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Un sorriso vi seppellirà

L’esplosivo piano di Bazil
(Micmacs à Tire-larigot)
di Jean-Pierre Jeunet
Francia, 2009
Con Dany Boon (Bazil), André Dussolier (Nicolas Thibault De Fenouillet), Nicolas Marié (François Marconi), Jean-Pierre Marielle (Placard), Yolande Moreau (Tambouille), Julie Ferrier (La madre di plastica), Omar Sy (Remington), Dominique Pinon (Fracasse), Michel Cremades (Petit Pierre), Marie-Julie Baup (Calculette)
Trailer del film

Bazil è proprio sfortunato. Suo padre fa l’artificiere e salta in aria su una mina, la madre va in manicomio, lui viene colpito da una pallottola vagante. Sopravvissuto, perde lavoro e casa. Cerca di cavarsela diventando un artista ambulante, bravissimo nel mimare le voci di cantanti e attori. La svolta è l’incontro con Placard, un barbone che lo introduce in un mondo di personaggi che hanno fatto del riciclare, dell’inventare, dell’immaginare, uno strumento di difesa e una vera e propria arte. Insieme a loro, architetta progetti su progetti per vendicarsi delle aziende produttrici delle armi che gli hanno ucciso il padre e distrutto la vita.

I due mercanti di armi sono proprio dei loschi figuri: ricchissimi, incapaci di qualunque relazione umana, pieni di manie e di follie. Contro il male che essi rappresentano, Jean-Pierre Jeunet costruisce un film congegnato come un meccanismo inesorabile e ironico, ambientato in una Parigi da sogno infantile, un po’ modernissima e un po’ anni Cinquanta. La poetica è la stessa di Delicatessen e del Favoloso mondo di Amélie: un accumulo sempre più  grottesco e potente di oggetti, ingranaggi, corpi, fantasie; una summa anche di citazioni cinefile, da Casablanca alle opere di Sergio Leone. Un film dove i buoni vincono, un sogno molto colorato e divertente. Un sorriso che fa esplodere i malvagi e li seppellisce insieme alle loro armi.

Dalì

Salvador Dalì. Il sogno si avvicina
Milano – Palazzo Reale
A cura di Vincenzo Trione, con la collaborazione della Fondazione Gala Salvador Dalì
Sino al 30 gennaio 2011

Dalì ha dato forma al diventar sogno del mondo. Uno dei suoi scopi è di «contribuire all’assoluto discredito del mondo reale» dipingendo con esattezza i pensieri, le euforie, i ritmi, la morte. Dipingendo il tempo, coi suoi orologi liquidi, deformi, -quelli che compaiono in Il giardino delle ore, (1981) o ne Alla ricerca della quarta dimensione (1979)- che segnano l’immobilità dello spazio, l’eternità della morte. La metafisica di Dalì è seria sino alla tragedia e ironica come in un gioco. Il luogo più desolato è in ogni caso la storia. Sui suoi eventi Dalì getta uno sguardo simile a quello di Goya mostrandone l’immensa stoltezza e crescendo di pietà all’avanzare del macello. Un’opera come Volto della guerra (1940-41) è l’emblema più terrificante e autentico di ciò che in quegli anni stava accadendo, della pulsione di morte e d’orrore che spinge la specie e i suoi giorni, che fa degli stati e del potere la grande falce che tutto trasforma in teschio. La via d’uscita dal calore dissolvente della storia è la freddezza del mito. «Se i classici sono freddi è perché la loro fiamma è eterna», scrisse Dalì, dando a questa verità la forma splendente e magnifica di quadri come  Apparizione dell’Afrodite di Cnido (1981), Grande testa di dio greco, (1946), Torso-edificio su scacchiera (1946) e molti altri tra i suoi più belli, evocativi, fuori dalla prigionia del male. Su tutto dominano il divertimento, l’inventiva e l’invenzione, il sogno e la sua geometria.

