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Whitehead

Whitehead
in Vita pensata
n. 29, novembre 2023
pagine 163-174

Indice
-Una metafisica selvaggia
-Platone, l’intero e le sue parti
-Un’ontologia relazionale
-Una metafisica temporale
-Potenza e limiti della filosofia
-Linguaggio e teologia

Questo articolo intende essere soltanto un testo di servizio per introdursi a una filosofia tanto originale quanto complessa e linguisticamente strabordante. Ho cercato dunque di dare quanto più possibile la parola ad Alfred North Whitehead (1861-1947) ma anche di rendere questa parola comprensibile sullo sfondo della storia della metafisica nella quale si colloca, nella quale intende collocarsi.
L’essere è insieme e inseparabilmente flusso e permanenza, poiché ogni mutamento ha senso in quanto qualcosa rimane e, di converso, il permanere di un ente si staglia sull’orizzonte del suo mutare. La metafisica è dunque da intendere non come fondazione/fondamento ma come comprensione di questo ininterrotto eventuarsi in cui mondo, materia e umanità consistono. Metafisica non come soggettivismo/idealismo ma come schiusura, apertura e compenetrazione del mondo umano dentro il mondo spaziotemporale che lo rende ogni volta e di nuovo possibile. 

 

Dissolvenza e luce

Dissolvenza e luce
Aldo Palazzolo
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXIX – numero 81 – ottobre 2023
pagine 94-99

La fotografia, lo hanno notato in tanti, è un’arte che ben documenta la pervasività della morte. Del numero sconfinato di immagini che costituiscono l’archivio dell’umanità da quando questo dispositivo fu inventato, la parte preponderante rappresenta strutture, luoghi, città, paesaggi, animali umani e non umani che sono stati e più non sono. Ma l’essere è sempre in qualche modo luce. Tanto è vero che Palazzolo ha potuto intitolare due sue mostre siciliane di qualche anno fa con le espressioni Imago Lucis (a Comiso) e Chiedi alla luce (a Scicli).
L’artista fotografa la struttura della dissolvenza e non la potenza dello stare. I suoi soggetti in parte esistono ancora e già non ci sono più. Già e non ancora è una delle formule più dinamiche per cercare di cogliere l’incoglibile del tempo. Dissolvenza e luce, quindi. Vale a dire due degli elementi tecnici e formali che costituiscono e costruiscono il lavoro fotografico.

Cristianesimo, tempo, sacralità

Alain de Benoist – Thomas Molnar
L’eclisse del sacro
(L’éclipse du sacré, La Table Ronde 1986)
Traduzione e saggio introduttivo di Giuseppe Del Ninno
Edizioni Settecolori, 1992
Pagine XVIII-225

Questo confronto tra un cattolico ultratradizionalista e un intellettuale senza dogmi risulta emblematico e straniante. Emblematico della incommensurabilità tra una prospettiva aperta all’intero e al molteplice, come quella di de Benoist, e una invece rigidamente chiusa in un recinto di sicurezza e di grettezza, in un confine tranquillo e assai delimitato. Straniante per l’evidente differenza di livello in cui si pongono i due discorsi.
Thomas Molnar vede nel cattolicesimo il baluardo contro ogni male. Ma non il cattolicesimo come di fatto è  oggi bensì un cattolicesimo rimpianto. Molnar si pronuncia infatti in modo deciso contro la Chiesa conciliare e contro Paolo VI, «impegnat[i] in un processo di autodistruzione» (p. 29) e in una vera e propria «campagna di oppressione nei confronti dei credenti» (43). Di tale autodistruzione è parte la riduzione della Chiesa cattolica a un’agenzia filantropica e sociale, come è già accaduto alle chiese protestanti, i cui luoghi di culto sono infatti vuoti. E questo è vero. Meno accettabile, anche se del tutto coerente, è l’esplicito rifiuto delle libertà in nome della verità, poiché secondo Molnar «vi sono interessi che non sono in concorrenza con altri, ma li schiacciano, in nome del pluralismo. E per essi non c’è posto in una società ben ordinata» (79-80). Il grande nemico ripetutamente indicato da Molnar è lo Gnosticismo, come è sempre stato per la Grande Chiesa.

