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Il mito e la storia

Il mito come storia
Cinque drammi di Friedrich Dürrenmatt

in Il Covile
anno XVI, numero 705, 21 ottobre 2024
Pagine 1-8

Collaboro con numerose riviste (e ne dirigo una) ma la soddisfazione che mi regala la pubblicazione di un saggio su Il Covile è particolare, e questo per due precise ragioni:
-l’eleganza e la bellezza della rivista, il suo coraggio di apparire antica anche nella grafica;
-l’affrancamento dai miserabili dogmi del presente, ciò che Nietzsche chiama unzeitgemäß, inattuale.
Dietro due elementi come questi abitano infatti molte condizioni e un intero mondo.
Nel saggio ho cercato di leggere cinque drammi storici di Dürrenmatt anche alla luce di uno dei racconti più straordinari di questo drammaturgo e narratore: La morte della Pizia.

Indice del saggio
-Premessa sul Nobel
-Mito e storia
-Un angelo è sceso a Babilonia
-Sta scritto
-Il cieco
-La meteora
-Frank V
-Conclusione. Il male a Delphi

Dürrenmatt / Céline

Feroci sentimentalismi
Aldous
, 12 ottobre 2024
Pagine 1-2

Dürrenmatt e Céline, letti insieme, ci permettono di capire sino in fondo la storia di sempre e la storia presente. Di entrambi si può infatti dire quello che un personaggio di Dürrenmatt afferma a proposito dell’autore che lo ha creato: «…questo appassionato di favole crudeli e di commedie inutili», le quali disvelano la crudeltà dei viventi e l’inutilità della storia.

Romolo il Grande

Friedrich Dürrenmatt
Romolo il Grande
(Romulus der Große, 1949, prima rappresentazione a Basilea 23.4.1949)
In «Teatro», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Aloiso Rendi
Einaudi-Gallimard, Torino 2002
Pagine 181-256

Romolo detto Augustolo divenne imperatore di Roma all’età di sedici anni nel 475. Dopo un anno di governo abdicò ritirandosi nella villa di Lucullo in Campania. Con lui finì l’Impero poiché Odoacre, capo dei Germani, non si proclamò imperatore a sua volta ma Re d’Italia. In questa sua commedia, Dürrenmatt dilata il regno di Romolo di vent’anni, ne fa quindi un adulto e soprattutto ne costruisce il personaggio su una ambiguità che emerge soltanto con lo svolgersi degli eventi.
Romolo appare infatti all’inizio come una sorta di cinico un po’ superficiale e un poco clownesco, interamente dedito alle sue galline, alle quali ha attribuito nomi di re e imperatori e che segue nella quotidiana emissione o meno dell’uovo. La moglie Giulia, la figlia Rea e alcuni ministri sono inorriditi da un simile atteggiamento. Il Prefetto della Cavalleria Spurio Tito Manna cerca di parlare con lui dopo aver cavalcato per giorni e notti allo scopo di recargli la notizia dell’arrivo dei Germani ma Romolo non lo ascolta neppure. Al che il Prefetto urla che «Roma ha un imperatore infame!» (p. 207). Anche il fidanzato della figlia, Emiliano, fuggito dalla prigionia e dalle torture dei Germani, si convince che non ci sarà futuro per Roma senza la morte dell’uomo che la sta tradendo. E in effetti l’imperatore è convinto, e lo dice, che «Roma è già morta da un pezzo» (ibidem), tanto che il suo obiettivo consiste nell’affrettare tale morte causando il minor sangue e dolore possibili. A questo scopo Romolo non fa nulla, semplicemente, «lasciando cadere ciò che è destinato ad andare a pezzi e calpestando ciò che merita la morte» (223).
Emerge in questo modo la natura politica del comportamento apparentemente bizzarro e irresponsabile di Romolo, fondato invece sull’«arte di guardare le cose senza paura» e su «quella di compiere senza paura ciò che è giusto» (232). E compierlo a qualunque costo. Per questo, anche per questo, in realtà si tratta di un personaggio, come commenta il suo creatore, «che agisce con estrema durezza e spietatezza […], un tipo pericoloso che ha puntato sulla propria morte» (1204) provocando, se risulta inevitabile, quella di altri.
L’azione giunge al culmine, e svela in che cosa consista la grandezza di Romolo, nella parte finale, nel confronto tra Romolo che vorrebbe essere ucciso da Odoacre e Odoacre che vorrebbe sottomettersi a lui. Il dialogo tra questi due politici delinea una vera e propria filosofia della storia, intrisa di disincanto e di disprezzo verso il potere. Alla fine, infatti, Odoacre accetta di essere nominato Re d’Italia come ultima decisione dell’imperatore e Romolo accetta di non essere ucciso e andare in pensione. I due concordano sul recitare la commedia del potere: «Facciamo finta che, a questo mondo, i conti tornino e che nell’uomo lo spirito possa vincere sulla materia» (254). Un’osservazione, quest’ultima, di natura antropologica e ontologica che conferma la trama interamente filosofica della narrativa e della drammaturgia di Dürrenmatt.
Di fronte ai capi germanici, convocati da Odoacre per rendere omaggio all’imperatore, Romolo dichiara che:

