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Gadda, l’anarchico

Eros e Priapo
Da furore a cenere
di Carlo Emilio Gadda
Introduzione di Leone Piccioni
Garzanti, 2001 (1963)
Pagine 175

gadda_eros_priapo«Dopo i nove mesi di soggiorno nel Grand Hotel materno» (pag. 132) si viene gettati «sulla scena tragica e in un tempo carnevalesca del mondo» (169), dove identità e relazioni, speranze e sogni, angosce e disincanti frullano nel mulino del tempo. E nel tempo accade la “storia”, questa sequela di progetti e di morte, di bandiere e di soldi, di utopie e di ferocia.
Una feroce farsa fu agli occhi di Gadda il fascismo, la cui più intima forza e ragione di successo è data dal consentire profondamente con il carattere degli italiani, con la loro vicenda di servitù, di furbizia e di finzioni. «E i dimolti italioti di cui Modellone Torsolone incarnava come non altri la fatua scempiaggine e la livida malafede, sentivano risuonar di sé l’una e l’altra per συμπαθεια co’ le grandezze ricattarorie di lui: e ad ogni nuova sparata entravano secolui in vibrazione armonica» (76).
Infanti male e poco cresciuti, gli italiani si fecero governare per vent’anni da un “folle narcisista” la cui grottesca teatralità è il cuore di questo libro inclassificabile e furioso. Dal balcone il duce emanava «i berci, i grugniti, i sussulti priapeschi, le manate in poggiuolo, e ‘l farnetico e lo strabuzzar d’occhi e le levate di ceffo d’una tracotanza villana» (42). Proclamatosi «genio tutelare» dell’Italia, «la redusse a ceneri ed inusitato schifo» (66), la ridusse a un’apparente grandezza, «in realtà scempiata grandiloquenza» che «altre genti meno verbose e più serie calpesteranno» (141), mandando a morire senza pietà, senza intelligenza e senza gloria i «sacrificati figli d’Italia», verso i quali «lui non ebbe amore per nulla, se non simulato e teatrale» (71), poiché tutto nel duce «è sfarzo baggiano da fuori, e nulla è angoscia vera da dentro» (152), «sul palco, sul podio, la maschera dello ultraistrione e del mimo, la falsa drammaticità de’ ragli in scena, i tacchi tripli da far eccellere la su’ naneria: e nient’altro» (156).
La descrizione di Benito Mussolini -l’uomo, il politico, il massimalista, il capo del regime, l’ideologo, il maschio- è realistica sino alla documentazione, per quanto trasfigurata nella incredibile e magnifica lingua di Gadda.

Questo qui, Madonna bona!, non avea manco finito di imparucchiare quattro sue scolaresche certezze, che son qua mè, son qua mè, a fò tutt mè a fò tutt mè. […] Pervenne, pervenne. Pervenne a far correre trafelati bidelli a un suo premere di bottone su tastiera, sogno massimo dell’ex agitatore massimalista. Pervenne alle ghette color tortora, e che portava con la disinvoltura d’un orango, ai pantaloni a righe, al tight, al tubino già detto, ai guanti bianchi del commendatore e dell’agente di cambio uricemico: dell’odiato ma lividamente invidiato borghese. […] Pervenne. Alla feluca, pervenne. Di tamburo maggiore della banda. Pervenne agli stivali del cavallerizzo, agli speroni del galoppatore. Pervenne, pervenne! Pervenne al pennacchio dell’emiro, del condottiere di quadrate legioni in precipitosa ritirata. (Non per colpa loro, poveri morti; poveri vivi!). Sulle trippe, al cinturone, il coltello: il simbolo e, più, lo strumento osceno della rissa civile: datoché a guerra non serve: il vecchio cortello italiano de’ chiassi tenebrosi e odorosi, e degli insidiosi mal cantoni, la meno militare e la più abbietta delle armi universe. […] E la differenza la sapete bene qual è, la differenza che passa tra Lissandro Magno e codesto brav’uomo: che l’Alessandro Magno l’è arrivato (sic) ad Alessandria col cocchio: e lui c’è arrivato col cacchio. Si tenne a dugèn chilometri di linea. Riscappò via co’ sua cochi e marmellate dell’ulcera. Scipione Affricano del due di coppe. (27-28)

