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Italia / Europa

GRAND TOUR. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei
Gallerie d’Italia – Milano
Sino al 27 marzo 2022

[Barberi, Veduta dei Fori romani, 1854; l’immagine di apertura è di Hackert, I Faraglioni di Aci Trezza, 1793]

L’Italia, l’antico, la storia, la bellezza. L’Italia, fonte e antologia dell’Europa, è stata solcata, conquistata, abbandonata, ammirata, dipinta, scolpita. Alcune tracce se ne vedono nella mostra milanese dedicata al  Grand  Tour, al Grande Itinerario che attraversa le capitali -Roma, Venezia, Napoli, Firenze- ma anche centri minori e soprattutto l’Isola del mito, dell’incanto e della morte: la Sicilia.

[Waldmülle, Rovine del Teatro di Taormina, 1844]

Di essa, come è noto, Goethe affermò che «l’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna immagine nell’anima. Qui è la chiave di tutto». Meno note ma altrettanto vere sono le parole che il poeta dedicò a Napoli, descritta come «un paradiso; tutti vivono in una specie di ebbrezza e di oblio di se stessi. A me accade lo stesso; non mi riconosco quasi più, mi sembra d’essere un altr’uomo» . Di Goethe si vedono qui alcuni celebri ritratti, ai quali fanno compagnia un ritratto di Piranesi e due di Winckelmann, uno degli scopritori del mondo greco, dell’arte classica, della sua perennità, misura, splendore. Il mondo greco non fu, naturalmente, solo quella misura ma fu anche vibrazione verso il limite ultimo della potenza, fu violenza, passioni, inquietudine. Una testimonianza è la statua della Artemide Efesia, che apre la mostra è che la domina con la sua sovrabbondanza di sacralità, distanza, implacabilità.

[Ducros, Teatro Greco di Siracusa]

Poi si susseguono, senza un ordine preciso e anche questa è una buona scelta, i luoghi dell’Italia, le città, le rovine -Roma, Pompei-, i vulcani -il Vesuvio e l’Etna-, i teatri -Siracusa, Taormina-, i templi -Agrigento, Paestum-, le feste -Venezia, Napoli-, le tempeste -come un singolare Temporale a Cefalù di Ducros (qui sotto), nel quale una imbarcazione sembra volare sui boschi e Zeus scagliare fuoco e folgori dal cielo.

E insieme al  cielo, i mari, le mura delle città, i palazzi, la vita, le esistenze, il tempo…

Qui l’umana speranza e qui la gioia,
qui’ miseri mortali alzan la testa
e nessun sa quanto si viva o moia.
Veggio or la fuga del mio viver presta,
anzi di tutti, e nel fuggir del sole
la ruina del mondo manifesta.
[…]
Passan vostre grandezze e vostre pompe,
passan le signorie, passano i regni;
ogni cosa mortal Tempo interrompe,
e ritolta a’ men buon, non dà a’ più degni;
e non pur quel di fuori il Tempo solve,
ma le vostre eloquenzie e’ vostri ingegni.
Così fuggendo il mondo seco volve,
né mai si posa né s’arresta o torna,
finché v’ha ricondotti in poca polve.
[…]
Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro;
chiamasi Fama, et è morir secondo;
né più che contra ‘l primo è alcun riparo.
Così ‘l Tempo triunfa i nomi e ‘l mondo.

Francesco Petrarca, Trionfo del Tempo, vv. 64-69; 112-120; 142-145.

Giusy Randazzo su Tempo e materia

Giusy Randazzo
Una metafisica antropodecentrica
A proposito di Tempo e materia. Una metafisica
in Koinè, anno XXVIII – 2021
«Ideali di Comunità»
pagine 197-204

Indice
-La tetralogia sul tempo
-Una metafisica

«Dove è l’uomo, dunque, in questa prospettiva? Dove deve stare: al suo posto. Un posto minimo, scomodo, modesto, disagiato, persino carente, in cui l’esserci avverte la fatica del corpomente che ha il terribile privilegio di un’autoconsapevolezza in cui la ragione ha fatto irruzione mostrandogli la prospettiva che lo nientifica continuamente mentre lo fa essere nell’attesa di non essere più. Questa ontologia restituisce dignità a ogni ente e non a partire da una Natura-Dio – “Φύσις non è ‘natura’, φύσις è ἀρχή κινήσεως, è principio, origine e sostanza del mutamento, è costante divenire dell’ente che è e non sta fermo mai, la cui unica costante è μεταβολή, è la trasformazione, è quindi il divenire, è il tempo” (p. 94) – ma a partire da una filosofia prima che rimette al loro posto gli enti, gli eventi e i processi che da sempre sono dove devono essere e non sono dove non devono essere. Una metafisica che ci invita a tornare là: alla pienezza di senso della filosofia aurorale, almeno fintanto che ci sarà un tempo umano». 

