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Islam

Differenze
Oltre il politicamente corretto
in Dialoghi Mediterranei
Numero 52, novembre-dicembre 2021
Pagine 373-384

Indice
-Premessa
-Le tesi di Ciccozzi
-Razzismi e altro
-La guerra giusta
-Il tramonto di Westfalia e l’emergere del terrore
-Potere, informazione, globalizzazione
Migranti. Un’analisi sociologica
-Identità e Differenza

Per 11 anni ho insegnato Sociologia della cultura nel Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict. Essendomi stato affidato un nuovo insegnamento nel corso magistrale di Scienze filosofiche, ho dovuto rinunciare a insegnare SdC nel corso triennale di Filosofia. Devo dire che mi dispiace perché ho trovato degli studenti sempre assai coinvolti nelle tematiche che ho loro proposto e perché insegnando sociologia ho imparato (a cercare di) osservare i fatti sociali con il maggior rigore possibile e con il necessario distacco scientifico.
Il testo uscito sul numero 52 di Dialoghi Mediterranei nasce dal confronto con un saggio di Antonello Ciccozzi dedicato al tema complesso e delicato del rapporto tra cultura e costumi europei e cultura e costumi islamici. Un saggio secondo me illuminante, a partire dal quale ho tentato di delineare altri aspetti del rapporto tra la civiltà europea e la civiltà musulmana, con riferimenti alle questioni razziali, alla geopolitica, al diritto pubblico europeo nato con le paci di Westfalia (1648). Credo infatti che solo alla luce della vicenda secolare del Mediterraneo si possano comprendere le potenzialità di arricchimento e gli insuperabili limiti del rapporto con le ondate migratorie provenienti dai Paesi islamici. Mi auguro insomma che questo testo, anche se breve, possa testimoniare la fecondità di una prospettiva sociologico-filosofica con la quale leggere i fenomeni più profondi della storia contemporanea.

I Quisling

La scelta del re
(Kongens Nei)
di Erik Poppe
Norvegia, Germania, Danimarca, Svezia, 2016
Con: Jesper Christensen (il re), Anders Baasmo Christiansen (il principe ereditario), Karl Markovics (l’ambasciatore tedesco)
Trailer del film