l’imperatore scioglie il suo Impero. Guardatela per l’ultima volta questa sfera multicolore, questo segno di un grande impero, sospesa nello spazio, sospinta dal lieve alito delle mie labbra; guardate le terre che si estendono intorno al mare azzurro in cui danzano i delfini, guardate le ricche provincie biondeggianti di messi, le città affollate traboccanti di vita: era un sole che riscaldava gli uomini, e che giunto al suo culmine, bruciò tutto il mondo, per poi divenire adesso, nelle mani dell’imperatore, un globo leggero, che si dissolve nel nulla (255).

Dürrenmatt riafferma così il suo anarchismo, seppure moderato, dichiarandosi non contro lo Stato in quanto tale ma contro lo Stato che commette crimini e soprattutto lo Stato di grandi dimensioni. In ogni caso, «nei confronti dello Stato bisogna essere astuti come serpenti ma mai, per carità, miti come colombe» (1205). Un consiglio di grande fecondità anche per il presente, come sempre.

I fisici

Friedrich Dürrenmatt
I Fisici
(Die Physiker, 1962-1985)
A cura di Aloisio Rendi
Einaudi, 1988
Pagine 87

Insieme alle matematiche la fisica è espressione di un supremo ordine nelle scienze e nel mondo. E tuttavia l’esistenza è anche e soprattutto una forma di disordine, come la termodinamica (che è parte della fisica) efficacemente mostra. Tale ambiguità interna al mondo e dunque anche alla fisica appare manifesta nella vicenda di tre fisici pazzi chiusi in un manicomio di lusso, dei quali due si credono rispettivamente Newton e Einstein e il terzo dichiara di ricevere le sue formule, conoscenze e leggi dal Re Salomone che sempre gli appare.
Si chiama Möbius, quest’ultimo, e le carte che Salomone gli ispira costituiscono la soluzione nuova e del tutto sconvolgente della teoria del campo come teoria unitaria delle particelle elementari, della legge di gravitazione, del sistema di tutte le invenzioni possibili. I tre fisici uccidono, strangolandole, le infermiere che li hanno in cura. Durante il serrato dialogo che accompagna una cena emergono in realtà le ragioni di questi assassini, il cui «scopo è il progresso della fisica» (p. 68). Nessuno di loro sembra quindi realmente folle. Ai due colleghi che si trovano in quel luogo perché hanno il compito di carpire i segreti di Möbius, quest’ultimo dichiara che ha dovuto fingersi pazzo per evitare che le sue scoperte e teorie offrissero all’umanità, agli Stati, ai governi una potenza distruttiva senza pari. «La nostra scienza», infatti, «è divenuta terribile, la nostra ricerca pericolosa, le nostre scoperte, letali. […] Solo nel manicomio siamo ancora liberi. Solo nel manicomio ci è ancora permesso di pensare. In libertà, i nostri pensieri sono dinamite» (70). Finta è dunque questa follia? Forse. Ma la direttrice del manicomio, la dottoressa Mathilde von Zahnd – una vergine gobba -, appare più folle di loro e si appropria delle conoscenze di Möbius, credendo forse davvero che gliele abbia rivelate il Re Salomone.
Questo vortice di razionalità paradossale e di ordinata follia è sotto il segno del grottesco e del caso ma la sua scrittura da parte di Dürrenmatt è motivata nel sedicesimo dei «21 punti su ‘I fisici’», il quale recita: «Il contenuto della fisica riguarda solo i fisici, i suoi effetti riguardano tutti» (83). Effetti che nascono dalla follia non dei fisici ma del mondo. È infatti «nel paradosso [che] si rivela la realtà» (punto 19, p. 84).
Ancora una volta scintillante e tragico, Dürrenmatt.

