di Gustave Flaubert
(Bouvard et Pécuchet, 1881)
Trad. di Camillo Sbarbaro
Con un saggio di Lionel Trilling
Einaudi, Torino 1982
Pagine XXXIII-243
I due protagonisti di questa parabola non possono esser dimenticati facilmente. Da un lato sono dei personaggi reali, con le loro inconfondibili fisionomie, con il perfetto delinearsi dei caratteri. Dall’altro costituiscono una sferzante allegoria. Pur se ingenui, precipitosi, superficiali, imprudenti, i due impiegati che, ricevuta una cospicua eredità, decidono di apprendere tutto ciò che possa essere appreso -scienze agrarie, pedagogia, letteratura, medicina, archeologia, chimica, ingegneria, astronomia…- rimangono i più autentici tra gli esseri che costellano il romanzo. Composto insieme al Dictionnaire des idées reçues, e a esso strettamente legato, questo singolare capolavoro rappresenta infatti un’antologia della stupidità universale.
Dalle sue pagine emerge con una chiarezza persino dolorosa ciò che nega un autentico sapere: i pregiudizi privati e collettivi, l’apologia della consuetudine, la consacrazione delle norme, il provincialismo, la grettezza dello spazio interiore, l’invidia verso chi nell’apprendere è felice, l’acritica chiusura della mente. Nei confronti di tutto questo, Bouvard e Pécuchet si comportano da inconsapevoli ma implacabili demistificatori. E anche quando sembrano cadere nel colmo del non pensiero, il bigottismo biblico, portano il loro atteggiamento al punto estremo in cui la scempiaggine di una fede che «ha per punto di partenza una mela» (p. 211) si illumina da sé del proprio grottesco splendore.
Ai loro occhi «il mondo si trasformava in simbolo» (98), «aristocrazia e popolo si equivalevano» (133), «i socialisti invocano sempre la tirannia» (140), «la metafisica non serve a niente» (176), «ammanendo con la massima serietà queste fandonie al pubblico, la stampa ne coltivava la credulità» (155). È il “progresso”, quindi, il nome che l’imbecillità assume nel XIX secolo, quel pregiudizio sul quale Céline scriverà: «L’ho pur visto arrivare il Progresso…ma sempre senza trovare un posto…Tornavo ogni volta a casa bischero come prima…» (Morte a credito, Corbaccio, 2000, p. 271).
Non geniali ma neppure idioti, fratelli di Emma Bovary, i due uomini comuni nei quali Flaubert ricapitola il suo disprezzo per l’inutile mondo di mediocri che popola la specie costituiscono la paradossale luce di un mondo spento. Essi «mettevano in dubbio la probità degli uomini, la castità delle donne, l’intelligenza dei governanti, il buonsenso del popolo: minavano, in una parola, le basi. […] Nei due amici maturò allora una disposizione d’animo destinata a renderli infelici: quella di vedere la stupidità umana e di non poter più tollerarla» (182).