Nell’aprile del 1940 la Germania attacca la Norvegia, sino ad allora neutrale. Le forze tedesche sono chiaramente preponderanti ma il Paese scandinavo resiste. Il governo tuttavia si dimette. Il re Haakon VII -eletto dopo un referendum popolare nel 1905- respinge le dimissioni, così come rifiuta di avallare il colpo di stato del collaborazionista Vidkun Quisling (nella foto qui sopra con Hitler). L’ambasciatore tedesco Curt Bräuer, pur amico dei norvegesi, comunica al sovrano una proposta di accordo che avrebbe reso la Norvegia uno Stato vassallo della Germania, come era già diventata la Danimarca. Haakon rifiuta la proposta -il titolo originale significa infatti «Il no del re»- e comunica il suo rifiuto a governo e parlamento, i quali concordano con lui. Inizia la guerra, vinta facilmente dalla Germania, alla cui conclusione il re torna sul trono e Quisling viene giustiziato per alto tradimento.
Il film narra i giorni tragici e concitati dell’attacco tedesco e delle trattative. Si incentra soprattutto sulla psiche del sovrano e sulle vicende della famiglia reale. Il buio delle notti e il bianco della neve formano il reciproco controcanto della tenebra che porta a compimento il suicidio dell’Europa, iniziato nel 1914 a Sarajevo. Un re rappresentativo e folcloristico, come gli altri sovrani scandinavi, mostra di aver preso sul serio il fatto di essere stato eletto dal popolo norvegese sulla base di princìpi di partecipazione  e di libertà che soggetti come Quisling disprezzano e negano.
Storia? Certo, anche storia. Le cui strutture permangono nel tempo pur mutando referenti e posizioni. Gli Stati Uniti d’America e i loro più fidi alleati creano infatti di continuo dei governi collaborazionisti in ogni parte del mondo. Non solo nel Vicino Oriente (Amid Karzaj e altri in Afghanistan; Ahmed Chalabio in Irak, ad esempio) o in America Latina (un nome per tutti: Augusto Pinochet) ma anche in Europa e in Italia, con molti governi proni alle volontà del potente ‘alleato’, la cui presenza o ‘ispirazione’ è stata determinante nei momenti più tragici della storia repubblicana: dalla strage di Piazza Fontana all’omicidio di Aldo Moro, dal caso Mattei ai governi presieduti da soggetti mai eletti, come l’attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi. Questi Qusling vengono additati come esempi di virtù politica e persino morale, mentre le azioni e le idee di chi si oppone a tali governi fantoccio sono definiti con l’epiteto di terrorista, estremista, comunista, antipatriottico.
Tutto questo conferma come i concetti storici di collaborazionismo e resistenza non solo non rappresentino –come è ovvio- degli assoluti ma siano soggetti a mutare di referente in stretta relazione al punto di vista del vincitore. Ma dato che la storia di cui stiamo parlando è anche quella che stiamo vivendo, sarebbe bene che i collaborazionisti europei del governo statunitense recuperino «l’autonomia di giudizio e di azione alla quale i complessi di inferiorità conseguenti alla seconda guerra mondiale li hanno spinti a rinunciare, sciogliendosi da quell’abbraccio con un alleato di giorno in giorno sempre più simile ad un dispotico padrone che potrebbe di qui a qualche tempo rivelarsi, per loro, mortale» (Marco Tarchi, Diorama Letterario 260, luglio-agosto 2003, p. 5).
Un attempato re norvegese mostrò di possedere maggiore dignità e senso della democrazia rispetto a tanti politici contemporanei, anche italiani, finanziati da un governo straniero, al servizio dei suoi interessi e non di quelli dei popoli che dovrebbero rappresentare.

Metafisica dell’immanenza

In occasione del II Convegno della Società Italiana di Filosofia Teoretica, che si è svolto dal 14 al 16 ottobre 2021 a Napoli, i filosofi italiani hanno reso omaggio a Eugenio Mazzarella offrendogli un’opera in tre volumi dal titolo Metafisica dell’immanenza. Scritti per Eugenio Mazzarella, pubblicata dall’editore Mimesis.
Faccio parte del gruppo di allievi di Mazzarella -Pierandrea Amato, Vincenzo Bochicchio, Maria Teresa Catena, Felice Masi, Valeria Pinto, Nicola Russo, Simona Venezia– che ha curato quest’opera imponente alla quale hanno collaborato 115 autori. Allievi che hanno posizioni ed elaborano prospettive con molti elementi in comune ma anche assai diverse tra di loro, come diversi siamo tutti da Eugenio, segno certo -questo- del valore del suo magistero, se è vero che «si ripaga male un maestro, se si rimane sempre scolari» (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte prima, «Della virtù che dona», § 3; trad. di M. Montinari, Adelphi 1979, p. 92).

Pubblico qui gli indici di ciascuno dei tre tomi e l’Introduzione generale, nella quale abbiamo cercato di indicare e riassumere la «specifica maniera di abitare il mondo – problematica, critica, amichevole – da parte di Eugenio Mazzarella».
Questo il testo della quarta di copertina:
«In occasione del suo settantesimo compleanno, amici, colleghi e allievi esplorano – in tre volumi che restituiscono il panorama del dibattito filosofico contemporaneo non solo italiano – i molteplici sentieri che caratterizzano l’impegno teorico di Eugenio Mazzarella. L’opera è organizzata attorno a tre diadi: ontologia e storia, etica e politica, poesia e natura, ciascuna indagata nel suo sviluppo storiografico e nella sua articolazione concettuale. Occasione più di confronto che di celebrazione, Metafisica dell’immanenza ben rappresenta il magistero di Mazzarella, che dell’incontro tra prospettive, talora all’apparenza anche poco compatibili, ha fatto il centro del suo pensiero, della sua poesia e della sua prassi politica».

