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Chronos

CHRONOS
Scritti di storia della filosofia
Mimesis Editore, Milano-Udine 2023
«Percorsi di confine, 34»
Pagine 416
€ 32,00

Risvolto di copertina
«Un percorso nella storia della filosofia volto a indicare la perennità delle questioni metafisiche – l’essere, la verità, il tempo – e la loro fecondità per il presente e per il futuro. A mostrarlo è un itinerario in sei momenti che vanno dal pensiero greco al XXI secolo, con una particolare attenzione a Nietzsche e a Heidegger e con indagini rivolte a Eschilo, Euripide, Platone, Lucrezio, Plotino, Machiavelli, Spinoza, Rousseau, Leopardi, Gentile, Husserl, Gehlen, Canetti, Arendt, Marcuse, Ricoeur, Derrida, Mazzarella.
Indagini nelle quali si delinea la struttura temporale del mondo e della filosofia che tenta di comprenderlo. Chronos è la potenza che rende possibile l’emergere della molteplicità dalla stabilità e unicità dell’essere. Gli enti possono essere soltanto differenza che si separa dall’intero ma che lo manifesta in ogni istante, gli enti possono essere soltanto flusso che sta e che si trasforma, possono essere soltanto tempo, nella complessità, identità e differenza di αἰών, καιρός, χρόνος»

Scheda sul sito dell’editore


INDICE


I I Greci

1 Mai avvennero e sempre sono. Sul politeismo

2 Eschilo, il fondamento

3 Il Sacro in Euripide

4 Platone, la filosofia

5 Platone e Nietzsche, due atleti

6 Lucrezio

7 Plotino

 

II I Moderni

1 Libertà e animalità in Niccolò Machiavelli

2 Necessità e tempo nella metafisica di Spinoza

3 Emilio e la pedagogia del Novecento

4 La filosofia di Giacomo Leopardi

 

III Nietzsche

1 Le vite di Nietzsche

2 Abbiamo l’arte per non naufragare nella verità. Sull’estetica dionisiaca di Nietzsche

3 Amor fati e Amor dei intellectualis. Sull’incontro Nietzsche–Spinoza

4 Impazzire di gioia. Su Nietzsche e i suoi Wahnbriefe

5 La Grande Salute di Nietzsche

6 Colli e Montinari lettori di Nietzsche

 

IV Heidegger

1 Heidegger, la fenomenologia, il tempo

2 Heidegger e Sofocle: una metafisica dell’apparenza

3 Platone a Colmar

4 Heidegger e il Sacro

5 Identità e differenze temporali: su Heidegger e Ricoeur

6 Siamo già sempre una differenza animale: Derrida e Heidegger

7 Metafisica del Dasein in Eugenio Mazzarella e Martin Heidegger (con Enrico Moncado)

 

V Il Novecento

 1 Scritture filosofiche del Novecento

2 Giovanni Gentile

3 La fenomenologia come ontologia del tempo

4 Arnold Gehlen, natura e istituzioni

5 Hannah Arendt, una donna contro il totalitarismo

6 Elias Canetti, il nemico della morte

7 Potenza e limiti della Teoria critica

 

VI Il XXI secolo

1 Quid est veritas? Ermeneutica e prospettivismo

2 Nichilismo e Differenza: un dialogo su Severino

3 Introduzione alla filosofia di Eugenio Mazzarella

4 Toccare l’ineffabile. La poesia di Eugenio Mazzarella

5 Metafisiche contemporanee

 

Indicazioni bibliografiche 

Indice dei nomi

Nota al testo

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RECENSIONI

Pio Colonnello
Tra αἰών e καιρός
Rileggendo
Chronos 
di Alberto Giovanni Biuso
in Vita pensata
n. 30, maggio 2024
pagine 24-29

Angelica Rocca
Esercizi di decentramento
in Fata Morgana
11 dicembre 2023
Pagine 1-4

Stefano Piazzese
in InCircolo. Rivista di filosofia e culture
Numero 15 – Giugno 2023
Pagine 179-184