C’è un solo elemento nel quale le opinioni dei due interlocutori sembrano concordare: il riconoscimento che il cristianesimo sta all’origine della desacralizzazione. «Il cristianesimo, dovunque penetri – e in primo luogo nel mondo greco-romano – procede ad uno svuotamento (e de-mitizzazione) del cosmo panteista, pagano» (21) scrive Molnar. E de Benoist conferma: «La scomparsa del sacro va messa direttamente in rapporto con l’espandersi di una religione giudeo-cristiana caratterizzata dall’identificazione dell’essere con Dio, dalla dissociazione dell’essere dal mondo e dal ruolo particolare assegnato alla ragione» (115).
Per il resto le posizioni risultano inconciliabili per la fondamentale ragione che i due autori partono da concezioni del sacro assai diverse tra di loro. Per de Benoist lo statuto del sacro è da distinguere con molta cura rispetto a quello della religione: «Se, in effetti, ogni religione implica il sacro (ma non un dio), non è vero il contrario. Divino e sacro, sacro e religioso non sono sinonimi» (87). Gli dèi, il divino, abitano dentro il sacro  poiché gli dèi e il divino abitano dentro il mondo, sono una sua parte. Non si dà quindi né un’illogica creazione dal nulla (nihil ex nihilo) né un dualismo ontologico tra il cosmo e il divino. Dualismo che invece è la vera cifra del monoteismo biblico, il quale si origina e si conclude nella separazione assoluta tra un’entità che crea e un’entità che viene creata. Essendo il cosmo creato, esso non ha nulla di sacro.
È da qui che si genera la visione del mondo ebraica e cristiana, da questa natura totalmente altra del divino che, proprio per non svanire nella distanza e nell’insignificanza, ha poi bisogno di postulare un ulteriore elemento che per le civiltà politeistiche risulta bizzarro: il diventare ‘perfettamente uomo’ di qualcosa che all’origine è ‘perfettamente dio’. Soltanto dove umano e divino vengono pensati come inconciliabili può essere poi postulato un dogma come l’incarnazione. Dove invece umano e divino sono parte di un insieme che li (r)accoglie senza confonderli né separarli, un simile postulato non può nascere, non ha ragione di nascere.

Il politeismo tiene uniti identità e differenza. Il monoteismo elimina la differenza a favore di un’identità rigida e insieme contraddittoria, nella quale l’elemento umano è nello stesso tempo del tutto diverso rispetto al divino e superiore a ogni altro nell’ambito mondano. Segnale efficace e pervasivo di tale struttura è la centralità di due diversi strumenti percettivi, di due differenti sensi. Il monoteismo ebraico privilegia l’udito, il politeismo greco privilegia il vedere. E questo significa che «la vista fa posare lo sguardo sullo spettacolo del mondo, dove l’unità si lascia cogliere soltanto come riunificazione di una pluralità sempre cangiante. L’udito rinvia più direttamente all’invisibile, ponendo, al di fuori di ogni mediazione, all’ascolto di una parola che si pretende unica» (120-121).
Identità escludente, antropocentrismo, desacralizzazione e devastazione costituiscono dunque un solo processo poiché «essendo desacralizzato, [il mondo] diventa oggetto inanimato, materia integralmente assumibile e praticabile da parte dell’uomo» (131). Ulteriore conseguenza di un radicale antropocentrismo è la riduzione dell’elemento cosmico a quello etico, la superfetazione della morale. Questa moralizzazione dell’intero priva la vita della sua innocenza, della sua lievità, in quanto «la serenità (Gelassenheit) che gli derivava dal sentimento di un’appartenenza all’essere che si dispiegava nella sua pienezza è svanita. La credenza in un ‘altro mondo’ bisogna ormai pagarla al prezzo della propria colpevolezza» (132).
Rispetto a tali pericoli, la filosofia di Martin Heidegger costituisce anche la rimemorazione di ciò che è invece possibile pensare e conseguire se si evita di privilegiare una parte, compreso il dio, rispetto all’intero, con cui coincide il sacro. La ‘differenza ontologica’ appare in questa luce come la possibilità di «pensare l’essere dell’ente nella sua differenza dall’ente: compito fondamentale di un pensiero fedele che, nel suo stesso disegno, si ordina necessariamente intorno alla coscienza di quel che è il sacro» (113).