Una decadenza

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Minetti. Ritratto di un artista da vecchio
di Thomas Bernhard
traduzione di Umberto Gandini
con Glauco Mauri
e con Stefania Micheli, Federico Brugnone, Danilo Capezzani, Francesca Trianni, Pietro Bovi, Giuliano Bruzzese
regia Andrea Baracco
produzione Compagnia Mauri Sturno

Bernhard Minetti è stato l’attore più amato dal drammaturgo Thomas Bernhard (1931-1989) che al suo amico  dedicò un testo teatrale e teoretico di grande interesse.
Minetti. Ritratto di un artista da vecchio raffigura infatti un attore che porta questo nome, il quale ormai molto anziano arriva la sera di Capodanno in un albergo dove ha appuntamento con un direttore di teatro che gli ha chiesto di portare ancora una volta in scena il King Lear di Shakespeare. È questa l’unica opera che Minetti salva dal naufragio della cultura classica, che personalmente detesta, tanto da essersi ritirato dalle scene per non dover interpretare le parole di un mondo al quale non crede più. In verità Minetti non spiega le ragioni di questo rifiuto. Piuttosto in un lungo monologo, al quale prestano ascolto due giovani signore e un impiegato dell’albergo, parla delle città, dei teatri, del pubblico. Tutti elementi verso i quali nutre un astio profondo e insieme un’evidente nostalgia.
Nella messa in scena di Andrea Baracco mentre l’attore parla appaiono figure deformi, dei giovani con le maschere, spettri di un mondo in rovina. Minetti fa continuo riferimento a una maschera di King Lear appositamente preparata per lui trent’anni prima da un grande scultore. Quando le luci della festa e della vita si spengono, l’attore indossa ancora una volta la maschera mentre la scena e la sua finzione vengono disvelate al pubblico.
Glauco Mauri, attore di 92 anni, è capace di ricordare e interpretare l‘intero monologo con i tempi e le pause giuste. La regia è onirica e inquietante e viene così spiegata da Andrea Baracco:
«La scena su cui si aprono le pagine o si levano i sipari di Bernhard è quella del day after: l’esplosione è già avvenuta, è ormai lontana. Il mondo, intatto solo in apparenza, è scardinato in profondità. Follia, gelo, malattia e devastazione: ruota come impazzito seguendo un’orbita indecifrabile e assurda. Il superstite, con facoltà di parola, si pone di fronte a questo caos, a questo perturbamento: tenta di decifrarlo, di contrapporglisi, persegue questo scopo con folle determinazione, pur essendo conscio che porterà soltanto alla dissoluzione fisica e mentale.
L’unica possibilità di sopravvivenza sembra essere, allora la ricerca della perfezione in campi che fino a poco tempo fa erano il luogo della bellezza, del senso: il teatro, la musica, la letteratura, la filosofia» (Programma di sala, p. 4).
In verità Minetti e Bernhard non sembrano cercare la perfezione della conoscenza e dell’arte ma, al contrario, prendere atto di quello che mi sembra un nichilistico rifiuto della parola e della bellezza proprio mentre la parola fluisce un poco ovvia e in ogni caso risentita verso la storia e l’umano.
Il testo è alla fine una metafora dell’inevitabile, del morire. Metafora del tramonto di una vita che non sa perché è stata, quale sia il senso. Il senso non dell’esistenza di Minetti ma di tutti.