[ Una più ampia recensione di questa mostra si può leggere su Vita pensata 7 – gennaio 2011 ]

La bellezza del somaro

di Sergio Castellitto
Italia, 2010
Sceneggiatura di Margaret Mazzantini
Con: Sergio Castellitto (Marcello), Laura Morante (Marina), Enzo Jannacci (Armando), Nina Torresi (Rosa), Barbara Bobulova (Lory), Marco Giallini (Duccio), Gianfelice Imparato (Valentino), Emanuela Grimalda (Raimonda), Lidia Vitale (Delfina), Renato Marchetti (Ettore Maria), Lola Ponce (Gladys)
Trailer del film

Marcello e Marina sono due professionisti romani simpatici, agiati, politicamente correttissimi, i quali hanno sempre permesso alla loro figlia Nina di fare ciò che voleva. Adolescente molto seria ma anche puntuta, Nina ha un nuovo fidanzato. I genitori le propongono di invitarlo a una festa in campagna, convinti che il ragazzo sia un amichetto negro. E invece no. Armando è un bianco settantenne. Vacillano, naturalmente, le aperture mentali delle quali i due genitori si facevano vanto. Al loro posto si scatenano litigi, ricordi negativi, tradimenti. Marcello comincia a farsi le canne con i compagni della figlia, Marina cerca di riscoprire la propria femminilità infranta. Tutto intorno ruota una fauna di improbabili amici di famiglia: una preside bulimica e iperpermissiva, un cardiologo più interessato a vagine che a cuori, un economista che studia di continuo l’inglese, la severissima colf rumena, due pazienti di Marina decisamente schizzati, una giornalista assai antipatica e, naturalmente, un somaro. Ma chi è davvero Armando? Un furbo, un ex diplomatico, un buono, un guru? Non si sa, ma comincia a essere chiamato “il Presidente” (con chiaro riferimento al magnifico Chance il giardiniere di Being There). Presidente di che cosa? «Di tutto».

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Pig Island

Pig Island by Paul McCarthy
Milano – Fondazione Nicola Trussardi – Palazzo Citterio
Sino al 4 luglio 2010

Nei sotterranei di Palazzo Citterio -a pochi passi dalla Pinacoteca di Brera- un uomo dormiente o forse morto accoglie i visitatori e li avvia verso questo suo bulimico e monumentale sogno. Un percorso onirico tra antiche fiabe, pirati e divette del cinema, dame settecentesche e fiumi di ketchup, falli di gomma e video pantagruelici. Un’arte per aggiunta, nella quale il surrealismo sembra trovare uno dei suoi vertici, ma è la realtà che vince. La realtà del potere sempre più folle che dilaga tra gli umani. Una sorta di Presidente Schreber che assume le fattezze dei Bush (una mescolanza di padre e figlio) mentre si accoppiano con una scrofa. Una sorta di Grande Abbuffata e di Salò o le centoventi giornate di Sodoma ma tutto declinato in salsa statunitense con gli hamburger, i cappelli, le forche e soprattutto un senso di pieno che non lascia spazio a nulla che non sia materia, pura materia: legno, plastica, silicone, acciaio, polistirolo, nylon, vetro… È l’orgia dell’opera mai completata, sempre provvisoria, vista mentre la si fa ed è pronta a cambiare, ad aggiungere ancora non senso allo spazio. Una civiltà letteralmente mostruosa si guarda allo specchio. Orripilante. Non l’opera, il mondo.

Lichtenstein

Roy Lichtenstein.
Meditations on Art

Milano – Palazzo della Triennale
Sino al 30 maggio 2010

Molto, molto più che Pop Art. Un uomo ironico e colto assorbe una grande varietà di ispirazioni e di temi ma poi li ricrea mediante la consapevolezza profonda del proprio fare: «Io tento sempre, in un certo senso, di cancellare il “significante” dell’originale», affermò Lichtenstein, in questo modo trasformando la sua copia in un originale. Al Cubismo -in particolare Legér e Picasso- sottrae le ombre e ne fa dunque pura pittura, lontana dalla plastica; del Futurismo intensifica il rapporto tra tempo e movimento, ripensando Carrà in un grande dipinto dal titolo The Red Horseman (1974); la cattedrale di Rouen dipinta da Monet in tre differenti ore del giorno diventa un gioco di ombre su ombre, visibile soltanto a distanza, poiché -spiegò- «il mio lavoro non riguarda la forma. Riguarda la vista»; la pittura degli Indiani pellerossa è restituita con grande rispetto; la classicità greca ritorna nella serie “Entablature” degli anni Settanta, nello splendido Cosmology, nel Laooconte; col Surrealismo la consonanza è forse più immediata ma gli esiti sono assai più lievi; Mondrian sembra particolarmente presente nella serie dei “Perfect and Imperfect Painting”, nei quali Lichtenstein cercò «di fare un quadro astratto completamente privo di scopo»; le numerose “Still Life” costituiscono un profondo rinnovamento di uno dei soggetti più antichi. Ma è negli ultimi dipinti ispirati all’arte giapponese che questo artista raggiunge una purezza e una bellezza struggenti. Vista with Bridge e Tall Mountains (entrambi del 1996, un anno prima della morte) coniugano il vuoto/silenzio dell’Oriente con l’inconfondibile “stile Lichtenstein”. È un’emozione poter guardare questo estremo cenno del pittore all’enigma delle cose e della loro riproducibilità.