Dal sacro riceve luce lo statuto del tempo e, viceversa, la temporalità permette di avere rispetto della sacralità di un mondo che è sempre diveniente/diverso e sempre costante/identico. La ciclicità ‘pagana’ non vuol dire infatti immutabilità o irrilevanza del tempo ma, al contrario, è una conferma della sua centralità. Il tempo ciclico, infatti, «non è sterile ripetizione, ma regolare ridispiegamento degli esseri e delle cose» (103); l’eterno ritorno non rende sacro l’immutabile ma afferma invece la possibilità di ogni forma del mutamento e del movimento, compresa la forma del ritorno. Tutto infatti può tornare nel preciso senso che «risalire alle origini significa riaffermare la possibilità di un nuovo inizio» (224).
Il fondamento e la spiegazione di tali dinamiche di identità/differenza stanno nel fatto che «al principio del tempo storico vi è la differenza ontologica fra l’essere e l’ente; tale differenza è l’Evento (Ereignis) che instaura tutta la storia. In tal modo, il principio storico viene introdotto nel cuore dell’ontologia. […] Il tempo è il senso dell’essere. L’essere diviene storicamente» (204-205).
L’oblio dell’essere è esattamente l’oblio della sua temporalità, della struttura che raccoglie l’ora, il già e il non ancora nella pienezza del divenire che è anche il divenire che splende adesso e che sempre ritorna, il καιρός.

Nel mistico

David Helbock
Beethoven #7, 2nd Movement
da «Into the Mystic»
(2016)

È dalla notte, dall’indeterminato, dall’ἄπειρον, dalla pienezza della materia cosmica che ogni ente e circostanza prende forma. Ogni cosa che è, ogni ente, è parte di un intero nei cui confronti la parte è del tutto dipendente, senza la quale non potrebbe avere esistenza né movimento né divenire. L’ente è parte costitutiva di questo tutto, del quale è espressione, manifestazione, modo d’essere. È una parte costitutiva e in perenne trasformazione, costitutiva proprio perché in trasformazione. Filosofia è pensare il mondo nel suo incessante accadere come tempo, essendo tempo, permanendo come tempo e diventando tempo. Dell’essere non è possibile né sensato predicare altro che il suo accadere nella materia che muta senza posa e in eventuali coscienze che appercepiscono questo accadere mentre anche tali coscienze vanno trasformandosi. Concetti come eterno e infinito sono in realtà poco più che intuizioni e metafore con le quali una parte della materia dotata di coscienza coglie il tempo come un  tutto ora, come il tutto che era prima, come il tutto che sarà poi. E così nel sempre e come sempre. Perché il sempre non è una forma statica ma è proprio questo eventuarsi senza posa della materia tutta, ora. Una legge fondante e fondamentale del tempo è l’entropia che intesse la materia e il suo costituirsi in cicli di dissipazione e ricostituzione, i quali garantiscono il divenire del cosmo e il suo mai finire come eterna e incessante dinamica di accaduto, accadente e avveniente.
Il secondo movimento della Settima Sinfonia di Beethoven, l’«Allegretto», diventa nella interpretazione al pianoforte di David Helbock un canto antico, inesorabile, lontano. Mistico.

Fisica e Fenomenologia

The Concept of Time in Husserlian Phenomenology and Quantum Physics
Humana.Mente. Journal of Philosophical Studies
Vol 16 No 43 (August 2023)
Pagine 277-296

Indice
-Phenomenological time and its problems
-Quantum time and its problems
-Phenomenology and its solutions
-Quantum physics and its solutions
-Naturalising phenomenology, theoreticizing physics 

Abstract
Through a comparison between phenomenology and quantum physics, the paper aims to show that naturalising phenomenology can also mean bringing it into a critical and fruitful relationship with some of the most complex and fundamental questions of contemporary physics, thus showing both the truly ever-open potential of Husserlian and Heideggerian thinking and the need for the sciences to receive a theoretical light without which they risk remaining either magical, arbitrary and esoteric knowledge or technical, reductionist and epistemologically sterile. 

