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Qohélet, la Sicilia

Iddu
di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
Italia, 2024
Con: Elio Germano (Matteo), Toni Servillo (Catello Palumbo), Daniela Marra (Rita Mancuso), Fausto Russo Alesi (Emilio Schiavon), Barbara Bobulova (Lucia Russo), Antonia Truppo (Stefania), Betti Pedrazzi (Elvira)
Trailer del film

«Mio padre è morto tra le pecore e io vivo come un topo». Questo pensa e dice con amarezza Matteo, capomafia di una imprecisata zona della Sicilia. Devotissimo al padre Gaetano, ne assume alla morte eredità e ruolo, vivendo per decenni come latitante in una abitazione del suo stesso paese e da lì continuando a dare ordini di violenza e di morte, pur vivendo appunto come «u suggi». Tra le lettere e comunicazioni, assume un ruolo centrale il rapporto con Catello Palumbo, suo padrino di cresima ed ex sindaco del paese. Tornato da sei anni di detenzione, Palumbo viene costretto dai servizi segreti a partecipare a un’operazione il cui scopo sembra l’arresto di Matteo.
Sembra. Tutto è cangiante e simbolico nel cinema di Piazza e Grassadonia. Un cinema intessuto della deformazione dello spazio, del tempo, della memoria, delle vicende. I silenzi e la desolazione di Salvo (2012); la tenerezza e la crudeltà di Sicilian Ghost Story (2017) si trasformano nel grottesco di Iddu, un’opera che scende scende negli abissi insensati dell’esistenza siciliana, tra finti vivi, vivi a metà, morituri i quali «vivono giorni contati di vita inutile», come ancora una volta Matteo afferma. Questo criminale è un lettore attento della Bibbia e in particolare del Qohélet o l’Ecclesiaste che legge nella edizione Einaudi tradotta da Guido Ceronetti. 

E tutto il film è pervaso della dimensione biblica, di citazioni dall’antico testamento, di quello Havèl havalím, vanità delle vanità o – come Ceronetti traduce- «fumo di fumi / Polvere di polveri / tutto fumo / polvere» (Qohélet o l’Ecclesiaste, Einaudi 1988, 1,2). Davvero la vita dei mafiosi che sparano e di quelli che decidono a chi e perché sparare è «orrore / Perché per me è tutto male / Qualsiasi cosa si faccia sotto il sole (2.17).
In questo film, come nel Qohélet, la donna è «amara più che la morte» (7.26) e il mangiare-bere-godere è l’«unico bene dell’uomo» (2.24). Se qualcosa si vuol pur capire, è meglio non attribuire colpa al mondo o al dio e comprendere, invece, che «dal cuore dei figli d’uomo / Trabocca il male» (9.3), che se una sapienza è possibile essa sta nel comprendere l’insignificanza degli umani e il loro limite in un universo perfetto nella sua indifferenza. Certo, forse al crescere della conoscenza «più grave si fa il tormento» (1.18) e tuttavia soltanto uno sforzo di sapienza può diradare un poco le tenebre del mondo. Quella sapienza che è più forte delle armi e di ogni semplice violenza, sapienza che è anch’essa un’ombra ma che «illumina il viso» (8.1) ed è «la vita di chi vive per lei» (7.12).
Nella sua ignoranza e rozzezza Matteo percepisce e sente la verità di ciò che legge nel Qohélet, soprattutto percepisce e sente che «felice» è chi «ancora non è stato», ancora non è nato e meglio sarebbe che non nascesse (4.3).