Questo fu, davvero, Mussolini e l’Italia con lui. Una descrizione esatta del fenomeno fascista nei suoi risultati storici e nella scaturigine dall’«Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo» (143), dell’«ismodato culto della propria facciazza», che sarebbe disposto anche a morire pur di andar a finire sui giornali (147 e 157), volendo tutto imbarcare «nell’Arca onnialbergatrice della propria insaziabile vanità e stoltezza» (152) poiché la “persona” dell’antropologia narcisistica e fascista «è persona scenica e non persona gnostica ed etica» (145).
Il discorso politico diventa subito discorso biologico, da esso inseparabile come il frutto è inseparabile dal suo involucro. Frutto la biologia, involucro la politica. Egli, il Duce Mussolini, agì sulle donne allontanando i concorrenti, gli altri uomini, ergendosi quale maschio dominante, e ciò con ogni strumento del potere politico, anche il più violento. Poiché soltanto lui, solo il “kuce” era «detentore de i’ barile unico e centrale dello sperma» (63). L’immenso virilismo fascista -«dacché tutto era, allora, maschio e Mavorte: e insino le femmine e le balie: e le poppe della tu’ balia, e l’ovario e le trombe di Falloppio e la vagina e la vulva. La virile vulva della donna italiana» (68)-, questo virilismo fece presa sulle donne, sul loro arcaico e naturale culto del fallo, che però nella modernità utilitaristica e non più sacra si fece obbedienza cieca ai dogmi del regime e non orgiastica libertà dai divieti. A tale culto, un misto di invidia ed emulazione, si accodarono e sottomisero naturalmente molti maschi.
In questo modo Eros coincide con Priapo, e dunque con una sua parte, essenziale sì ma non esclusiva e unica. Poiché «Te, se ami, a un certo punto di Io te tu diventi Tu» (169) e invece il culto assoluto che la personalità narcissica rivolge verso se stessa -perché altro non sa fare-  costituisce la negazione più evidente dell’Eros, la caricatura, la farsa. Vera cifra, quest’ultima, dell’Italia fascista e del suo Capo.
Il libro di Gadda dispiega in questo e in altri modi la propria natura anarchica. Che vuol dire impianto anticlericale1, antimilitarista2, antipatriottico3, avverso soprattutto a ogni omologazione, conformismo, servitù, per quanto volontaria. «La cosiddetta “civiltà contemporanea”, in realtà sudicia e inane verbosità, ha reso inetti i cervelli di miliardi di uomini a esercitare la benché minima funzione critica nei confronti della carta stampata, del proprio giornale in ispecie» (157). Allora il giornale, oggi ancora la stampa ma soprattutto la televisione, nella quale Gadda lavorò e che è diventata ora il luogo della più irredimibile volgarità. Quella volgarità della quale il Fascismo e il suo Duce furono emblema.


Note

1. «Religione non è l’accomodarsi col Papa per l’averne o sperarne licenza o assistenza alle sbirrerie e alle ladrerie, non è il battezzare le navi da guerra con l’asperges, non è il berciare da i’ balcone “la santità della famiglia” per poi spaparanzarsi adultero ai tardi indugi di un sonnolento tramonto» (48)
2. «Sadismo è il modo della guerra, è l’arma naturale della guerra, di ogni guerra pensabile» (113).
3. «Gli occhî tuttavia mi si velano pensando i sacrifici, i caduti, il giovine spentosi all’entrare appena in quella che doveva essere la vita, spentosi a ventun anno appiè i monti senza ritorno: perché i ciuchi avessono a ragghiare di patria e di patria, hi ha, hi ha, eja eja, dentro al sole baggiano della lor gloria. Che fu gloria mentita» (72).