[Mediante un confronto tra fenomenologia e fisica quantistica, il saggio si propone di mostrare che naturalizzare la fenomenologia può significare anche porla in un rapporto critico e fruttuoso con alcune delle questioni più complesse e fondamentali della fisica contemporanea, mostrando in tal modo sia le potenzialità sempre aperte del pensiero husserliano e heideggeriano sia la necessità che le scienze ricevano una luce teoretica senza la quale rischiano di rimanere o conoscenze magiche, arbitrarie ed esoteriche, oppure approcci soltanto tecnici, riduzionistici ed epistemologicamente sterili]

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Il numero 43 di Humana.Mente ha come tema The Prospect of Naturalizing Phenomenology: New Essays ed è composto da una limpida introduzione dei due curatori e da dodici saggi divisi in tre sezioni.
Il mio contributo fa parte della terza sezione, dedicata a discutere «some classic yet ongoing debates regarding the most problematic and productive conceptual aspects implicit in the actual connection of theoretical frameworks and concrete problems within the scope of naturalized phenomenology» (p. VII).
L’Introduzione delinea la cornice epistemologica nella quale intendere il significato di questo numero della rivista. Fornisce inoltre le sintesi assai chiare e molto utili di ciascuno dei contributi.
Riporto quella che riguarda il mio testo. «Alberto Giovanni Biuso tackles one of the most important problems in phenomenology – and philosophy in general – i.e., the problem of time. He does so by comparing Husserlian phenomenology and quantum physics, with special reference to the opposition idealism-realism. According to Biuso, the phenomenological analysis of time-consciousness overcomes the idealistic and subjectivist tendency of Husserl’s philosophy. Regarding quantum mechanics, the author adopts a “processual” perspective (in continuity with the tradition of “process philosophy”), which contrasts those conceptions that deny the reality of time. In the end, the author proposes a “materic” conception of time, understood as the fabric of every reality, be it “subjective” (consciousness) or “objective” (world), showing how thinking about the reality of time is crucial to pursue the project of a “naturalized phenomenology”» (p. XII).
Ringrazio qui uno dei revisori (anonimi) del saggio, il quale lo ha giudicato «a fruitful and ambitious reflection in the current philosophical debate» e lo ho perfettamente sintetizzato in questo modo: «This paper is an original contribution that develops following three research directions that can be summarized as follows: (1) analysis of the concept of temporality in Husserl and overcoming its limitations through a “materialistic” perspective; (2) comparison with the main trends and theses of quantum physics; (3) investigation of the relationship that might exist between phenomenology and physics. The general assumption that drives the author’s research is that in order to understand and critically test Husserlian phenomenology and quantum physics, it is necessary to postulate a “strong” and “materic” concept of time at both a gnoseological and ontological level».

Cosmologia / Medea

Recensione a:
Aa. Vv.
Cosmos?
Numero 54 di Krisis, octobre 2022
Pagine 142
in il Pequod , anno IV, numero 7, giugno 2023, pagine 196-199

L’ipotesi dell’eternità della materia/universo è confermata dalle critiche sempre più diffuse e argomentate che va ricevendo il modello (ancora) standard del cosiddetto Big Bang, il quale delineerebbe una problematica singolarità, impossibile da comprendere e persino da studiare sulla base delle leggi conosciute e dei metodi di indagine scientifici. Il tentativo perseguito da più parti di unificare la relatività generale e la fisica quantistica ha tra le sue condizioni e conseguenze il superare questa singolarità, riaffermando «l’éternité du temps passé, éliminant ainsi la problématique notion théologique de ‘cause première’» (Luminet).
A fondamento delle cosmologie antiche sta l’ipotesi realistica fondamentale, quella che non fa dipendere l’esistenza e le modalità del cosmo dalle percezioni, azioni e calcoli di una sua infima e inconsistente parte: noi. Dismisura che invece sta a fondamento della interpretazione di Copenhagen della fisica quantistica. Davvero ogni idealismo così come «la pensée constructiviste s’est développée à partir du sophisme anthropocentriste (la proclamation de Protagoras selon laquelle ‘l’homme est la mesure de toutes choses’)» (Jure Georges Vujic).

