno ritorno di tutte le cose in una «freccia del tempo [che] forse, è in realtà un anello che gira in continuazione su se stesso» (Ivi, pp. 211 e 446) ma si fonda e si esprime in una serie di eventi, di dinamiche e di singolarità (situazioni estreme nelle quali le leggi fisiche conosciute vengono sospese) che somigliano molto a dei veri e propri miracoli, come ad esempio l’assoluta singolarità (in ogni senso) della spinta inflazionaria che avrebbe dato origine all’espansione della materia ma che non si sa bene da dove e come abbia assunto tutta la sua impensabile energia. Ma c’è di peggio: affinché la teoria delle stringhe sia corretta, bisogna postulare che la materia si squaderni in dieci dimensioni e che pertanto ci siano «da qualche parte sei dimensioni di cui nessuno si è mai accorto. Questo non è un dettaglio tecnico, ma una tragedia» (Ivi, p. 424). Non stupisce che di fronte a simili postulati, condizioni, conseguenze, «alcuni scienziati protestino vibratamente: una teoria così aliena dalla sfera dell’osservabile e dello sperimentabile è una teoria filosofica o teologica, non fisica» (Ivi, p. 416).
Su che cosa quindi si fonda tutta questa complessa e improbabile costruzione fisico-cosmologica? Su alcuni risultati osservativi indiretti riguardanti la dinamica delle particelle elementari e soprattutto su inferenze speculative basate su teorie matematiche. Ma questo vuol dire che la cosmologia contemporanea e le più avanzate ipotesi della fisica dei quanti sono di fatto una teologia matematica. E questo significa che la fisica teorica contemporanea ha cambiato statuto. Non è più scienza nel senso galileiano ma «una rama de la literatura fantástica» (Borges, Tlön, Uqbar, Orbis tertius, in Finzioni, «Tutte le opere», Mondadori 1991, vol. I,  p. 631). Letteratura fantastica appunto, come anche questo coinvolgente film dimostra.

La Realtà

Il 30.9.2021 ho tenuto una relazione nell’ambito del Convegno internazionale organizzato dai colleghi del Dipartimento di Scienze della Formazione di Unict. Convegno dedicato a L’invenzione della realtà. Scienza, mito e immaginario nel dialogo tra realtà psichica e mondo oggettivo.
Metto qui a disposizione l’audio del mio intervento, nel quale ho cercato di delineare forme, statuto e strutture di ciò che chiamiamo realtà. Più sotto, alcuni dei temi che ho affrontato.

Qualunque sia lo specifico tema e ambito di una ricerca scientifica, essa presuppone almeno due elementi: 

  1. che l’oggetto di indagine esista in qualche modo, non soltanto e non necessariamente nella modalità fisico-chimica dell’occupare un volume nello spazio attraverso una massa di atomi o mediante tutto ciò che viene identificato con l’elemento empirico-fisico; 
  2. che di tale oggetto si possa conseguire una conoscenza spiegabile con il linguaggio, una conoscenza dunque che non sia soltanto ineffabile e interiore-psicologica. 
  3. Un terzo elemento consiste nel convergere di ontologia e linguaggio in un ambito che è possibile definire con il termine di verità. 