 

Squallore

Nebraska
di Alexander Payne
USA, 2013
Con: Bruce Dern (Woody Grant), Will Forte (David Grant), June Squibb (Kate Grant), Stacy Keach (Ed Pegram), Bob Odenkirk (Ross Grant)
Trailer del film

nebraska-film-02Un vecchio alcolizzato, con una moglie terribile ma con dei figli che nonostante tutto lo amano, riceve un foglio pubblicitario che gli comunica la vincita di un milione di dollari. Comincia a camminare dal Montana verso Lincoln, capitale del Nebraska, dove deve riscuotere la fantomatica quota. La moglie vorrebbe metterlo in una casa di riposo. Il figlio David accompagna invece il padre. Lungo il tragitto lo porta dai fratelli, dai vecchi amici, nell’antica casa di famiglia abbandonata. A tutti Woody racconta della sua vincita e immediatamente i parenti e gli amici chiedono di restituire antichi e inesistenti debiti. L’avidità si legge sui loro volti sfatti e obesi, nei loro gesti pesanti e volgari. Cittadine senza «centro», senza cuore, dalle case sparse -isolate anche quando sono vicine- nella sconfinata pianura dell’America profonda, dei veri Stati Uniti. Quelli del denaro e della birra, del televisore sempre acceso e di una ignoranza irredimibile. Non sanno niente e nulla vogliono sapere. Soltanto il dollaro e il suo colore. E questi barbari sono i nostri padroni. Un bianco e nero triste ed elegante racconta la vita dei subumani che abitano gli States.

 

Videocrazia


La società videocratica
in L’anarchismo oggi. Un pensiero necessario
«Libertaria 2014»
a cura di Luciano Lanza
(Mimesis Editore 2013, pp. 230)
Pagine 67-71

La nuova serie di Libertaria, diventata un annuario, si apre con una riflessione a più voci e a diverse voci sulla fecondità e attualità dell’anarchismo.

«Oggi il pensiero anarchico si presenta come uno dei più originali e convincenti in un contesto caratterizzato dalla “crisi delle ideologie”. E non è un caso che l’anarchismo si sottragga a questa crisi generalizzata: non è mai stato un’ideologia nel senso pieno del termine, ma una teoria e una pratica della libertà, dell’eguaglianza e della diversità. Ed è anche per questo suo aspetto poliedrico e al contempo omogeneo (contraddizione solo apparente) che è riuscito a influenzare quasi tutti i campi del sapere e dell’arte contemporanei. Incredibile a prima vista, ma vero»
(Dalla quarta di copertina)