Vol. I, Ontologia e storia (Indice e Introduzione)

Vol. II, Etica e religione (Indice)

Vol. III, Poesia e natura (Indice)

Anarchici

Sacco e Vanzetti
di Giuliano Montaldo
Italia-Francia, 1971
Con: Gian Maria Volonté (Bartolomeo Vanzetti), Riccardo Cucciolla (Nicola Sacco), Cyril Cusack (Frederick Katzmann), Milo O’Shea (L’avvocato Moore), Geoffrey Keen (Il giudice Webster Thayer), Rosanna Fratello (Rosa Sacco)
Trailer del film

[Il 23 agosto del 1927 venivano trucidati sulla sedia elettrica negli Stati Uniti d’America gli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. A 94 anni da quell’evento ricordo il film di Montaldo a loro dedicato]

Anni Dieci e Venti del Novecento. La polizia al servizio della democrazia statunitense compie delle retate sistematiche nei quartieri operai, nei circoli politici anarchici e socialisti. Raccoglie uomini, donne, bambini e li deporta nei lager, dopo averli debitamente picchiati e torturati. Somiglia a quanto negli anni Trenta accadrà nella Germania nazionalsocialista, vero? Sì, è vero. E tuttavia dato che gli USA sono usciti vincitori dalla Seconda guerra mondiale e la Germania sconfitta, di quei fatti non si fa parola, si dissolve la memoria.
Ma il caso dei due immigrati italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, quello è ancora vivo nella coscienza storica del XXI secolo e nella memoria politica del movimento anarchico. Per loro infatti si mobilitarono i movimenti d’emancipazione di tutta Europa con l’obiettivo di evitare un crimine politico le cui vittime furono un calzolaio e un pescivendolo, che erano emigrati negli Stati Uniti illudendosi di migliorare la propria condizione economica. La stessa illusione che spinse uno dei miei nonni, Biagio Biuso, a emigrare in Argentina, da dove ritornò povero come era partito.
E però per Sacco e Vanzetti tutto fu vano. La macchina stritolatrice delle ‘libertà americane’ li condusse a finire i loro giorni sulla sedia elettrica. Le modalità dell’assassinio di due innocenti la cui colpa fu di intendere la libertà in un modo diverso rispetto a quello con cui la intendeva e tuttora la intende la Nazione Americana (con i suoi ‘diritti civili’ posti quale maschera deforme della giustizia sociale, con la sua ‘democrazia’ da esportazione che produce catastrofi come quella afghana), queste modalità sono ben descritte da Alessandro Manzoni:

Que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia
(Storia della colonna infame, in «Tutte le opere», G. Barbèra Editore 1923, p. 772).

Un importante e riuscito film italiano mette in scena esattamente queste parole di Manzoni: la ferocia razzista del procuratore Frederick Katzmann, la complicità del giudice Webster Thayer, il conformismo assoluto della giuria che pronunciò il verdetto giudicando Sacco e Vanzetti colpevoli di rapina a mano armata e omicidio, quando tutte -davvero tutte- le prove mostravano la loro innocenza. Il film è una ricostruzione storica accurata, documentata e sobria. Il cui momento chiave è la dichiarazione finale di Bartolomeo Vanzetti, interpretato dal magnifico Gian Maria Volonté:

Quando le sue ossa, signor Thayer, non saranno che polvere, e i vostri nomi, le vostre istituzioni non saranno che il ricordo di un passato maledetto, il suo nome, il nome di Nicola Sacco, sarà ancora vivo nel cuore della gente. Noi dobbiamo ringraziarli. Senza di loro noi saremmo morti come due poveri sfruttati. Un buon calzolaio, un bravo pescivendolo, e mai in tutta la nostra vita avremmo potuto sperare di fare tanto in favore della tolleranza, della giustizia, della comprensione fra gli uomini. Voi avete dato un senso alla vita di due poveri sfruttati.