Il finale della storia conferma che latitanze di decenni dei mafiosi sono possibili soltanto perché le istituzioni della Repubblica non costituiscono l’altro di Cosa Nostra ma sono una loro espressione. Per chi conosca anche solo da lontano e per fugaci occasioni qualche mafioso, appare del tutto evidente che si tratta di persone inconsistenti, rozze, quasi analfabete, di pecorai arricchiti, di individui senza strumenti che non siano un’arma in mano. Persone che la forza militare e giuridica di uno Stato contemporaneo non avrebbe nessuna difficoltà a spazzare via. Se invece costoro controllano ancora territori ed economie è perché godono della protezione di imprenditori, forze dell’ordine, magistrati, presidenti di amministrazioni, presidenti del consiglio, presidenti della repubblica. Soggetti, questi ultimi, che non sono l’altro della mafia ma sono la mafia, come la vicenda della cosiddetta «trattativa» ha confermato.
Disperante da pensare e da dire? Forse. Ma non per un siciliano, che tutto questo lo vede – se lo vuole vedere – da quando è nato. E io lo vedo. Meravigliosa l’interpretazione di Elio Germano come Matteo ed è sempre una gioia vedere recitare Toni Servillo, qui nei panni del sindaco complice e traditore del capomafia.
A Matteo il padre aveva affidato un «pupo», un antico bronzo greco, raccomandandogli di non venderlo mai, di tenerlo sempre con sé. Simbolo, forse, di ciò che l’Isola è stata nei millenni che hanno eretto i templi agrigentini, Segesta, Selinunte, luoghi dove la mafia di Sicilia è oggi ancora padrona. Emblema di una Sicilia libera certo non dal male (questo da nessuna parte è possibile) ma da un male così rozzo, così inutilmente feroce, così insipiente, come quello di Cosa Nostra.

Beni comuni

I beni comuni oltre lo stato e il mercato
Aldous
, 25 settembre 2024
Pagine 1-2

In questo articolo ho cercato di mostrare come il concetto di proprietà dominante nella società e nell’economia occidentale contemporanea non sia affatto naturale ma sia ovviamente storico. In quanto tale ha delle alternative, delle quali anche la storia di molti popoli e civiltà conferma la plausibilità. I beni comuni sono infatti una delle alternative ben presenti nella storia economica. Essi hanno costituito per millenni la forma più diffusa di proprietà. Nella Roma repubblicana, ad esempio, e persino in quella imperiale, neppure il capo politico più autocratico poteva rendere la res communis una proprietà privata. E non poteva neppure vendere o acquistare le terre e i beni sacri, che erano moltissimi e appartenevano agli dèi.
Tra la cosa pubblica e la cosa privata si dà quindi la cosa comunitaria, i beni essenziali a una comunità strutturata, che nessuno può fare propri a esclusione degli altri ma che non possono neppure essere aperti a chiunque non appartenga a quella determinata comunità. Possono infatti esistere dei beni comuni soltanto là dove esistono delle comunità che si riconoscono come tali, in un perimetro fisico e concettuale ben preciso ma che può naturalmente restringersi o ampliarsi nei diversi contesti, anche nei più complessi come quelli che caratterizzano le società contemporanee. Ho poi collegato i beni comuni alla critica delle pratiche schiavistiche ben presenti nel nostro tempo e nel nostro mondo.

Romolo il Grande

Friedrich Dürrenmatt
Romolo il Grande
(Romulus der Große, 1949, prima rappresentazione a Basilea 23.4.1949)
In «Teatro», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Aloiso Rendi
Einaudi-Gallimard, Torino 2002
Pagine 181-256