Ciò che chiamiamo realtà, mondo, essere è una struttura semantica asintotica, che non può essere colta con la certezza assoluta che le vecchie metafisiche e i più giovani scientismi pretendono di raggiungere.
I più avvertiti filosofi materialisti si rendono conto che metafisica e naturalismo non sono in contraddizione, che nozioni e concetti come sostanza, causa, potenza, qualità, quantità, verità, possiedono una densità ontologica e una complessità epistemologica che sarebbe del tutto impoverente disconoscere e negare. Si può partire dall’assunto che tutto ciò che esiste sia di natura fisica e da qui dispiegare metafisiche e ontologie molto articolate, complesse, aperte.
La metafisica è una scienza trascendentale, nel senso che gli oggetti che indaga non possono essere accostati e colti direttamente dalla percezione sensibile ma emergono dalle relazioni che la pluralità di enti che compongono il mondo, lo spazio, il tempo, la materia intrattengono tra di loro; enti che anche altre scienze studiano e che la metafisica riconduce a unità di senso – diventando epistemologia – e a unità di struttura – diventando ontologia.
Un atteggiamento metafisico implica anche l’andare oltre la dualità realismo / trascendentalismo. Il realismo si illude di poter pensare il mondo senza transitare dalla complessità del corpomente che ne elabora i significati. Il trascendentalismo si illude di poter rendere conto dei modi e dei limiti della conoscenza senza ammettere che essa inizia sempre dalla materia che c’è e rimane immersa nella prassi esistenziale ed ermeneutica in cui la vita procede e si raggruma.
Non potremmo esistere se non fossimo parte di un mondo che ci precede e che c’è indipendentemente da qualunque sguardo.
L’essere è insieme e inseparabilmente flusso e permanenza, poiché ogni mutamento ha senso in quanto qualcosa rimane e, di converso, il permanere di un ente si staglia sull’orizzonte del suo mutare, si staglia nel tempo. 

 

Tempi medioevali

Aa. Vv.
TEMPUS AEVUM AETERNITATIS
La concettualizzazione del tempo nel pensiero tardomedievale
A cura di Guido Alliney e Luciano Cova
Olschki Editore, 2000
Pagine XI- 281

Le questioni oggi dibattute sul tempo/temporalità, sulla sua natura fisica e psichica, oggettiva e interiore, sono in gran parte le stesse che vennero affrontate anche dalla Scolastica del XIII e XIV secolo. I testi di filosofi come Alberto Magno, Enrico di Gand, Nicole Oresme costituiscono dei tentativi molto raffinati, analitici, differenti sino all’incompatibilità, di comprendere la natura oggettiva e quella fenomenologica del tempo, cercando poi di coniugarle. Per Enrico di Gand, ad esempio, «scartate le soluzioni estremistiche nelle due opposte direzioni, si tratta quindi di spiegare in che modo si possa dire che il tempo esiste sine anima quanto non sine anima, in conformità per altro alla stessa articolazione della descrizione aristotelica» (P. Porro, p. 95). Il riferimento ad Aristotele, in particolare al IV libro della Physica e alla sua definizione del tempo, è costante e fondativo. Ma di quel riferimento gli Scolastici fanno un uso assai differente, a volte spregiudicato.
Essi si rendono conto che molte delle aporie inerenti la temporalità aristotelica derivano da una spazializzazione del tempo, in particolare dal legame che Aristotele sembra istituire tra il tempo e il movimento. Come ha fatto nel Novecento Sydney Shoemaker, Nicole Oresme cerca invece di separare il tempo dal movimento, tanto che «la dimostrazione dell’indipendenza del tempo dal movimento mette ancor più in luce l’originalità dell’analisi del filosofo normanno. Il tempo non è né la cosa che si muove, come sostiene Ockham, né una conseguenza del movimento: esso, infatti, si moltiplicherebbe in entrambe le eventualità all’infinito. […] La parola tempus, dunque, non equivale concettualmente a motus» ed è piuttosto la «duratio rerum successiva» (F. Zanin, 257). Una durata diversa da quella bergsoniana, più ampia e più comprensiva, poiché si tratta di un durare che non ha luogo soltanto nella mente ma nella struttura stessa della materia di cui le cose sono composte, è la loro materia. Infatti per Oresme

il tempo non è né una sostanza né un accidente strictu sensu; se fosse un accidente, peraltro, di esso non vi sarebbe scientia. È inoltre un esse in senso equivoco, poiché non è annichilabile come una res qualsiasi. Oresme, infine, dimostra che il tempo è unico e indipendente dall’anima e dal moto […] il tempo, che è concettualmente distinto dal moto e dall’anima, è tale anche realmente (Id., 258-259).