L’anarchismo è anche e soprattutto questo: è il non diventare «così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni» (De André, Nella mia ora di libertà). Qualunque nome, partito, regime sia al potere. Compresi quelli dell’Italia e dell’Europa contemporanee. E degli Stati Uniti d’America, naturalmente.

Pentitevi!

Una delle più gravi espressioni e conseguenze del politicamente corretto è la cancel culture, la riscrittura moralistica di secoli di conoscenza, arte, filosofia e anche eventi storici. Che naturalmente non possono essere cancellati o alla lettera riscritti tramite un’epurazione degna dei grandi regimi totalitari ma possono essere riletti, interpretati e soprattutto condannati. L’obiettivo è fare «tabula rasa della storia e della cultura occidentale, tutta colonialismo, imperialismo, razzismo, e schiavismo, praticando un’iconoclastia sconsiderata che dovrebbe spianare la strada a un futuro di armonie, di uguaglianze, reciproco rispetto, totale autodeterminazione, simbiosi con la natura e con l’intera umanità. Questo irenismo e questa tendenza all’autoflagellazione rappresentano un rischio molto serio per la nostra società» (M. Barbi, Occidente, progetto da ricostruire, in «Le Sfide», n. 9, aprile 2021, p. 6).
Un rischio che ha avuto ovviamente origine negli Stati Uniti d’America e da lì va diffondendosi ovunque: «Les États-Unis sont en proie à une hystérie morale – notre sport national – sur les questions de race et de genre, qui rend impossible tout débat public rationnel» (‘Gli Stati Uniti sono in preda a una isteria morale  -il nostro sport nazionale- sulle questioni di razza e di genere, tale da rendere impossibile qualsiasi dibattito pubblico razionale’, M. Lilla, La gauche identitaire. L’Amerique en miettes, Stock, Paris 2018, pp. 7-8).
La cancel culture ritiene infatti che la schiavitù sia stata praticata soltanto dai bianchi, i quali l’hanno certamente messa in atto ma poi l’hanno abolita mentre essa prospera tuttora in varie zone dell’Africa e dell’Asia. La cancel culture ritiene che un bianco sia geneticamente razzista, anche quando afferma il contrario. La cancel culture guarda e giudica l’intera cultura europea con la categoria della razzializzazione dei rapporti sociali, che cancella ogni altra identità e differenza. La cancel culture cancella in questo modo anche la lotta di classe, sostituita dalla lotta tra coloro che ritengono di essere maschi e femmine e quanti invece sanno (furbi come sono…) che questa identità biologica è solo un pregiudizio educativo; lotta sostituita dal conflitto tra bianchi e neri, elevati a categorie assolute in un paradossale -ma non tanto- trionfo della prospettiva razzista.
Da questa riduzione di ogni conflitto a quello di genere e di razza il capitalismo ha tutto da guadagnare, ad esempio con le tante Carte etiche da parte delle aziende che pensano in questo modo di nascondere le loro pratiche di sfruttamento. Chiunque può constatare il proliferare di pubblicità politicamente correttissime: gli spot multirazziali si moltiplicano e si arriva alla decisione della L’Oréal di eliminare dai suoi prodotti e slogan qualunque allusione alla bianchezza e alla biondezza. Ma è solo un esempio. Un altro è l’ostracismo nei confronti delle favole, nelle quali -inevitabilmente- c’è qualcuno additato come cattivo: che sia il lupo, la regina, il cacciatore, il selvaggio, il nero. In alcune favole compaiono poi addirittura dei nani, o meglio dei ‘diversamente alti’. Tranne sostituire però i vecchi cattivoni con dei cattivi nuovi di zecca, che sono naturalmente coloro che vedono e dicono quanto di insensato e pericoloso ci sia nel proibire la lettura di Shakespeare o di Dante Alighieri (succede in varie università anglosassoni) in quanto antisemiti e antislamici, per non dire bianchi e inguaribili maschilisti. Ne ha fatto le spese anche la statua di David Hume a Edimburgo, uno dei pochi nomi dei quali la Scozia possa vantarsi, reo di non aver condannato abbastanza la tratta degli schiavi, stessa omissione della quale fu colpevole tra i numerosi altri Voltaire.
Si tratta chiaramente di barbarie, di una esiziale miscela di ultramoralismo, di ignoranza e superficialità; si tratta della immersione «nell’aggressività lacrimosa, nella concorrenza vittimistica e nell’emozionalismo sensazionalistico» (A. De Benoist, Diorama Letterario, n. 361, maggio-giugno 2021, p. 20). Si tratta del riaffiorare di antiche tendenze ascetiche e penitenziali, intrise di risentimento e di odio. Tutto questo condito con l’immancabile ingrediente di ogni ferocia: il sentimentalismo, il quale «si adopra a indagare le particolarità, passioni e debolezze degli altri uomini, le cosiddette pieghe del cuore umano» (Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Mondadori 2008, § 377, p. 371) e che mostra tutta la sua micidiale forza di incomprensione, equivoco e miseria nel discorso pubblico -i Social Network ad esempio– che fa costantemente appello alle esperienze di vita, ai casi concreti, al sapere che cosa si prova (ad esempio al ‘vieni in un ospedale se vuoi capire il covid’); uno psicologismo sentimentalistico che merita parole assai chiare come queste: «Quando un uomo, discutendo di una cosa, non si appella alla natura e al concetto della cosa, o almeno a ragioni, all’universalità dell’intelletto, ma al suo sentimento, non c’è altro da fare che lasciarlo stare; perché egli per tal modo si rifiuta di accettare la comunanza della ragione, e si richiude nella sua soggettività isolata, nella sua particolarità» (Ivi, § 447, p. 439).
Di fronte all’invito fondamentalista e irrazionale al Pentiti! -pèntiti di essere europeo, bianco, maschio, eterosessuale- di fronte al buio incipiente e sempre più diffuso che viene dagli Stati Uniti d’America, ribadisco con orgoglio che l’Europa è la mia casa, è mia madre, è Heimat, è ciò da cui sono sgorgato, è la mia radice, è la lingua che parlo, sono gli dèi, è la bellezza, è la filosofia.