DADA e SURREALISMO riscoperti

Roma –  Complesso del Vittoriano
Sino al 7 febbraio 2010

duchamp

Dada è gioco, gratuità, slancio oltre i significati, nichilismo che sa come senso non si dia se non quello che alle forme e al tempo noi per avventura, fortuna, talento riusciamo a offrire. È il divertimento che dando a ognuno il compito di scegliere una parola all’insaputa dell’altro crea la prima frase -celebre, inquietante, enigmatica e insensata- che da allora divenne il nome stesso del gioco: «Il cadavere squisito berrà il vino nuovo».
Surrealismo è la profondità concettuale che sa come la realtà sia una costruzione della mente e la veglia un risultato del sogno. I surrealisti trasformano dunque in colore e forma la materia dei sogni. Il risultato non può che essere l’orrore, per quanto lieve e divertito. C’è e non poteva non esserci nel Surrealismo un sentore profondo di cadavere (appunto) perché quando la mente sogna non fa altro che perlustrare i confini della propria morte, l’impensabile del non più esserci una volta che si è stati.
Ma in Dada e nel Surrealismo non è possibile trovare alcun legame tra i vari artisti. Ognuno, per definizione, va per conto proprio; da sé sperimenta, crea linguaggi anche irriducibili e inconfrontabili coi linguaggi degli altri. E quindi se al Vittoriano si possono toccare i celebri readymade di Duchamp (la ruota di bicicletta sul piedistallo di legno, la fontana-orinatoio, la vanga appesa al tetto…) o le sue gioconde baffute, l’occhio può spaziare molto oltre, in una difforme varietà di espressioni: i 63 attaccapanni di Man Ray, il paradossale invito al viaggio in una stanza chiusa di Pierre Roy, il pianoforte afono e capovolto di John Cage, il potente castello/roccia sospeso tra mare e cielo di Magritte, il fallo costruito con legno e clessidre (Coming and Going) di Marcel Mariën, gli scheletri di Delveaux in tranquilla attesa della liberazione, le sculture arcaiche e insieme avveniristiche di Alberto Giacometti…e molto, molto altro a dire la potenza e la disperazione dei sogni.

marien-coming and going

Il mondo di Horten

(O’ Horten)
di Bent Hamer
Norvegia – Germania – Francia 2007
Con: Baard Owe (Horten), Espen Skjønberg (Trygve Sissener), Ghita Nørby (Fru Thøgersen), Henny Moan (Svea), Bjørn Floberg (Flo)
Trailer del film

ilmondodihorten

Odd Orten è al suo ultimo viaggio sulla tratta Bergen-Oslo, poi andrà in pensione dopo quarant’anni di lavoro da macchinista. I colleghi organizzano una festa durante la quale cominciano ad accadere eventi semplici ma imprevedibili per la sua vita di attempato solitario. Horten incontra bambini imperiosi, nuotatrici lesbiche, cani nella neve, tabaccaie vedove, madri svampite, diplomatici inventori che guidano a occhi chiusi…E finalmente impara a volare.

Toni teneri e surreali in una Norvegia imbiancata e intima. Una meditazione sulla solitudine e sul sorriso. Molte inquadrature -i treni sulla neve, gli incroci urbani-diventano dei veri dipinti, soprattutto nelle riprese dall’alto.

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