Infinito

Piccolo Teatro Studio – Milano
De infinito universo
Testo, ideazione visiva e regia Filippo Ferraresi
Scene Guido Buganza
Luci Claudio De Pace
Musiche Lucio Leonardi (PLUHM)
con Gabriele Portoghese, Elena Rivoltini, Jérémy Juan Willi
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
coproduzione Théâtre National Wallonie – Bruxelles
Sino al 13 febbraio 2022

«Non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole; ma tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose, le quali non sono più né meno in un cielo ed un loco ed un comprendente, che questo mondo, in cui siamo noi, è in un comprendente, luogo e cielo». Lo scrive Giordano Bruno in De l’infinito, universo e mondi, un dialogo del 1684 (Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici, a cura di G. Gentile e G. Aquilecchia, Sansoni 1985, I volume, p. 463).
Lo spettacolo in scena al Piccolo di Milano assume di Bruno la prospettiva e il coraggio. La prospettiva è infatti quella dell’infinità del tempo, dello spazio e della materia. E dunque l’infinità degli enti, degli eventi e dei processi. Il coraggio è l’elemento più proprio di questo tentativo di tradurre il pensiero in gesti. Filippo Ferraresi cerca infatti di far recitare gli oggetti, far recitare i concetti. Lo fa attraverso fili che si tendono, sfere e cerchi che danzano, maschere apotropaiche, luci generate dai moti, e mediante i movimenti atletici e di danza di Jérémy Juan Willi, che veramente sembra volteggiare nell’aria, muoversi con la leggerezza di un uccello, comporre geroglifici con il corpo.
De infinito universo ha una struttura triadica. Inizia con una lezione di astrofisica chiara e coinvolgente, durante la quale a poco a poco emerge la smisurata misura della materia cosmica e l’essere nulla della Terra in essa. Appare poi un pastore che sente, pensa e recita il Canto notturno di Leopardi, dall’iniziale interrogativo  «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi che fai / Silenziosa luna?», transitando per il nascere dell’uomo a fatica, «ed è rischio di morte il nascimento», attraversando la «stanza smisurata e superba» dell’universo, sino al conclusivo ed esatto «è funesto a chi nasce il dì natale». Si chiude con un’attrice che canta note gelide e antiche, trasformandosi poi nella collaboratrice di un potente personaggio politico -l’attuale e infausta presidente della Commissione Europea- al quale chiede se ci si possa accontentare dei bilanci finanziari trimestrali e della crescita o meno del PIL o se si debba cercare un significato diverso al nostro stare al mondo. Alla signora che dirige assai male il governo dell’UE vengono rivolte altre critiche che mi ha sorpreso ascoltare in uno spettacolo messo in scena in uno dei luoghi più istituzionali di Milano.
I tre monologhi sono intersecati dai movimenti atletici del danzatore e da un insieme bellissimo e necessario di luci che fendono lo spazio, che sorgono dalla terra, che indicano e insieme si dissolvono, esattamente come fa ogni luce nel mondo.
Nella lezione dell’astrofisico, nell’interrogare di Leopardi, nella lettera ai potenti, si percepisce tutta la forza della materia e del tempo, dell’entropia e della dissoluzione. Un «teatro transdisciplinare», come lo definisce l’autore/regista, fatto di testo, immagini, energia dei corpi.
Al centro e ovunque l’infinito della materia, uno dei concetti fondamentali della filosofia e delle scienze che vennero dopo Giordano Bruno. Fu infatti in gran parte il concetto bruniano di infinito a mettere in crisi il paradigma antropocentrico – confermato per millenni dalla cosmologia tolemaica e aristotelica – e poi ad ampliare gli spazi della mente e della materia verso misure impreviste e impensabili.
Se l’astronomia antica dava conforto alla mortalità umana ponendo la nostra specie in ogni caso al centro del cosmo, la scienza contemporanea ha aperto agli astronomi e a tutti gli umani «il regno delle galassie e relegato la Via Lattea a semplice esemplare di un universo isola» (Massimo Capaccioli, L’incanto di Urania. Venticinque secoli di esplorazione del cielo, Carocci 2020, p. 278), dentro il quale l’esistenza e il millenario lavoro delle menti coscienti non hanno più peso e significato del rotolare di un sasso sulla Luna.
Pervenire a tale consapevolezza, essere lieti dei propri limiti dentro la perfezione del cosmo, anche questo e credo soprattutto questo sia la filosofia.