In questo assai ricco numero del Pequod è stata pubblicata anche una analisi a più voci del mito di Medea e della sua messa in scena, con la regia di Federico Tiezzi, quest’anno a Siracusa. Ho avuto il piacere di scriverne insieme a Sarah Dierna, Marco Iuliano, Enrico Palma, Marcosebastiano Patanè:

La selvaggia passione: Medea 2023 a Siracusa
Pagine 177-184

«Medea si presenta intrisa da un afflato profondamente antinatalista. Alla maniera lucida, consapevole e ‘passiva’ – per usare la categoria di Lachmanová – dei Greci naturalmente. […] Nella tragedia l’antinatalismo traspare nei gesti e nelle parole di Giasone, della moglie, della Nutrice, del Pedagogo e del Coro ma trasuda insieme dalle sciagure stesse di cui i mortali sono vittime e facitori. […]
Così canta il Coro:

E affermo che tra i mortali/ coloro che non hanno mai fatto esperienza di figli/ e non ne hanno mai generati/ sono più felici di chi ne ha messi al mondo. / Chi è senza figli, poiché non ne ha esperienza, / non sa se sia gioia o tormento l’averne, / proprio perché non gli sono capitati, / e così sta alla larga da molte inquietudini. / Ma chi ha nella sua casa il dolce germoglio di figli, / costoro li vedo sfiancati dalle preoccupazioni per tutta la vita: / innanzitutto su come crescerli bene e come lasciare loro di che vivere. / Poi, non è sicuro se si diano tanta pena / per figli che non valgono nulla o per figli eccellenti. / E dirò anche di una sciagura che è la peggiore per tutti i mortali: / ammettiamo che abbiano di che vivere, e siano nel fiore della giovinezza, e siano eccellenti. / Ma se così decreta il destino, / ecco che arriva la Morte e si avvia giù nell’Ade, / trascinando via i loro corpi.
(vv. 1090-1111, trad. di Angelo Tonelli)

E allora ‘tre volte meglio stare in armi che partorire anche una volta sola’ (v. 251, trad.  Tonelli). Solo in Euripide capita di leggere con così tanta onestà la sciagura insita nell’atto del generare che non si lascia intenerire dalla tenera prole già venuta al mondo».

La recensione e l’articolo dedicato a Medea sembrano una conferma di quanto affermato da David Herbert Lawrence nel 1931 in Apocalypse, citato da Ernesto De Martino nel suo capolavoro sulle apocalissi culturali:
«Forse la più grande differenza tra noi e i pagani sta nella diversità di rapporti col cosmo. Per noi tutto è personale. Il panorama che possiamo contemplare e il cielo non servono che da delizioso sfondo per la nostra vita personale. Persino l’universo della scienza si riduce a noi a poco più che una mera estensione della nostra personalità. Per il pagano il paesaggio e lo sfondo personale erano dopo tutto indifferenti, ciò che era invece reale era il cosmo. L’uomo viveva nel cosmo, consapevole della maggior grandezza del cosmo nei suoi confronti. […] Il nostro sole è cosa assai diversa dal sole cosmico degli antichi, è qualcosa di molto più banale. Noi possiamo vedere ciò che chiamiamo sole, ma abbiamo perso per sempre Helios e ancor più il grande disco dei Caldei. […] Questa è la nostra principale tragedia. Che cos’è il nostro meschino amore per la natura – la natura cui ci si rivolge come a una persona – al paragone di quel sublime vivere-col-cosmo ed essere-onorati-dal-cosmo!»
(La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi 2019, pp. 379-380).

Cerimoniale

“Cerimoniale”, la forza antica e fondatrice del mistico
in Il Mattino
22 giugno 2023
pagina 34

Cenere che assale, fiume che va, ferita della sera, silenzio che riposa, sono alcune delle immagini che il poeta disegna per indicare l’essere del vivente dentro il mondo e il destino di ogni cosa dentro l’essere. «Io vedo il fiume andare / Ma non so la montagna e non so il mare» (p. 81); il risultato è che «non si torna. […] Il senso è questo traffico col niente» (p. 132).
Una visionarietà dell’oltre attraversa i versi di Cerimoniale, quinta opera poetica di Eugenio Mazzarella, visionarietà che è ben piantata nel qui e ora dell’effimero, del tempo. La teologia poetica di questo filosofo sa volgere la nostra condizione, la condizione umana, in «stella stabilita del cammino» (p. 158).

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