Romolo detto Augustolo divenne imperatore di Roma all’età di sedici anni nel 475. Dopo un anno di governo abdicò ritirandosi nella villa di Lucullo in Campania. Con lui finì l’Impero poiché Odoacre, capo dei Germani, non si proclamò imperatore a sua volta ma Re d’Italia. In questa sua commedia, Dürrenmatt dilata il regno di Romolo di vent’anni, ne fa quindi un adulto e soprattutto ne costruisce il personaggio su una ambiguità che emerge soltanto con lo svolgersi degli eventi.
Romolo appare infatti all’inizio come una sorta di cinico un po’ superficiale e un poco clownesco, interamente dedito alle sue galline, alle quali ha attribuito nomi di re e imperatori e che segue nella quotidiana emissione o meno dell’uovo. La moglie Giulia, la figlia Rea e alcuni ministri sono inorriditi da un simile atteggiamento. Il Prefetto della Cavalleria Spurio Tito Manna cerca di parlare con lui dopo aver cavalcato per giorni e notti allo scopo di recargli la notizia dell’arrivo dei Germani ma Romolo non lo ascolta neppure. Al che il Prefetto urla che «Roma ha un imperatore infame!» (p. 207). Anche il fidanzato della figlia, Emiliano, fuggito dalla prigionia e dalle torture dei Germani, si convince che non ci sarà futuro per Roma senza la morte dell’uomo che la sta tradendo. E in effetti l’imperatore è convinto, e lo dice, che «Roma è già morta da un pezzo» (ibidem), tanto che il suo obiettivo consiste nell’affrettare tale morte causando il minor sangue e dolore possibili. A questo scopo Romolo non fa nulla, semplicemente, «lasciando cadere ciò che è destinato ad andare a pezzi e calpestando ciò che merita la morte» (223).
Emerge in questo modo la natura politica del comportamento apparentemente bizzarro e irresponsabile di Romolo, fondato invece sull’«arte di guardare le cose senza paura» e su «quella di compiere senza paura ciò che è giusto» (232). E compierlo a qualunque costo. Per questo, anche per questo, in realtà si tratta di un personaggio, come commenta il suo creatore, «che agisce con estrema durezza e spietatezza […], un tipo pericoloso che ha puntato sulla propria morte» (1204) provocando, se risulta inevitabile, quella di altri.
L’azione giunge al culmine, e svela in che cosa consista la grandezza di Romolo, nella parte finale, nel confronto tra Romolo che vorrebbe essere ucciso da Odoacre e Odoacre che vorrebbe sottomettersi a lui. Il dialogo tra questi due politici delinea una vera e propria filosofia della storia, intrisa di disincanto e di disprezzo verso il potere. Alla fine, infatti, Odoacre accetta di essere nominato Re d’Italia come ultima decisione dell’imperatore e Romolo accetta di non essere ucciso e andare in pensione. I due concordano sul recitare la commedia del potere: «Facciamo finta che, a questo mondo, i conti tornino e che nell’uomo lo spirito possa vincere sulla materia» (254). Un’osservazione, quest’ultima, di natura antropologica e ontologica che conferma la trama interamente filosofica della narrativa e della drammaturgia di Dürrenmatt.
Di fronte ai capi germanici, convocati da Odoacre per rendere omaggio all’imperatore, Romolo dichiara che:

l’imperatore scioglie il suo Impero. Guardatela per l’ultima volta questa sfera multicolore, questo segno di un grande impero, sospesa nello spazio, sospinta dal lieve alito delle mie labbra; guardate le terre che si estendono intorno al mare azzurro in cui danzano i delfini, guardate le ricche provincie biondeggianti di messi, le città affollate traboccanti di vita: era un sole che riscaldava gli uomini, e che giunto al suo culmine, bruciò tutto il mondo, per poi divenire adesso, nelle mani dell’imperatore, un globo leggero, che si dissolve nel nulla (255).

Dürrenmatt riafferma così il suo anarchismo, seppure moderato, dichiarandosi non contro lo Stato in quanto tale ma contro lo Stato che commette crimini e soprattutto lo Stato di grandi dimensioni. In ogni caso, «nei confronti dello Stato bisogna essere astuti come serpenti ma mai, per carità, miti come colombe» (1205). Un consiglio di grande fecondità anche per il presente, come sempre.

Nella malvagità

4X4
di Mariano Cohn
Argentina-Spagna, 2019
Con: Peter Lanzani (Ciro), Dady Brieva (Enrique Ferrari)
Trailer del film