Sarah Dierna
in Discipline Filosofiche
8 maggio 2023

Enrico Palma
Filosofia come temporalità compresa e come scrittura
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
4 maggio 2023
pagine 1-6

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Le parole della filosofia

Venerdì 5 maggio 2023 alle 17.30 nel Parco Archeologico di Giardini-Naxos dialogheremo sulle parole fondamentali della filosofia. L’evento, curato da Fulvia Toscano, si inserisce nel ciclo «Dammi tre parole…Parole e libri che aprono mondi».
Ho scelto le tre parole che credo siano la filosofia: essere, verità, tempo.
Metafisica e ontologia, infatti, si squadernano come Eternità e Divenire, Χρόνος e Aἰών, βίος e ζωή, Uno e Molti, Ἀρμονία e Πόλεμος, e soprattutto Identità e Differenza. La metafisica, la sua potenza, è il pensiero che accoglie le differenze in quanto differenze e nello stesso tempo ne mostra le relazioni, senza le quali le differenze non sorgerebbero, non apparirebbero, non sarebbero.
La più fonda, fondante, fondamentale delle identità e differenze con le quali il bambino eracliteo gioca e dà esistenza al mondo è quella tra gli enti e l’essere, tra lo stare e il durare, tra il Sein e il Wesen. Insieme costituiscono il καιρός, il tempo perfetto. La filosofia è l’interminata dinamica di essere, verità e tempo; un plesso unitario dentro il quale il gioco umano abita e si nasconde, si apre e si inabissa. 

 

Un’ermeneutica della finitudine

Stefano Piazzese
Ermeneutica della finitudine
La filosofia di Alberto Giovanni Biuso
in Dialoghi Mediterranei
n. 60, marzo-aprile 2023
pagine 583-590

Indice
-Ermeneutica filosofica
-Essere è tempo
-La verità
-La differenza
-Corpo e storia
-Finitudine
-Teologia e semantica

«In Biuso l’ermeneutica è un tentativo umano di comprendere il mondo e la vita a partire dalla dimensione temporale, al di fuori della quale nessun ente può apparire – ad parere, esser manifesto, ergersi allo sguardo altrui, presentificarsi, farsi vedere –, e dove Gegenstand e Bedeutung, dato e significato, diventano i costrutti fenomenologici e teoretici che hanno luogo nella condizione trascendentale di tutto ciò che appare, ovvero il tempo».
Ringrazio Stefano Piazzese per questo percorso dentro i miei libri a partire dal dispositivo ermeneutico. I titoli con i quali l’autore ha scandito il testo credo che descrivano con efficacia alcuni degli elementi più costanti del mio tentativo di pensiero.

«Risorsa infinita, perpetua festa»

Emil M. Cioran
La tentazione di esistere
(La tentation d’exister, Gallimard 1956)
Trad. di Lauro Colasanti e Carlo Laurenti
Adelphi, 2022
Pagine 215

Segno di contraddizione, gioco di contraddizione, è la riflessione di Emil Cioran. A partire dal rimprovero mosso a chi abbandona la propria lingua d’origine – «Chi rinnega la propria lingua per adottarne un’altra, cambia d’identità, anzi di delusioni» (p. 57) – e l’averla appunto abbandonata. Proseguendo con un’articolata e ampia condanna dello scrivere scritta da chi ha fatto della scrittura la propria esistenza quotidiana. Per arrivare infine alla esatta denuncia rivolta alla filosofia moderna di aver instaurato «la superstizione dell’Io» (21) e imperniare poi l’intera propria meditazione su una soggettività angosciata, depressa, malinconica, triste; ammettendo, in riferimento agli individui e alle civiltà, di essere diventato «il fanatico di una carogna» (24).
E tuttavia la lucidità di Cioran va di slancio oltre le proprie debolezze e contraddizioni e coglie con sintetica efficacia alcuni dei momenti chiave del contemporaneo e della storia. 