Sullo stesso tema segnalo:
Linguaggio e oscurantismi (ottobre 2019)
Contro la betîse (dicembre 2019)
Oscurantismi, censure, ortodossie (settembre 2020)
Gender (dicembre 2021)
Astrattezza e Dissoluzione (aprile 2022)
Wokismo (giugno 2023)
Surrogati (giugno 2023)

 

Storia e materia

Epilogo? – Tamas Dezsö
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXVII – numero 76 – maggio 2021
pagine 20-29

Nella serie del fotografo Tamas Dezsö intitolata Notes for an Epilogue la materia è fatta di animali che si indossano, di animali con i quali si convive, di animali che si temono e che si amano, di greggi e di orsi, di stormi sempre in volo sopra le discariche. Ma soprattutto di animali che si è. La materia vegetale di boschi, di acque, di campi, di verdure, di prati resi bianchi dall’inverno o fulgenti di verde come fossero diamanti. Pur nella loro bruttura di rovine dei veleni, del veleno più letale che è la speranza tradita della storia, i resti della tracotanza umana quando vengono abbandonati tendono a somigliare sempre più all’armonia, ad avvicinarsi all’intatto silenzio dei laghi, delle chiese che dai laghi spuntano, delle conifere che attendono con la medesima pazienza il raggio della luce che le inonda, il gelo della neve che le ferma. Ciminiere, campanili, alberi, tendono sempre tutti verso il cielo, dal quale si aspetta una salvezza tanto più bramata quanto invece l’orizzonte della storia è stato feroce o indifferente. E in effetti è dall’alto che viene la salvezza, dalla materia cosmica che si condensa, diventa stelle, si raffredda in pianeti, si evolve esplodendo e lanciando la propria energia nello spaziotempo, ritornando così a essere polvere che si addensa a formare nuove stelle e le galassie che le raccolgono, si formano, si dissolvono e si riformano, per sempre. Una meraviglia, la cui unica nota stonata è la sofferenza che chiamiamo ζωή, vita, è la sofferenza che chiamiamo storia. Ma è talmente insignificante da non dovercene davvero preoccupare.