Il tempo è dunque «primus omnium successivarum, poiché precede qualunque successione e ne è la misura»; esso non è il movimento ma costituisce «la successio ipsius mobilis: se tutto fosse in quiete, infatti, esisterebbe comunque e scorrerebbe sempre allo stesso modo anche se ogni cosa si muovesse più velocemente di ora» (Id., 259). In sintesi, il tempo non è una cosa ma è un modo d’essere della realtà, «non est aliqua res sed est modus rei» (Id., 260). L’enigma dell’istante va sciogliendosi nella sua struttura profonda, che è una struttura del reale, nel senso della condizione in cui ogni ente si trova in un punto che non è soltanto spaziale ma è spaziotemporale: il punto nello spazio è il luogo, il punto nel tempo è l’istante. Come un luogo non è tutto lo spazio, così un istante non è tutto il tempo. Si superano dunque molte delle presunte aporie legate allo statuto ontologico dell’adesso.

Tutto questo è anche espressione del realismo temporale dell’ortodossia scolastica, quello che indusse il vescovo Tempier a condannare nel 1277 la proposizione secondo la quale «aevum et tempus nihil sunt in re, sed solum in apprehensione» (qui a p. 99). La Scolastica ha certamente ragione a ritenere che il tempo costituisca  una dinamica della realtà tutta intera, che esso sia anche nella mente ma non soltanto in essa.
Che tipo di dinamica? Il tempo è molteplice, lo affermano pensatori assai diversi come Bonaventura, che «a più riprese teorizza una molteplicità di significati del termine ‘tempo’» (L. Cova, 39) e Alberto, il quale scrive che «tempus multipliciter accipitur. Uno modo secundum Theologos alio modo secundum physicos» (Summa de creaturis, I, tr. 2. q. 5, art. 2. sol.; qui a p. 241); la differenza è relativa anche agli enti ai quali si applica.
La distinzione fondamentale è quella tra tempus, aevum ed aeternitatis. La prima è il tempo degli enti contingenti e corruttibili, degli enti finiti. L’ultima è la struttura extratemporale di Dio, la quale non ha un inizio né vedrà mai una fine. Il concetto più interessante è il secondo, aevum. In esso Dante coglie «una possibile continuità tra tempo ed eternità» (I. Sciuto, 8) poiché aevum indica una molteplicità di temporalità che non sono destinate a finire, come il tempo degli enti che nascono e si dissolvono, ma che non sono neppure eterni. È questo il tempo/movimento dei corpi gloriosi -angeli, beati, corpi celesti-, movimento che ha avuto un inizio ma si prolungherà all’infinito. 

Con un gesto di grande interesse, Enrico di Gand cerca di applicare questa forma del tempo anche alle sostanze corruttibili, che sono senz’altro contingenti e destinate a finire ma che se durano e mentre durano partecipano della realtà non mentale del tempo, di un tempo oggettivo e quindi del tutto sostanziale. In Quod., V, q. 13 di Enrico «non ci sono più tre regioni ontologiche ben distinte tra loro (Dio, sostanze incorruttibili, sostanze generali e corruttibili), ciascuna con la propria durata e la propria misura (eternità, aevum, tempo), ma una serie di casi in cui i confini, almeno per quel che riguarda le durate create (aevum e tempus) finiscono in qualche modo per  confondersi e sovrapporsi» (P. Porro, 115).
La fecondità e il grande interesse della riflessione della tarda scolastica stanno dunque nel suo muoversi sì ancora nell’alveo dell’aristotelismo ma nell’attraversarne costantemente i confini, andando anche oltre la tradizionale contrapposizione tra l’interiorità agostiniana e il movimento spaziale. Sempre Enrico di Gand ritiene che «dire che il nostro intelletto concepisce sempre in maniera temporale è ben diverso dal dire che il tempo ‘è’ solo nell’intelletto» (Id., 110). E anche «Alberto non aderisce né ad Aristotele, né ad Agostino», condividendo la tesi di Avicenna «secondo cui il tempo esiste indipendentemente dall’anima» (R. Blasberg, 246). Questi filosofi rifiutano dunque come parziali sia la concezione del tempo come un insieme discreto di istanti/luoghi, sia la concezione del tempo come un insieme anch’esso discreto di atti mentali/interiori, ritenendo invece che il tempo sia «insieme come discreto e come continuo, o meglio come discreto nel  continuo» (P. Porro, 97).
La temporalità umana è salvaguardata nella sintesi dantesca, la quale non è interessata in primo luogo -e come sempre- a una concettualizzazione soltanto teoretica della questione ma anche e soprattutto a «una sua semantizzazione che, in termini generali, potremmo definire ‘esistenziale’» (I. Sciuto, 4).
Per tutti i filosofi medioevali, non soltanto per Alighieri, il corpomente consegue la sua pienezza quando coglie l’unità molteplice del tempo che esso stesso è. Vedere in Dio, nel suo essere un punto/luce matematicamente infinito, «ciò che per l’universo si squaderna» (Paradiso, XXXIII, 87) significa raggiungere una pienezza/compiutezza che è la stessa plenitudo del καιρός, dell’istante perfetto e durevole nel quale si raccoglie l’unità molteplice del tempo, quella che tiene insieme «eternità e tempo, divino e umano» (I. Sciuto, 20).

