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Sentimenti umani

La comune
(Kollektivet)
di Thomas Vinterberg
Danimarca, 2016
Con: Ulrich Thomsen (Erik), Trine Dyrholm (Anna), Lars Ranthe (Ole), Martha Sofie Wallstrøm Hansen (Freja), Helene Reingaard Neumann (Emma)
Trailer del film

Perché le tante Comuni sorte nella seconda metà del Novecento sono, dopo tempi più o meno rapidi, fallite?
Se ne sono occupati saggi sociologici, libri autobiografici, documentari storici. Una risposta narrativa la dà un film di Thomas Vintenberg ambientato a Copenaghen nel 1975.
Un architetto e una giornalista ereditano una grande e magnifica casa. Erik vorrebbe venderla, Anna invece vorrebbe chiamare amici e anche estranei e costruirvi una comune. Vince lei e l’esperienza comincia. Consuete relazioni, amicizie e conflitti sino a quando Erik si innamora di una sua studentessa, lo dice alla moglie e la ragazza viene accolta «in prova» nella comune. Anna, che pure aveva proposto questa soluzione, crolla sentendo e vedendo giorno e notte la presenza di Emma nella vita di Erik. E non poteva che essere così.
I sentimenti umani sono infatti e ovviamente più forti di qualunque idea politica, esigenza etica, afflato psicologico. I sentimenti umani si fondano su alcune strutture universali, pur se variamente declinate nel tempo e nello spazio, tra le quali il gaudio inquieto, il possesso, la prestazione, la ferocia, la colpa (me ne sono occupato in varie sedi, di recente in Animalia, pp. 108-113).
La struttura del possesso è centrale. Può e deve essere attutita, può essere mimetizzata, può declinarsi in forme simboliche e non soltanto tangibili ma rimane inemendabile. Le tante forme del possesso – amori, amicizie, gerarchie, luoghi, case, oggetti – sono gli autentici scopi delle azioni animali, anche le più generose.
In Animalia ho appunto scritto che «meriti, qualità, abilità e talenti, uniti al fondamentale ingrediente che è la forza di imporli, creano giorno dopo giorno le gerarchie professionali, sentimentali, politiche. In ciascuno di questi ambiti l’obiettivo è sempre il possesso. Gli amici si hanno poiché chiamiamo così chi è sùbito pronto a venire incontro a qualche nostra esigenza, fosse soltanto quella di non stare soli. La soddisfazione dello stare insieme, utilizzandosi a vicenda, raggiunge il suo culmine nell’amore. La complessità di questo sentimento non può nascondere la sua scaturigine fondamentale: detenere il monopolio nell’uso di un essere umano. È certo possibile, come fa Descartes, distinguere fra amore di benevolenza e amore di concupiscenza ma la loro fonte comune è il desiderio, senza il quale nessun affetto, nessuna passione può nascere. Tutte e quattro le forme di amore descritte da Stendhal – l’amore come fisicità, passione, capriccio, vanità – affondano nell’illusione che permette alla ‘cosa immaginata’ di diventare ‘la cosa esistente’ e ciò perché nei sentimenti umani esiste solo ciò che si teme o che si desidera. La natura solipsistica dell’amore è la più evidente conferma del suo essere puro possesso di sé tramite il fantasma dell’altro e possesso dell’altro attraverso i fantasmi dell’io» (p. 109).
Tutto questo emerge con chiarezza dalla coinvolgente narrazione che Vintenberg fa del volto di Anna, delle sue espressioni, dei capelli, dell’incedere che da sicuro si fa incerto, della presa d’atto che il mondo non funziona come lei immaginava funzionasse.
L’inganno antropologico e moralistico, che sta a fondamento di molte idee e pratiche non soltanto degli anni Settanta del Novecento ma anche degli anni Venti del XXI secolo, si sbriciola nei due ambienti in cui questo film accade: il primo sono le aule e lo studio universitario di Erik; il secondo è costituito dai continui pranzi, cene e riunioni della comune nella quale ha trasformato la sua bella dimora altoborghese.
Il risultato è una efficace metafora della superficialità con la quale idee egualitarie vengono incistate dentro la società liberale. L’effetto non può che essere la menzogna, il politicamente corretto.

Milano

Milano tra le due guerre
Alla scoperta della città dei Navigli attraverso le fotografie di Arnaldo Chierichetti

Palazzo Morando / Museo di Milano
Sino al 13 febbraio 2014


Chierichetti_Milano_tra_due_guerre
Non come Venezia ma simile alla città pervasa dalle acque. Così Milano è stata ed è apparsa per secoli, sino a quando una delle tante stolte decisioni d’epoca fascista interrò la cerchia dei Navigli. Poi arrivarono anche i bombardamenti anglo-americani a radere al suolo palazzi e quartieri. Ma durante questi attacchi alla città sembra che i milanesi dicessero: «Cossa gh’é de piang? Se ved propi che si mai staa a Pompei». Un’ironia che ha permesso ancora una volta a Milano di rinascere e a molti di ripetere le parole dedicatele da Stendhal: «Questa città divenne per me il più bel luogo della terra». Non pochi milanesi fanno fatica a capire come si possa amare così la loro città. Una risposta l’ha data Vittorio Sereni. Forse bisogna infatti venire dalla provincia lombarda -come questo poeta- o essere nati in un paesino, magari del Sud, per invitare a meditare su «cosa può essere –voi che fate / lamenti dal cuore delle città / sulle città senza cuore- / cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai» (Gli strumenti umani, Einaudi 1980, p. 67). La città aiuta a redimersi da questo diventare nulla; lo fa anche attraversando «i corsi l’uno dopo l’altro desti / di Milano dentro tutto quel vento» (Ivi, p. 21).
Bellissima immagine che si fa figura nelle fotografie che Arnaldo Chierichetti dedicò alla città. Le acque di Milano, i suoi spazi, il vento, la luce riflessa dagli edifici e le nebbie attraversate dagli ultimi brumisti diventano vedute, tagli, documento. Diventano, quando l’oggetto delle fotografie sono i Navigli, «la quintessenza stessa del rimpianto».
Ma la potenza della struttura urbana inventata dagli umani circa dieci millenni fa -luogo finalmente di una conquistata identità rispetto alle instancabili differenze del nomadismo- permette anche a Milano, come alle altre città del mondo, di mutare incessantemente e tuttavia rimanere sempre quello spazio intimo e aperto, riservato e rutilante, grigio e fastoso, che anche queste immagini testimoniano.

 

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