Sullo stesso numero della rivista sono usciti gli articoli di altri due studiosi di Unict. Uno di Enrico Moncado: Shooting in Sarajevo, l’altro di Enrico Palma: Suite N. 5.

Fame

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Furore
Dal romanzo di John Steinbeck
Ideazione e voce Massimo Popolizio
Adattamento Emanuele Trevi
Musiche eseguite dal vivo da Giovanni Lo Cascio
Produzione Compagnia Umberto Orsini / Teatro di Roma-Teatro Nazionale
Sino al 20 giugno 2021

The Grapes of Wrath, è il titolo del romanzo di John Steinbeck (1939). Un titolo biblico, naturalmente: «L’angelo gettò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e gettò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio» (Apocalisse, 14,20; traduzione CEI).
I grappoli dell’ira, dell’odio e del furore maturavano come frutto acre della polvere e della siccità, delle alluvioni e della catastrofe che colpirono negli anni Trenta del Novecento il cuore degli Stati Uniti d’America, spingendo masse di contadini rovinate e miserabili verso il sogno della California. Dove trovarono «prima compassione, poi disgusto, infine odio», trovarono altra miseria. L’ira, l’odio, il furore furono tuttavia il frutto amaro non della natura ma del capitalismo. Furono infatti le banche ad accaparrarsi le terre espellendo i contadini; furono i mercati a distruggere quantità enormi di frutta e ortaggi in California proprio mentre i contadini morivano di fame; furono i proprietari terrieri e immobiliari a diffondere volantini invitando i contadini ad andare in California, in modo da abbattere i salari e trasformare i vecchi e nuovi lavoratori in schiavi. Non la polvere e le bufere ma l’esercito industriale di riserva produsse la rovina, l’odio, il furore. Una lezione marxiana che i sedicenti ‘progressisti’ non imparano mai, auspicando oggi l’arrivo in Europa di lavoratori dall’Africa e dal Vicino Oriente, disposti a qualunque salario pur di giungere e rimanere, rovinando in questo modo i lavoratori europei e moltiplicando i profitti delle piccole e grandi aziende. Il capitalismo è borderless, è senza patria, è senza confini. Come senza limiti è la rovina prodotta dai buoni sentimenti che ignorano la complessità delle strutture antropologiche e politiche delle società umane.
Nel caso dei contadini americani, poi, si vide all’opera anche la potenza della Nέμεσις contro i contadini bianchi e protestanti che avevano sterminato i pellerossa distruggendo le loro vite, cancellando le loro culture, appropriandosi delle terre che poi le banche sottrassero loro.
Il frutto di tutto questo male -del genocidio, dell’avidità, del capitalismo- fu la fame, semplicemente e orrendamente la fame. Che la vocalità, le posture, gli sguardi, le pause, i toni di Massimo Popolizio e le percussioni di Giovanni Lo Cascio restituiscono nelle sue radici antiche, nella sua immediata potenza, nella sua estensione a ogni attimo della vita e del tempo. La fame che arriva con la polvere; che arriva con i trattori delle banche che spianano le terre e persino le case dei contadini; che arriva con i falò delle masserizie abbandonate; che arriva con le automobili incolonnate lungo la Route 66 (Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, Nuovo Messico, Arizona, California); che arriva con le stesse auto in panne, guaste, rabberciate, abbandonate; che arriva con i decreti (anche sanitari!) e i fucili delle autorità californiane; che arriva con la disperazione, come disperazione. La fame, la radice vera della storia umana come storia di mammiferi acculturati.
«How can you frighten a man whose hunger is not only in his own cramped stomach but in the wretched bellies of his children? You can’t scare him – he has known a fear beyond every other».
(The Grapes of Wrath, The Modern Library, New York 1939, cap. 19, p. 323)

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