Samarcanda

11 minuti
(11 minut)
di Jerzy Skolimowski
Polonia – Irlanda, 2015
Con: Paulina Chapko (Anna Hellman), Richard Dormer (Richard Martin), Wojciech Mecwaldowski (Il marito di Anna)
Trailer del film

Alcuni personaggi e le loro vite dalle ore 17.00 alle 17.11 di un giorno qualsiasi, in una grande città. Esistenze, caratteri, professioni, obiettivi molto diversi tra di loro. Persone tutte con le loro passioni, timori, rassegnazioni, incertezze e fermezze. Persone che si sfiorano, alcune delle quali si conoscono, altre ancora non si incontreranno mai se non alle 17.11 nei pressi di un albergo. In questi pochi minuti sul cielo della città compare un aereo a bassa quota e un qualcosa che i personaggi indicano ma che non si vede se non, forse, come una piccola macchia su un monitor di sorveglianza. Macchia che però può anche essere, come dice un vigilante «la cacca di una mosca». Oppure è un simbolo del caso e della necessità intrecciate? Come si vede, il film è molto ambizioso ma rischia di risultare anche pretenzioso. Suo merito è la cura di ogni particolare, in modo da giustificare la dilatazione del tempo vissuto -11 minuti, appunto- nel tempo della narrazione e degli incroci casuali e necessari dei quali il racconto è costituito. Un esercizio di stile che vorrebbe diventare anche una meditazione filosofica, senza però la chiarezza e la forza che ogni teoresi deve possedere.
11 minuti mi ha in ogni caso ricordato la leggenda di Samarcanda: un uomo di Isfahan che non voleva morire vide una sera la morte che lo aspettava sulla soglia di casa. L’uomo non la lasciò parlare e, terrorizzato, cavalcò due giorni e tre notti in direzione di Samarcanda. Qui, sicuro di aver allontanato ancora per molto la morte, entrò in una camera d’albergo dove tuttavia la trovò tranquillamente seduta ad aspettarlo. Ed essa gli rivolse queste parole: “Sono felice che tu sia arrivato e in tempo, temevo che ci perdessimo, che tu andassi da un’altra parte o che tu arrivassi in ritardo. A Isfahan non mi lasciasti parlare. Ero venuta per avvisarti che ti davo appuntamento all’alba del terzo giorno nella camera di quest’albergo, qui a Samarcanda”.

[Photo by DAVIDCOHEN on Unsplash]

Età

Manlio Sgalambro
Trattato dell’età
Una lezione di metafisica 
Adelphi, 1999
Pagine 130

Il fondamento metafisico di questo trattato è il fatto che la realtà, tutta la realtà, è distruzione. Esattamente «una distruzione continuata. […] È come se alla realtà corrispondesse (o qualcosa facesse corrispondere) quel minimo indispensabile affinché la ‘distruzione’ possa compiersi. L’individuo vive quel tanto che è necessario per morire. […] Le cose hanno quel tanto di realtà che consente loro di essere distrutte» (pp. 10-11). Un’affermazione del tutto corretta e lontana da ogni ‘pessimismo’ o atteggiamento ‘apocalittico’, come con chiarezza Sgalambro scrive nelle pagine finali: «‘Io non sono un apocalittico, ma un termodinamico’, afferma l’esponente della conoscenza tarda, lo spirito freddo, colui che abbiamo chiamato il ‘vecchio’; ‘La vecchiaia sopravviene per perdita di calore’, Stoicorum veterum fragmenta, B, f, 769» (106).
L’errore di Sgalambro sta nel rifiutare per questa dinamica fisica e metafisica il nome di divenire. Che «la realtà si disgreghi, non ‘diviene’. Non c’è divenire» (12) significa semplicemente chiamare in un modo diverso –disgregazione– la potenza della materia: la termodinamica appunto, l’entropia, il fatto che niente sia e tutto divenga.
Chiarita e rimossa questa opzione lessicale, il trattato va al nucleo reale del tempo e dell’età, che del tempo è un altro nome. Il tempo reale è per Sgalambro non il tempo vissuto, la durata interiore, il flusso di una coscienza, tutte forme queste di un tempo antropocentrico e come tale infimo e inferiore, ma il tempo «esteriore e trascendente […] tempo ‘inumano’» (16), il tempo della Φύσις, dell’intero, il tempo «di una roccia, o quello che si oggettiva nella scorza rugosa di un albero» (ivi), il tempo oggettivo, il tempo del cosmo:

Il tempo non serve a niente, ma siamo noi che ‘serviamo’ il tempo quando esso, dissoltasi la durata, sopravviene come tempo immutabile. Il tempo non va avanti né indietro. Il tempo è pieno ma di se stesso. […] Il tempo è della natura delle cose, non delle coscienze (122).

L’essere, il tempo sono dunque il κόσμος , o – come si esprime Sgalambro – il ‘sistema solare’. Il cosmo la cui legge è appunto la termodinamica, l’entropia, l’incessante distruzione e trasformazione di ogni ente, evento e processo.
Dentro questa ontologia gli umani e tutti i viventi sono poco più di niente, il risultato di una mescolanza di liquidi che produce qualcosa di simile alle feci:

Adorare le proprie fetide evacuazioni o i propri parti è la stessa cosa, metafisicamente parlando. […] Una malattia, un’infermità che la specie si procura semplicemente col riprodursi, viene ritenuta in maniera fuorviante il suo scopo eterno. […] Mia cara, noi sappiamo invece – vero? -che l’amore raggiunge il suo apice allorquando è ‘sterile’ (63).

Amore sterile che viene definito come «l’estrema purezza che si astiene dalla vita, che non dà seguito a questa orrida malattia!» (85). Il filosofo afferma di detestare «quell’atto genitale da cui germina la vita, anche se vi ho ceduto tante volte»1 (64) e formula una assai chiara valutazione della nostra specie:

Devo dire che la malattia più perversa, un flagello più iniquo della peste, è quella che si trasmette col seme e, generando, riempie di ‘dannati’ la terra. Questo è il virus più nefando. Portatori di questa infezione mortale sono coloro nei quali trionfa ‘rebellio membri genitalis contra imperium voluntatis’ Baio, De peccato originis et equa remissionis, cap. III (41-42).

A questo male si contrappone «l’uomo di conoscenza» (il modo in cui Sgalambro definisce il filosofo), in particolare il vecchio e la sua possibilità di un «amore tardo», fatto di parole e di conoscenza oltre che della calma forza del corpo e delle capacità delle quali è ancora intriso. L’amore tardo è in effetti il grande tema, insieme al tempo e alla vecchiaia, di questo trattato.
Gli umani sono amortali poiché «io non muoio, ripeto. Io sono amortale. La morte, la mia morte, è una fola raccontata per impaurirmi. È solo per gli altri che muoio. Sono essi che sanciscono la mia morte nello stesso tempo in cui affermano: è morto» (83). Se questo è vero per tutti i membri della specie, lo diventa in modo peculiare per il vecchio, al quale l’età aggiunge una identità teologica, sacra: «Il ciclo riproduttivo, quello lavorativo, quello sociale sono conclusi per sempre. La ‘vita’ è finita. Ora può cominciare a vivere. Ecco perché in ogni suo atto si coglie il numinoso, come se egli stesso fosse il numen» (110).
Significativo è che la saggezza antica e schopenhaueriana di Sgalambro riconosca tra i suoi maestri non soltanto Kant e Hegel ma anche un nome che in scritture e pensieri come questi fa l’effetto straniante di una luce proveniente da altre stelle: «Le Logische Untersuchungen, quest’opera che – voi lo sapete – è la pietra di paragone di ogni mia ambizione filosofica» (111).
Evidentemente Husserl insegna la filosofia anche a chi, come Sgalambro, pensa in forme e modi così diversi da quelli che Husserl definisce strenge Wissenschaft, scienza rigorosa, e così somiglianti, invece, allo sfogo di un vecchio. Una filosofia che troppo risente di tale vecchiezza non nell’indicare con fermezza che il Sole morirà e che ogni conformazione delle cose è, appunto, «una distruzione continuata» ma nel non sentire che questa è una notizia luminosa, che questa è la verità.