Nichilismo e Differenza

Nichilismo e Differenza
in InCircolo. Rivista di filosofia e culture
Numero 11 – «Dal corpo oggetto alla mente incarnata»
Giugno 2021
Pagine 459-466

La sezione «Controversie» della rivista InCircolo ospita una discussione a più voci su Emanuele Severino, a partire da un saggio di Dario Sacchi dal titolo Emanuele Severino: il cerchio dell’apparire, un vero e proprio corpo a corpo con i fondamenti logici e le articolazioni fenomenologiche del pensiero di Severino, condotto con maestria da Sacchi.
Nel mio contributo ho cercato di concentrarmi su quanto Sacchi definisce oggettivazione dell’io, che per l’autore costituisce un elemento negativo in quanto ridurrebbe l’umano a un elemento del «destino della necessità» ma che a me pare proprio per questo fecondo. Tale “oggettivazione” infatti inserisce l’ente umano nell’inevitabile andare degli enti, degli eventi e dei processi. Termini ed espressioni, queste, che Severino non avrebbe naturalmente accolto e che tuttavia possono aprire un dialogo non soltanto critico con il suo pensare.
Severino infatti tenta un’operazione diversa ma anche vicina a quella compiuta da Giovanni Gentile (pensatore che nel cammino di Severino ha contato molto) nei confronti della metafisica greca. Se per Gentile il limite originario di tale metafisica è il realismo ontologico, per Severino è il realismo temporale. Per Severino il tempo è un errore e un’illusione, è un deserto nel quale cresce il nulla dell’alienazione che è ogni divenire e ogni credenza in esso. In realtà a me sembra nichilistico il negare la molteplice potenza della Differenza a favore di una sempre uguale Identità.
L’esito nichilistico del pensare severiniano avrebbe potuto essere diverso se il filosofo fosse rimasto più fedele ai notevoli risultati teoretici ed ermeneutici ai quali era pervenuto sin dalla tesi di laurea dedicata a Heidegger e la metafisica (1950). Dall’ontologia fenomenologica di Heidegger Severino fa in questo testo correttamente derivare sia il radicarsi di Heidegger nel terreno del sacro sia il rifiuto heideggeriano dell’etica. La ricchezza dell’ontologia è una delle ragioni dell’insufficienza di ogni sguardo morale sul mondo. È infatti non a causa del suo agire ma per il suo essere una parte dell’intero che il Dasein è intessuto di nulla, poiché in quanto ente non è l’essere. Anche senza esplicitamente tematizzarla, Severino riconosce la natura gnostica del pensare heideggeriano, a partire dall’«esser fondamento di una nullità: Grundsein einer Nichtigkeit».