Eguali

Qualche tempo fa ho ricordato che «la Democrazia è fatta di almeno quattro elementi: divisione dei poteri, eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, elezioni libere e segrete, informazione indipendente da chi governa» e che in Italia manca un’informazione libera (L’Oppio, 2 giugno 2013).
Quasi a volermi testardamente dare ragione, la realtà politica conferma adesso che da noi non esiste neppure l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Nonostante, infatti, una immensa disponibilità finanziaria che gli ha consentito di assoldare gli avvocati più spregiudicati e di prolungare i processi sino alla prescrizione, il pregiudicato Berlusconi Silvio ha subìto, è vero, una condanna definitiva per aver evaso favolose somme al fisco (centinaia di milioni di euro) ma dopo tale verdetto si sono mosse immediatamente le forze dell’informazione, i partiti politici, le istituzioni, nel tentativo di annullare il significato e le conseguenze di questa sentenza. Conseguenze che comportano, per legge, la decadenza del pregiudicato-condannato-evasore dal suo seggio di senatore, l’incandidabilità futura, la fine di ogni ulteriore aspirazione istituzionale e di governo. La neolingua orwelliana utilizzata dai suoi servi -e dunque ripresa da tutta la stampa e dalle televisioni- ha inventato l’espressione «agibilità politica» come patetico ma insieme pericoloso eufemismo che maschera la pretesa di ottenere la «grazia» -vecchio relitto  giuridico dell’Ancien Régime– da parte di Napolitano. Chi chiede la grazia riconosce con ciò stesso la propria colpevolezza e si dice formalmente pentito per ciò che ha fatto. Nessuna di tali e altre condizioni è presente nell’azione e nelle parole del pregiudicato Berlusconi Silvio e tuttavia il pessimo Napolitano si è detto disponibile a concedere la grazia al «leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza», aggiungendo con infondata certezza che «va innanzi tutto ribadito che la normativa vigente esclude che Silvio Berlusconi debba espiare in carcere la pena detentiva irrogatagli e sancisce precise alternative, che possono essere modulate tenendo conto delle esigenze del caso concreto» (Dichiarazione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, 13 agosto 2013).
Perché un tale assoluto, inaudito, antidemocratico privilegio per il delinquente Berlusconi Silvio? La verità è che se Salvatore Riina fosse stato il proprietario di tre reti televisive e del Giornale, i suoi servi avrebbero chiesto di non eseguire le sentenze, il Partito Democratico avrebbe aperto un dibattito e Napolitano lo avrebbe ricevuto al Quirinale: «Tutti gli animali sono eguali ma alcuni animali sono più eguali degli altri» (Orwell, La fattoria degli animali, Mondadori 1995, p. 100).

 

Disgusto

Prima hanno preteso tre giorni di blocco, poi due, infine si sono accontentati di un pomeriggio. Ma ciò che importa è il gesto simbolico, fosse anche di un’ora soltanto. Ciò che conta è interrompere  i lavori del parlamento perché lo chiede un deputato insieme al suo partito. E lo chiede per protestare non contro una sentenza ma contro il fatto che la Cassazione voglia e debba -per legge- arrivare a una sentenza. Un’enormità costituzionale e logica che segna il punto più basso di questo infinito precipitare al quale è ridotta la vita politica italiana. Il punto più basso di una collettività in mano al padrone delle televisioni, all’amico dei mafiosi, al priapo della Brianza.
Costui è evidentemente anche il vero padrone del Partito Democratico, al quale impone e detta le sue condizioni come se i deputati e i dirigenti di quel fantasma di partito fossero degli alfano qualsiasi. E i militanti, gli iscritti, gli elettori del PD non hanno nulla da dire? Lo voteranno di nuovo? Vergognatevi, amici, se farete ancora una cosa simile. Perché vorrà dire che siete anche voi, soprattutto voi, i sostenitori dell’entità malefica e nauseabonda che domina l’Italia da vent’anni con l’attiva complicità dei violante, d’alema, veltroni, napolitano.
Micromega continua a lanciare appelli alla giunta del senato -che dovrebbe riunirsi domani- affinché dichiari ineleggibile Silvio Berlusconi in base alle leggi della Repubblica. Ma non c’è Repubblica, non c’è legge. C’è solamente l’interesse di un soggetto che se anche fosse soltanto il proprietario di Mediaset sarebbe un’entità putrescente, finta, volgare e inguardabile, «d’un viscidume crasso e melenso» (Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Garzanti 1994, p. 118).