Nota
1. In effetti non soltanto vi ha ceduto ma ha generato anche cinque umani, a conferma della separazione – da Sgalambro teorizzata – tra la vita e l’opera del filosofo; cfr. D. Miccione, «I molti nomi del filosofo», in Manlio Sgalambro. Breve invito all’opera, LetteredaQALAT, Caltagirone 2017.

Sarah Dierna su Tempo e materia

Sarah Dierna
Recensione a Tempo e materia. Una metafisica
in Il Pequod / n. 4 – Novembre 2021 / pagine 96-101

«Tempo e materia. Tempo è materia. È questo il nucleo intorno al quale si condensa e a partire dal quale si dipana la metafisica di Biuso. Una metafisica che parte dall’evidenza che “il mondo è” e che “l’umano è in esso” soltanto come sua parte. […]
Lontano anche da ogni prospettiva soggettivistica, la materia della quale si parla è una materia che “c’è indipendentemente da qualunque sguardo” come i Greci, anch’essi sullo sfondo della metafisica dell’autore, avevano già avvertito, esenti da quella hybris che ha invece caratterizzato la modernità, la quale ha ridotto la realtà ad un “canto solitario e monocorde dell’umano”. […]
Tutto questo non vale solo per l’umano. Un simile ‘inconveniente’, quello di essere nati, coinvolge infatti l’animalità tutta, dunque anche quella non umana poiché, benché il primo (l’umano) abbia rivendicato un salto ontologico rispetto al secondo (l’animale non umano), “la finitudine, il tempo, la morte” sono comuni a tutti i viventi dotati di sensibilità, dunque anche a quelli non umani. Una metafisica, pertanto, non solo del tempo, non solo materialistica, non solo metaetica, una metafisica anche antropodecentrata».

Hegel

Luca Illetterati – Paolo Giuspoli – Gianluca Mendola
Hegel
Carocci Editore, 2017
Pagine 355

Il lavoro del concetto è volto anche a superare «la scissione e la lacerazione che attraversano tutti i livelli della vita» (p. 18). Superamento dal quale possa emergere «la struttura razionale del mondo» (11), elaborando una prospettiva e un sapere che cerchino di intendere razionalmente la molteplicità, varietà, negatività e incomprensibilità dell’esperienza umana. «La filosofia costituisce per Hegel anche la risposta al problema avanzato da Aristotele sulla possibilità umana di partecipare a una dimensione di pura scienza, libera dalle strutture spazio-temporali che vincolano il pensiero agli oggetti finiti e instabili dell’esperienza ordinaria» (298). Prima ancora che aristotelico, questo è un gesto eleatico, fiducioso nella identità del pensare con l’essere, della logica con la metafisica. Una logica metafisica il cui motore teoretico consiste in «un incessante e mai concluso processo di autorealizzazione e di autocomprensione» (325).
Per questo è necessario comprendere la necessità del negativo, il suo costituire una dimensione intrinseca alla razionalità dell’intero. Se omnis determinatio est negatio, è anche perché il presentarsi di un ente rende impossibile il presentarsi di ogni altro ente nello stesso luogotempo; perché l’evento che sta accadendo esclude una quantità innumerevole di altri eventi, perché ogni processo è sempre e solo l’attualizzazione di una determinata potenzialità a esclusione di molte altre che pure sarebbero state possibili. Il non, la negazione, il nulla sono quindi impliciti nell’essere non come suo residuo, non come sua accidentalità, non come suo ostacolo ma come la condizione stessa nella quale e attraverso la quale enti, eventi e processi sono resi possibili, si danno, ci sono. Questo nulla intrinseco alle strutture dell’essere è la differenza, è «die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt», la magica forza che volge il negativo nell’essere, una forza posta a coerente conclusione di una delle più chiare affermazioni del negativo che siano state pensate:

«Aber nicht das Leben, das sich vor dem Tode scheut und von der Verwüstung rein bewahrt, sondern das ihn erträgt und in ihm sich erhält, ist das Leben des Geistes, Er gewinnt seine Wahrheit nur, indem er in der absoluten Zerrissenheit sich selbst findet. Diese Macht ist er nicht als das Positive, welches von dem Negativen wegsieht, wie wenn wir von etwas sagen, dies ist nichts oder falsch, und nun, damit fertig, davon weg zu irgend etwas anderem übergehen; sondern er ist diese Macht nur, indem er dem Negativen ins Angesicht schaut, bei ihm verweilt. Dieses Verweilen ist die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt»