[Nello stesso numero della rivista si può leggere un denso saggio di Elvira Gravina, mia allieva alcuni anni fa nel corso di filosofia della triennale a Unict, dal titolo Il Sé temporale]

 

Biotecnologie e antropodecentrismo

Venerdì 10 settembre 2021 alle 9.30 terrò una relazione nell’ambito di un Convegno dedicato a Technology and coexistence. Phenomenological and anthropological perspectives.
Il Convegno si svolge in presenza presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Federico II di Napoli (Aula Aliotta, in via Porta di Massa 1). Per chi vuole, è possibile comunque seguire i lavori attraverso il sito indicato nella locandina qui sotto.
Il mio intervento ha come titolo Biotecnologie e antropodecentrismo. Cercherò di argomentare una prospettiva etoantropologica a partire dalla quale comprendere lo statuto e gli scopi sia della sperimentazione animale sia delle più recenti biotecnologie. Esse costituiscono di fatto una disintegrazione dell’animalità, poiché si tratta di mutamenti che non trasformano ma dissolvono l’animale sia nelle manifestazioni empiriche sia nel suo significato ontologico.
Ogni animale, umani compresi, ha il proprio modo di stare al mondo, le proprie specificità etologiche, la propria struttura percettiva e situazione spaziotemporale. In una parola la propria Umwelt, lo spaziotempo che ogni vivente consapevole non si limita ad abitare ma lo spaziotempo che è. Tutti elementi che le biotecnologie cancellano imponendo alla vita animale e al singolo vivente strutture spaziali e ritmi temporali del tutto artificiali, estranei alla specificità etologica dell’individuo e della specie.
L’animalità è trasformazione, certo, è ibridazione, scambio, flusso ma tutto questo ha senso e conduce a risultati adattivi nei tempi lunghi dell’evoluzione. Privare l’animale del tempo significa togliergli tutto, costringerlo in un blocco temporale privo di ciò che alla vita animale dà senso e giustificazione: i movimenti predatori e di difesa, l’orizzonte di attesa, l’immersione nell’ambiente dato. Le biotecnologie riducono l’animalità a un’invenzione brevettabile; costituiscono quindi una pratica di sterminio e rappresentano il momento più basso delle relazioni tra l’animale umano e gli altri animali.

 

 

Metamorfosi

Ovidio
in Vita pensata, n. 25, luglio 2021, pagine 86-89

Un Trionfo del Tempo sono le Metamorfosi di Ovidio. Sono anche tale trionfo. Questo libro fondamentale della cultura europea è un’enciclopedia del mito e della storia, della vicenda umana nel Mediterraneo antico e delle passioni che sempre e ovunque accompagnano e costituiscono gli umani. Passioni narrate ancor prima che cantate. Ovidio ha infatti scritto un romanzo, il primo romanzo dell’Occidente. Un romanzo libero dalla psicologia, un romanzo che narra in modo insieme oggettivo e fantastico gli eventi più vari, il più imprevedibile divenire.
Anche le trasformazioni più bizzarre e impossibili appaiono plausibili sino alla naturalezza e quasi ovvie poiché sono fondate su una decisa posizione antropodecentrica, che non attribuisce alcun primato ed esclusività all’umano, il quale viene posto nella necessaria contiguità con i divini, con gli altri animali, con la natura, le cose, gli eventi che da lui non dipendono e ai quali invece è del tutto sottomesso mentre ogni ente è sottoposto alla potenza primigenia e infinita del divenire e del tempo.
Nessun antropocentrismo, nessun privilegio attribuito all’umano, anche perché tra tutte le specie viventi ed enti mondani Homo sapiens è il più distruttivo, un vero e proprio errore degli dèi e della natura. Questo «inmedicabile vulnus» (I, 190), questa incurabile ferita, va estirpata poiché «qua terra patet, fera regnat Erinys» «dovunque si estende la terra, impera selvaggia la Furia!» (I, 241; 17).
Anche Ἀνάγκη, anche le Parche sono forma, segno e strumento della potenza vera e suprema, che è il Tempo, che è il divenire, che è – nel linguaggio contemporaneo – la termodinamica. La prima delle sue leggi è infatti il vero fondamento filosofico e concettuale delle Metamorfosi, presente ovunque e sempre confermata. Il primo principio è espresso con la densa efficacia della lingua latina: «Omnia mutantur, nihil interit» «Tutto si trasforma, nulla perisce» (XV, 165; 613) perché niente nasce dal niente e nulla muta nel nulla.
Le Metamorfosi sono storie raccontate dentro altre storie, mutazioni dentro altre trasmutazioni, dentro l’incastro incessante di elementi che è il reale.

Vai alla barra degli strumenti