Il tradimento di molti intellettuali, ad esempio, che preferiscono le catene dell’illusione alle «peregrinazioni della Conoscenza» (37), che scelgono il conforto di una sinecura al compito della libertà. Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, si fanno corifei di una filosofia della storia nata dal convergere della Provvidenza cristiana e del Progresso borghese con le vittorie coloniali dei conquistadores. Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, si fanno in ogni loro riga e parola difensori del messianismo statunitense, di un’America che «si erge di fronte al mondo come un nulla impetuoso, come una fatalità priva di sostanza […] un mostro di superficialità» (33). Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, abbandonano lo spirito critico e scettico che ha  caratterizzato la filosofia europea da Socrate in avanti per farsi portatori anch’essi, al modo dei preti, «di una verità semplice, di una risposta che li liberi dai propri interrogativi, di un vangelo, di una tomba» (38), come quella che ha trasformato la scienza in una prospettiva «minacciosa, fonte di spavento» (190) e – con la vicenda dell’epidemia Covid – in una pratica di violenza collettiva poiché «chi trema sogna di far tremare gli altri, chi vive nello spavento finisce nella ferocia» (173).

A fondamento di queste e altre tristezze sta anche per Cioran la fine del mondo pagano, così efficacemente richiamato: «Dove sono la nostra sensibilità innica, l’ebbrezza delle origini, l’alba dei nostri stupori? Gettiamoci ai piedi della Pizia, ritorniamo alle nostre antiche aspirazioni: filosofia dei momenti unici, sola filosofia» (154). La fine del paganesimo è stata causata e affrettata (è la stessa motivazione che ne dà Nietzsche) da una crisi interna di quel mondo che aveva perduto fiducia, ironia e sorriso – il sorriso dei κοῦροι – ma che fu comunque il cristianesimo a uccidere. Alla gioia e alla tragedia del mito greco il cristianesimo sostituì «una mitologia di schiavi» che, ad esempio nell’Apocalisse, si mostra come «vendetta, bile e avvenire malsano» (89) e nel latino cristiano trasforma la bella «lingua di Tacito» in una parlata «deformata, banalizzata, costretta a subire le farneticazioni sulla Trinità!» (118).
Radice del cristianesimo è naturalmente l’Antico Testamento, è Yahweh, un dio «attaccabrighe, rozzo, lunatico, verboso», che «poteva al massimo soddisfare le necessità di una tribù», un dio interpretato da Cioran in una chiave anche gnostica che ne fa «un usurpatore che subodorando il pericolo teme per il suo regno e terrorizza i suoi sudditi» (72). A diffondere il culto di questo demiurgo usurpatore fu Paolo di Tarso, la cui teologia è «un’orgia di antropomorfismo» (160).
Su Paolo, e sul suo prosecutore Lutero, Cioran riprende le analisi e anche il linguaggio di Nietzsche, descrivendo la patristica che da Paolo nacque come un mondo di nemici delle Muse, di «forsennati che ancora oggi ci ispirano un panico misto ad avversione. Il paganesimo li trattò con ironia, arma inoffensiva, troppo nobile per sottomettere un’orda restia alle sfumature. Il delicato che ragiona non può misurarsi con il beota che prega. Irrigidito nelle vette del disprezzo e del sorriso, soccomberà al primo assalto» (163). Per quanto riguarda Martin Lutero, «questo Rabelais dell’angoscia era più adatto di chiunque altro a rinvigorire un cristianesimo sempre più debilitato e slavato» (167).
A proposito del plesso ebraismo-cristianesimo, Cioran può contribuire a intendere più correttamente le pagine dei Taccuini neri di Heidegger dedicati al rapporto tra cultura ebraica e desertificazione. Si tratta infatti di un dato antropologico che ogni analisi priva di pregiudizi non può che confermare. Scrive infatti Cioran che non bisogna dimenticare che gli ebrei «furono cittadini del deserto, che lo custodiscono ancora in se stessi come loro spazio intimo, e lo perpetuano attraverso la storia» (73); e aggiunge una interessante osservazione etnologica sui ghetti disseminati in Europa, visitando i quali non si può «fare a meno di notare che la vegetazione ne era assente, che nulla vi fioriva, che tutto era secco e desolato: isolotto bizzarro, piccolo universo senza radici» (73). L’equiparazione tra ebraismo e desertificazione indica questo semplice dato storico, che soltanto malafede e pregiudizio possono trasformare in altro.