(Die Phänomenologie der Geistes, «Gesammelte Werke», IX, p. 27)

«Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo: come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere»

(Fenomenologia dello Spirito, trad. di E. De Negri, La Nuova Italia 1985, vol. I, p. 26)

Negativo significa anche che ciò che era si è dissolto e ciò che sarà ancora non è. Per questo il tempo è una delle più chiare forme, forse la più chiara, della necessità, vastità e potenza del negativo. Il cui nome necessario e fecondo è il divenire che non mira ad alcun risultato definitivo ma costituisce il processo in cui l’essere accade, è la struttura dentro la quale l’essere si rende visibile. La verità, qualunque elemento si intenda con tale parola, è la concretezza e dunque il limite del divenire. Per questo la verità non potrà mai darsi in forma definitiva ma sempre come processo. Per questo rispetto alla quieta e apparente stabilità dello spazio il tempo «è l’assoluta inquietudine di ciò che, mentre è, non è, e mentre non è, è» (213). Per questo la finitudine è intrinseca alla condizione ontologica del cosmo fatta di enti che sono eventi e la cui natura è quindi il dileguare.
Pertanto non è solo alla del tutto trascurabile componente biologica dell’essere che è intrinseca la finitudine. Ciò che per il vivente – vegetale o animale che sia – si chiama morire, è in realtà l’esperienza universale del trapassare in altro, del metabolismo, della metamorfosi, dell’entropia. La struttura biologica aggiunge piuttosto all’universale potenza del dileguare la particolarità di farlo in quel «tentativo essenzialmente ‘disperato’» (230) che è la riproduzione di una copia somigliante a sé, nella quale due entità entrambe del tutto finite presumono di differire il loro dileguarsi. Questo tentativo è una delle espressioni più chiare, drammatiche e banali della schlechte Unendlichkeit, della cattiva infinità che non smette mai di aggiungere vite a vite e dunque morte a morte:

«Dieser Prozeß der Fortpflanzung geht hiermit in die schlechte Unendlichkeit des Progresses aus. Die Gattung erhält sich nur durch den Untergang der Individuen, die im Prozesse der Begattung ihre Bestimmung erfüllt [haben] und, insofern sie keine höhere haben, damit dem Tode zugehen»

(Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, in «Gesammelte Werke», XIX, § 370)

«Questo processo della propagazione riesce alla mala infinità del progresso. Il genere si mantiene solo mediante la rovina degli individui; i quali nel processo dell’accoppiamento adempiono alla loro destinazione e, in quanto non ne hanno altra più elevata, vanno così incontro alla morte»,

(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Mondadori, 2008, § 370, p. 363).

Porsi a questo livello di comprensione del mondo non può che lasciare dietro di sé ogni etica in quanto effetto e manifestazione dello sguardo parziale sull’intero. Qui sta certamente uno dei gesti più spinoziani, e quindi radicali, di Hegel, il quale «è fermamente convinto che una considerazione filosofico-scientifica della storia sia incompatibile con una sua valutazione etica sulla base dei principi astratti e che la considerazione scientifica della storia consiste invece nel comprendere le ragioni per cui la situazione mondiale è così com’è» (292).
Questa radicalità salva la dialettica hegeliana dal rischio intrinseco a ogni idealismo e ben presente, nonostante il suo mirare all’oggettività, a chi ritiene in modo inevitabilmente cartesiano («mit Cartesius […]  können wir sagen, sind wir zu Hause», ‘con Cartesio possiamo dire d’essere a casa’, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza 2009, p. 469) che il pensare preceda cronologicamente e soprattutto logicamente l’essere e che dunque il pensare non debba né possa presupporre nulla prima di sé: «Questo carattere di ‘autofondatività’ – carattere che costituisce l’elemento insieme più specifico e più problematico del discorso filosofico hegeliano – è quello che consente alla scienza di essere a differenza del sistema delle conoscenze, un sapere della totalità» (104).
L’antropocentrismo idealistico hegeliano rimane comunque sempre un tentativo di pensare l’oggettività dell’essere, del nulla e del divenire; tentativo nel quale la filosofia è certamente «scienza in un senso più radicale rispetto a quanto non lo siano le scienze positive» (104), è certamente scienza del mondo nel senso che essa pensa il mondo ed è il mondo che nella filosofia pensa se stesso.

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