Sull’Università italiana: numeri e pregiudizi

L’obiettivo è anestetizzare il corpo sociale e indurlo ad accettare le decisioni prese dalle istituzioni finanziarie e dai poteri politici a esse subordinate. Quali i mezzi? Due sopratutto, tra di loro strettamente coniugati: la droga televisiva (distrazione e disinformazione) e l’umiliazione della conoscenza. Il risultato sarà -deve essere- la limitazione del pensiero critico a individui isolati e a piccoli gruppi, additati al pubblico disprezzo delle masse.
Uno degli ambiti nei quali tale strategia si dispiega è quello della formazione universitaria. È in questa sede, infatti, che dovrebbe arrivare a maturazione e compimento il percorso di conoscenza, e quindi di libertà, che comincia con la scuola. E allora ecco che in Italia un gruppo di bocconiani fanatici e di agguerriti professori collaborazionisti che scorrazzano nei “più grandi quotidiani del Paese”, coadiuvati da pittoreschi giornalisti e da una signora laureata in giurisprudenza a Brescia (fuori corso e con il voto di 100 su 110, che andò a prendersi l’abilitazione in Calabria e che poi divenne persino ministra dell’Università) cominciano a ripetere ossessivamente che per l’Università italiana si spende troppo, che professori e studenti sono in numero spropositato, che la laurea non serve a nulla. I loro nomi? Eccoli: Mariastella Gelmini, Francesco Giavazzi, Roberto Perotti, Francesco Profumo, Michel Martone, Andrea Ichino, Oscar Giannino, Sergio Benedetto. Costoro diventano direttamente decisori politici (Gelmini, Profumo) o potenti consiglieri dei decisori.
La loro tenace arroganza è tuttavia pari alla loro impreparazione. È quanto si desume dall’edizione 2013 del Rapporto OCSE Education at a Glance, i cui risultati sono sintetizzati e discussi da Giuseppe De Nicolao su «Roars»: Education at a Glance 2013: cosa dice l’OCSE dell’università italiana?
Da tale studio risulta che l’Italia è la 30° su 33 Paesi dell’OCSE nella spesa per l’Università; che soltanto l’Ungheria effettua tagli superiori a quelli dell’Italia, la quale è l’ultima come percentuale dell’istruzione sul totale della spesa pubblica; che nel rapporto studenti/docenti su 26 nazioni soltanto 5 stanno peggio di noi; che nei costi per ogni singolo studente siamo al 14° posto su 24; che lungi dall’essere «quasi gratuita» (Giavazzi dixit) l’Università italiana è al 3° posto come somme richieste alle famiglie; che l’età media dei laureati di primo livello è la più bassa in Europa; che ben lontani dall’avere troppi laureati, siamo al 34° posto su 36; che i benefici pubblici di un laureato italiano sono superiori del 3,7 ai costi sostenuti; che i laureati hanno un reddito medio superiore del 48% a quello dei diplomati; che la percentuale di laureati che trovano lavoro è del 79% rispetto al 75% dei diplomati nelle scuole superiori e al 58% dei diplomati nella scuola media.
Le conclusioni di De Nicolao sono le seguenti: «Una nazione che investe poche risorse umane e finanziarie nell’istruzione universitaria e che negli ultimi anni ha tagliato ulteriormente nel contesto di un generale disinvestimento riguardante l’intero settore dell’istruzione. Una percentuale di laureati che ci vede ultimi in Europa e penultimi nell’OCSE. Una spesa per studente che è sotto la media mentre è in aumento la percentuale di costo scaricata sulle spalle degli studenti e delle loro famiglie. Per l’Italia, i dati OCSE dipingono con efficacia il quadro di una nazione che ha intrapreso con decisione la via del declino civile, culturale ed economico».
L’Università italiana ha certamente limiti e problemi di varia natura. Uno di essi è la presenza al proprio interno di professori come quelli elencati sopra, i quali stanno dando un attivo contributo -fatto di di superficialità e di pregiudizio- alla sua distruzione. I numeri dell’OCSE bocciano tali professori e la loro impreparazione come studiosi e come cittadini. Ma si sa che i collaborazionisti sono di solito più zelanti dei loro padroni.