Tornando alle questioni metafisiche, l’elemento più debole del pensiero e dell’esperienza di Cioran è la sua avversione contro il tempo. Avversione però anch’essa contraddittoria poiché se da un lato lo scrittore auspica una cura di eternità che disintossichi dal divenire, ammette «tuttavia che noi siamo tempo, che produciamo tempo» (25).
Tempo che è l’altro nome del morire e del nulla e dunque della sostanza di cui siamo fatti. La morte è insieme una «situazione limite» e un «dato immediato» (205). Il Nulla, che Cioran scrive appunto in maiuscolo, è la confortevole situazione del «non essere niente – risorsa infinita, perpetua festa» (197) che libera dalla tentazione di esistere.

Proust, l’omerico

Proust, l’omerico
in Dialoghi Mediterranei
n. 60, marzo-aprile 2023
pagine 23-33

Indice
-Introduzione
-Proust sociologo
-Linguaggio
Du coté de chez Swann
À l’ombre des jeunes filles en fleurs
Le côté de Guermantes
-Sodome et Gomorrhe
La Prisonnière
Albertine disparue
Le Temps retrouvé
-La Recherche come filosofia

Proust è un sociologo, è un narratore, è un metafisico. Nella Recherche vivono, agiscono, amano, invecchiano, parlano, ricordano centinaia di personaggi che abitano una molteplicità di luoghi: Illiers/Combray, Parigi, Cabourg/Balbec, Amiens, Venezia. In questo saggio ho cercato di presentare alcuni di tali personaggi, luoghi, temi. La prima parte è dedicata alla spesso sottovalutata ma in realtà primaria dimensione storica e sociologica dell’opera proustiana; la seconda a un sintetico percorso dentro la Recherche; la terza a una riflessione sulla struttura metafisica dell’opera.

Il corpo, la guerra

Mito e guerra in James Hillman
in Dialoghi Mediterranei
n. 59, gennaio-febbraio 2023
pagine 46-52

