El Club
di Pablo Larraín
Cile, 2015
Con: Alfredo Castro (Padre Vidal), Antonia Zegers (suor Monica), Marcelo Alonso (Padre García), Jaime Vadell (Padre Silva), Alejandro Goic (Padre Ortega), Alejandro Sieveking (Padre Ramírez), Roberto Farías (I) (Sandokan)
Trailer del film
Pablo Larraín osserva la tenebra del mondo e la restituisce in immagini.
Così in Tony Manero (2008) o in Post mortem (2010). Qui raggiunge il culmine penetrando negli anfratti di una impossibilità. L’impossibilità di essere casti, onesti, puri per decreto. Esserlo perché una norma, un contratto, una consuetudine lo chiede e lo pretende. I quattro sacerdoti cattolici che abitano a La Boca, sulla costa cilena, assistiti e sorvegliati da una suora, debbono tutti scontare delle colpe inerenti al loro ministero. Quando arriva un quinto ospite della casa, insieme a lui si presenta un uomo che da fuori canta, urla e racconta gli stupri che da bambino ha dovuto subire dal nuovo inquilino. Gli altri preti gli ordinano di fare qualcosa, di agire per evitare lo scandalo. Il confratello si uccide. Arriva un giovane gesuita incaricato di indagare e riferire su quanto accaduto. Nei suoi colloqui con i preti e con la suora emerge e gorgoglia la perversione non soltanto sessuale di queste persone. I personaggi appaiono soli di fronte alla cinepresa. Si difendono, resistono, negano, spiegano, giustificano. È evidente che non è accaduta nessuna svolta nelle loro vite, che come uomini sacri ritengono di essere garantiti, protetti, salvati. La violenza della situazione diventa non più controllabile, si scatena all’esterno e anche in parte all’interno. Sino a un finale di redenzione programmata ma – è facile intuire – impossibile.
Imporre la negazione del desiderio a chi non senta già dentro di sé la forza dell’ascesi è una delle numerose insensatezze della fede e delle chiese cristiane. Il risultato dell’andare contro natura non può che essere l’ipocrisia dell’anima e la perversione dei comportamenti. La scena iniziale, nella quale Padre Vidal allena un levriero da corsa facendolo girare in un cerchio di forza e di prigione, è introduzione e metafora del girare di questi uomini intorno all’impotenza delle proprie vite, nel chiaroscuro di tenebra dentro il quale l’oceano e i venti soffiano ma non possono pulire lo sporco che si è diventati. Come affermano più volte alcuni membri di questo club ecclesiastico, lungi dall’essere sacre queste esistenze sono soltanto «mierda».