Le arti

È uscito da qualche giorno il numero 29 (anno XIII, novembre 2023) della rivista di filosofia Vita pensata. Numero dedicato alle arti (al plurale) con nove testi che affrontano sia tematiche teoretiche ed estetiche generali sia specifiche opere di letteratura, pittura, teatro, architettura.
Tra i contributi di argomento diverso segnalo l’ampio saggio di David Benatar (tradotto da Sarah Dierna) dal titolo Un argomento misantropico per l’antinatalismo; un testo che sono particolarmente felice di aver pubblicato anche per le ragioni indicate nell’editoriale. Quest’ultimo è firmato da un nuovo Comitato di redazione, che ringrazio per l’attento e rigoroso lavoro che ha dedicato a questo numero della rivista, così come ringrazio tutti gli autori dei saggi che la compongono.
Inserisco qui sotto i due link dai quali è possibile leggere la rivista sul suo sito o scaricarla integralmente in un nuovo formato pdf, che confidiamo renderà più comoda e funzionale la lettura. Aggiungo il testo dell’editoriale e quello di una mia breve analisi della mostra che Milano ha dedicato quest’anno a Bill Viola, la cui opera rappresenta una sintesi tra la grande arte del Rinascimento e le tecnologie contemporanee.

Contro l’autorità

Piccolo Teatro Strehler – Milano
L’arte della commedia
di Eduardo De Filippo
adattamento e regia Fausto Russo Alesi
con: Fausto Russo Alesi, David Meden, Sem Bonventre, Alex Cendron, Paolo Zuccari, Filippo Luna, Gennaro De Sia, Imma Villa, Demian Troiano Hackman, Davide Falbo
scene Marco Rossi
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro della Toscana – Teatro Nazionale, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Elledieffe
Sino al 5 novembre 2023

«Venga a teatro, Sig. Prefetto! A Teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione…». Un invito decisamente pirandelliano, tanto più che i Sei personaggi in cerca d’autore vengono esplicitamente citati. E tuttavia, subito dopo aver ricordato il titolo di Pirandello, il capocomico Oreste Campese aggiunge «Ma qui Pirandello non c’entra nulla. Non sono i personaggi in cerca d’autore ma gli attori in cerca di autorità».
Campese chiede infatti udienza al prefetto da poco arrivato in città; il capannone della sua Compagnia è andato distrutto da un incendio e la presenza del prefetto alla rappresentazione nel Teatro Comunale sarebbe di lustro e di richiamo. Il prefetto si aspettava una divertente conversazione con un guitto e invece si trova davanti un uomo di teatro dalle sfumature complesse e per il prefetto «sofistiche», che si permette di arruolarlo come «specchietto per le allodole». Rifiuta quindi con sdegno il suo invito. Ma Campese gli promette che presto capirà che cosa siano teatro, finzione, verità.
E infatti le persone che il funzionario riceve nel pomeriggio dello stesso giorno non si comprende se siano reali – il medico, il parroco, la maestra elementare, il farmacista – o se siano gli attori inviati da Campese a recitare le storie che avevano coralmente scritto per il nuovo spettacolo. Storie di inquietudine, di aspirazioni frustrate, di matrimoni divorzi e aborti, di licenze negate e di suicidi, di figli illegittimi e di bambini morti. Il profluvio del dolore umano, della sua ambiguità, della sua inestirpabilità, travolge il prefetto, il suo segretario, il militare a guardia dell’istituzione. E vince il disvelamento che la finzione teatrale sa attuare dell’autorità sanitaria, di quella religiosa ed educativa, del potere politico e burocratico.
Un metateatro messo in scena da Fausto Russo Alesi in modo da estrarre dal testo di Eduardo gli accenti e le forme più dolenti, persino cupe nell’ambientazione oscura delle scene, e nel quale gli attori toccano e fanno suonare l’intera tastiera del recitare: dimesso, allucinato, struggente, grottesco, folle, caricaturale, dignitoso, solitario.
«Un atto poetico e politico per il Teatro» scrive Russo Alesi, «una istintiva risata liberatoria» (Programma di sala, pp. 8 e 10) nella quale De Filippo si coniuga a Kafka e a una delle formule dell’anarchismo: «Una risata vi seppellirà», dove a essere sepolta è l’autorità cadaverica che in questi anni Venti del XXI secolo va mostrando sempre più e in vari ambiti – Ministri della Sanità, Pontefici, Professori e Rettori Universitari, Medici, Presidenti di Repubbliche e Confederazioni – la propria sostanza di morte.

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