Indice
-Il mito
-La salute
-L’angoscia
-La guerra
-Pan

Il significato, la funzione, le strutture del mito affondano nella vita quotidiana degli umani, nelle loro speranze più intime, nelle angosce più fonde, nei pensieri del corpo. E dato che il corpo esiste sino a che siamo vivi, il mito è consustanziale all’esserci, diventa un archetipo la cui fecondità è perenne. Il mito greco è il luogo in cui l’immaginale costruisce la propria tela di significati, dove la caverna è sempre aperta, dove dell’orrore si dà conto.
Opposta alla salute ma sua costante compagna è l’angoscia, la quale non costituisce una semplice tonalità emotiva o uno stato temporaneo di alterazione. L’angoscia è ciò che intesse la vita degli umani poiché essa è l’espressione psicologica della Necessità e del Tempo. Mito, angoscia, salute si coniugano in due figure ambivalenti e ambigue, opposte ma penetranti l’una nell’altra: il Senex e il Puer.
Queste dinamiche contribuiscono a meglio comprendere e a spiegare un fatto, una catastrofe, una potenza antica dentro la quale l’umano abita e si perde: la guerra. Il tentativo di Hillman è consistito anche nel coniugare guerra, mito e psiche; di penetrare dentro la guerra, la sua disumanità così umana, il suo fascino costante e sinistro, il suo dominio nella storia. Pensare la guerra per capirla e quindi in qualche modo fronteggiarla. Una vera scienza della guerra non può limitarsi alla storia, alla sociologia, alla psicologia, alla tattica e alla strategia, non può limitarsi all’apparente razionalità delle sue cause, delle forme e degli scopi ma deve cogliere la natura inumana del massacro, le forze profonde che spingono l’essere vivente e razionale a intraprendere la distruzione di ogni cosa e di se stesso.
Una via d’uscita dalla catastrofe è per Hillman il mito politeistico, con le sue figure. In particolare Pan, il quale tiene ancora unita l’identità molteplice del politeismo mentre l’imporsi dei tre grandi monoteismi ha impoverito il mondo della sua strepitosa e costitutiva varietà, ha fatto vincere la coscienza egoica di un soggetto monocorde e senza (apparenti) contraddizioni. Ma il riemergere inevitabile della differenza produce schizofrenie, isterismi, paranoie ben più gravi di quelle che pure il corpo panico di per sé possiede, delle quali è fatto.
La natura più fonda di Pan è costituita dall’al di là dell’Eros, poiché il panico – il terrore della fuga e del polemos – precede l’Eros in ogni sua forma: greca, cristiana, romantica. Con estrema chiarezza, Hillman mormora che «la lotta tra Eros e Pan, e la vittoria di Eros, continuano ad umiliare Pan ogni volta che diciamo che lo stupro è inferiore al rapporto, la masturbazione inferiore alla copula, l’amore migliore della paura, il capro più brutto della lepre» (Saggio su Pan).
E poiché il corpo è l’intrascendibile – nonostante ogni sforzo di negazione attuato dalle religioni ascetiche e dai progetti di un’Intelligenza Artificiale disincarnata –, alla fine esso vince. Sempre.

Un elegante morire

Living
di Oliver Hermanus
Gran Bretagna, 2022
Con: Bill Nighy (Williams), Aimee Lou Wood (Margaret Harrisen), Tom Burke (Sutherland)
Trailer del film

Tratto dall’omonimo film di Akira Kurosawa (1952), scritto da Kazuo Ishiguro, interpretato da attori veramente british, primo dei quali il protagonista Bill Nighy, Living riesce a trasmettere il pulsare della vita in due strutture che sembrano negarla.
La prima è una burocrazia che gira a vuoto negli uffici del Comune di Londra formalmente inappuntabili ma di fatto pigri, incapaci, incompetenti, i quali respingerebbero all’infinito la semplice richiesta di alcune madri di trasformare un fatiscente cortile in un piccolo parco giochi per bambini. Parco che viene realizzato solo quando il responsabile dell’ufficio dei lavori pubblici, Mr. Williams, prende nelle mani e nel cuore la pratica e testardamente agisce, implora, ordina che il parco venga realizzato. La cosa appare ancor più stravagante in quanto Mr. Williams è una persona gelida, solitaria, riservata e priva di emozioni. Tanto che una giovane impiegata lo ha definito Mr. Zombi.
Il carattere di questo signore è il secondo elemento che sembra appunto negare ogni vita. Ma tutto muta quando Mr. Williams riceve una diagnosi infausta. È a quel punto, un punto temporale, che il bisogno animale di vita riemerge ed esplode – per quanto possa farlo nella Londra perbenista degli anni Cinquanta – attraverso decisioni, pratiche, relazioni, sorrisi, lacrime. La giovane collega precaria che lo ha definito zombi diventa la sua amica, confidente, complice.
Chi sta intorno a Mr. Williams, che a nessun altro confida il proprio male, non capisce che cosa stia accadendo. Ma è bastata la tenacia che conduce alla realizzazione del parco giochi per fare di quest’uomo e della sua memoria un movimento ancora vivo nell’altalena che oscilla sotto la neve e sulla quale il film si chiude.
Un racconto esistenziale narrato al modo dei vecchi film: raffinato, cromaticamente irrealistico, capace di andare senza pregiudizi e senza mode (uno dei rari film contemporanei in cui non appaiono neri, militanti gender e omosessuali) al cuore della vita, della sua precarietà assoluta, del suo esserci come attesa e come memoria, come futuro che nel presente si fa passato.

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