Dal 3 al 6 febbraio scorsi Catania ha vissuto ancora una volta la sua Grande Festa. A essere celebrata, portata tra le strade, arricchita di offerte, ricolma di desiderio, amata come figlia madre sorella, è stata Agata, il cui nome greco indica valore e nobiltà. Ἀγάθη è infatti anche una manifestazione di Artemide, vergine intransigente come lei.
Hanno quindi ragione coloro che accusano questa festa di essere pagana. Il cristianesimo, in effetti, ha poco da spartire con il culto totale riservato al busto argenteo di Agata, a questo idolo che si muove per giorni e notti tra i suoi fedeli, dando loro passione, lacrime e gioia. Come accadeva per le antiche statue degli dèi, il busto di Agata non rappresenta la santa ma è la santa. La dimensione pagana di queste feste dimostra la tenacia degli antichi culti in Europa e mostra soprattutto la naturalità del paganesimo, che è fatto di materia, di corpi, di fisicità, come appare chiaro a chiunque assista alla festa agatina.
A chi, poi, deplora le inflitrazioni criminali in questa celebrazione, si risponde che hanno certo ragione, che la festa è in gran parte controllata dalla malavita, ma che è la città a essere banditesca e quindi lo è anche la sua festa più importante. Pretendere che le celebrazioni popolari siano pure e linde quando la borghesia e i ceti dirigenti di Catania sono in gran parte corrotti significa essere o in mala fede o ingenui. Significa in ogni caso non comprendere le strutture della vita collettiva. È Catania a essere mafiosa non sant’Agata.
Per un pagano disincantato è un piacere vedere la fede nell’idolo, sentire le voci gridare «Saccu o senza saccu semu tutti devoti tutti!», sapere che al rientro definitivo della statua -il 6 mattina- gli innamorati di Agata piangono, la trattengono, le chiedono di rimanere ancora un poco con loro. Gli enormi ceri portati a spalla e bruciati dappertutto rappresentano ancora una scintilla -sporca, certo, decaduta e miserabile ma sempre viva- della grande Luce ellenica e mediterranea.
Segnalo il progetto -e il video, bello e interessante- di Durga, un film francese dedicato a Catania e ai suoi miti, nel quale trova spazio e senso anche la dea Agata.
Heidegger, i Greci, gli dèi
«Gli dèi dei Greci non hanno nulla a che vedere con la religione. I Greci non hanno creduto nei loro dèi. Una fede degli Elleni -per rammentare Wilamowitz- non esiste». Così Heidegger durante un seminario che tenne a Friburgo insieme con Eugen Fink (Eraclito. Seminario del semestre invernale 1966/1967, a cura di A. Ardovino, Laterza, 2010, p.16). È vero, i Greci non hanno una fede religiosa ma sono immersi nel divino come la Terra è immersa nella luce ed è circondata da tenebre sconfinate. L’immenso buio del dolore, dell’assurdo e della fine viene illuminato da quei frammenti di oggettività che sono le statue degli dèi, le loro epifanie, il loro materico apparire ed ergersi sullo sfondo dell’armonia dei templi e della potenza naturale. Questa è la “fede” dei Greci, in realtà un vedere e non un credere.