[Un commento sintetico e vivace a questi dati si può leggere sul «Fatto Quotidiano» a opera di Thomas Mackinson: Università, l’Ocse sbugiarda stampa e politica. “Troppi costi e studenti”: falso. Segnalo anche due articoli dedicati da Francesco Coniglione allo stesso tema, usciti su «Vita pensata»: Università sotto tiro. Miti e realtà del sistema universitario italiano (I parteII parte), poi ulteriormente elaborati nel volume Maledetta Università. Fantasie e realtà sul sistema della ricerca in Italia, Di Girolamo Editore, 2011]

 

Sensazione / Ascesi

Domenica 9 giugno sono stato al cinema, a Catania. Come è ormai fastidiosa necessità, ho dovuto richiamare al silenzio un gruppo di persone: non degli adolescenti toppo vivaci ma alcuni maturi signori e signore tra i cinquanta e i sessanta anni. È la maleducazione, certo, ma è anche la consuetudine di vedere i film in televisione e di scambiarsi le opinioni sul film stesso o su altro. Il cinema vero, naturalmente, lo si gusta e percepisce soltanto nelle sale cinematografiche.
Ma non basta: davanti a me c’era un tizio che ha acceso almeno una dozzina di volte il suo cellulare per controllare qualcosa sulla propria pagina di facebook. Una vera addiction, una dipendenza grave, una droga che crea dei fenomeni di astinenza pari a quelli di qualunque altro stupefacente. Non è un caso che della sensazione sia parte la Sucht, parola che in tedesco indica insieme desiderio, passione, malattia, tossicodipendenza. Presente in quasi tutte le società umane, l’utilizzo delle droghe è diventato tossicodipendenza soltanto quando l’ebbrezza è stata separata dalla festa collettiva per diventare esperienza del singolo e quindi sua personale debolezza. Ma la sensazione è anche un’esperienza di ricchezza percettiva, intellettuale ed esistenziale; non è soltanto un sensazionale tanto più stordente quanto più psichedelico. La sensazione è lo stesso stare al mondo. Non è il televisivo oppio del popolo.
Ne abbiamo parlato quest’anno nel corso di Sociologia della cultura. E lo abbiamo fatto anche tramite un libro ricco e profondo come La società eccitata. Filosofia della sensazione di Christoph Türcke (Bollati Borighieri, 2012; ne ho accennato pure qui). Di fronte a fenomeni così pervasivi non si può secondo Türcke invitare all’astinenza ma piuttosto praticare un atteggiamento da “freno d’emergenza”, per citare il Benjamin (Sul concetto di storia, Einaudi 1977, p. 101) che alla rivoluzione come “locomotiva della storia universale” (Marx) contrapponeva le rivoluzioni come -appunto- freno d’emergenza del genere umano che sul treno della storia viaggia :

Sulle strade, nei centri commerciali, negli alberghi, nelle banche, nei luoghi di lavoro, ovunque uno, se vuole continuare a pensare con la propria testa, deve tentare di tirar su le paratie contro l’imperversare di imbonimenti e stimolazioni. […] Qualcosa di così poco importante come la decisione di tollerare o meno la musica di sfondo in un ristorante può diventare improvvisamente una questione di principio, una cartina di tornasole del coraggio civile. […] Il ricopiare testi e formule, che un tempo era il contrassegno del tutto comune della scuola repressiva, nelle condizioni dell’universale irrequietezza degli schermi, da cui anche le classi scolastiche sono sempre meno risparmiate, può diventare inaspettatamente una misura di concentrazione motoria, affettiva e mentale, di ingresso nella propria interiorità […] Insegnanti che prestano seriamente attenzione affinché non ci sia qui un sottodosaggio operano resistenza, per quanto in base alla terminologia politica tradizionale possano passare per conservatori. Dove ogni concessione al solleticamento mediatico dei sensi porta avanti l’autoespropriazione estetico-neurologica, là il tirare su delle paratie contro l’ininterrotta radiazione audiovisiva, equivale a prendere partito per la sensibilità dei sensi. Li mantiene aperti a un’esperienza conforme alle cose, diventa luogotenente del miglior godimento alternativo e porta nuovamente in luce il senso fondamentale dell’ascesi. […] Là dove essa diventa l’ultima ratio contro il vampirismo audiovisivo, si avvicina nuovamente al rimedio d’emergenza arcaico. (La società eccitata, pp. 331-332)

 

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