Claustrofobico come Cosmopolis, vendicativo come Tarde para la ira, surreale e insieme empirico come numerosi film argentini, 4X4 racconta di un ladro che pensa di commettere facilmente l’ennesimo furto: appropriarsi del sistema monitor di un SUV.
È talmente sicuro di sé che dopo aver messo nello zaino il dispositivo urina, per semplice sfregio, sui sedili posteriori dell’automobile. Va per uscire dall’abitacolo ma trova tutte le portiere, anche quella posteriore, sigillate. Tenta in ogni modo ma non riesce proprio a uscire. Preso dal panico e dalla rabbia, spara contro il parabrezza ma il proiettile gli torna indietro e lo ferisce alla gamba. Cerca allora dentro l’auto ogni arnese di metallo che possa aiutarlo a scardinare le portiere ma vanamente. Implora aiuto dai passanti ma i finestrini sono tutti oscurati. Comincia a capire che è in trappola.
La conferma arriva dalla telefonata che il proprietario del SUV effettua tramite il sistema di bordo: è stato lui, un medico ostetrico, a chiudere le portiere a distanza appena il sistema antifurto lo ha avvisato del tentativo di danneggiamento. Enrique, questo il suo nome, comincia a raccontare a uno sbalordito e terrorizzato Ciro di aver subito 28 furti con oggetto un’automobile o suoi pezzi. E aggiunge gli ulteriori atti di criminalità che lui e la sua famiglia hanno dovuto sopportare. In cambio delle informazioni sull’identità del ladro, Enrique gli dice dove può trovare dentro l’abitacolo qualcosa da bere e da mangiare.
Passano i giorni sino a che il medico gli compare davanti, apre la portiera e da lì comincia un teso finale western, perché Ciro non è un ladruncolo ma un vero assassino.
4X4 intesse sociologia (sono numerosi i riferimenti alla situazione economico-sociale dell’Argentina); antropologia; il bellum omnium contra omnes; il grottesco di varie situazioni. Emerge con chiarezza un elemento della filosofia politica spesso trascurato o addirittura nascosto per mezzo dell’idolatria dello Stato o la sua giustificazione etica. In realtà, gli stati e lo stato sono delle organizzazioni criminali alle quali i cittadini pagano della tangenti – definite: tasse, imposte, fisco – anche allo scopo di essere protetti da altre organizzazioni criminali. Se lo stato non è capace di svolgere tale funzione di protezione dei cittadini, il suo diritto all’obbedienza viene meno. Questo film lo mostra in modo assai plastico.
Il ‘monopolio nell’uso legittimo della forza’ del quale parla Max Weber priva l’organizzazione statale di ogni sacralità, laica o religiosa, e di ogni moralità, per ricondurlo alla sua natura reale, di equilibrio tra forze. Si tratta di un necessario disincanto sulla natura umana. Neppure l’essere umano infatti «può considerarsi l’animale più potente in senso assoluto, perché ad esempio passa tutto il tempo, o per lo meno gran parte del suo tempo, nella malvagità (διά κακίας)» (Cleante di Asso, frammento [CA]529, Stoicorum Veterum Fragmenta di Hans von Arnim, trad. di Roberto Radice, Bompiani 2018, p. 235).
Sì, nella malvagità spesso gratuita, in una idiozia spesso irredimibile. Homo insipiens.

Vita e morte di Silvio Berlusconi

Silvio Berlusconi ha dato un contributo fondamentale alla trasformazione definitiva della politica in spettacolo. E non soltanto in Italia.
È dunque stato del tutto coerente e conseguente che la politica diventata spettacolo ne abbia glorificato il cadavere e la memoria in ogni forma, sino a proclamare tre giorni di lutto nazionale e a ordinare i solenni funerali di stato, celebrati nel Duomo di Milano il 14 giugno 2023.
Della politica-spettacolo anche la cosiddetta ‘sinistra’ è componente e parte attiva. E questo perché Berlusconi in trent’anni ha plasmato l’immaginario, il linguaggio, i riferimenti sia polemici sia convergenti di questa ‘sinistra’, ponendosi in tal modo al di là delle dicotomie politiche, nonostante le sue continue dichiarazioni a favore di qualcosa che chiamava ‘centro-destra’.
L’essenza della socialità berlusconiana va infatti al di là delle divisioni politiche e partitiche novecentesche e consiste nella ipnotica manipolazione delle folle; nell’utilizzo spregiudicato, autoritario e totale dei media e delle loro tecnologie; nel successo finanziario come obiettivo di ogni azione, di ogni comportamento, di ogni pensiero; nella diffusione di un narcisismo di massa tanto infantile quanto divisivo delle realtà collettive; nella completa integrazione di vita politica e strutture criminali, in particolare quelle mafiose e quelle massoniche.
Della Loggia segreta Propaganda due (P2) – definita da una Commissione parlamentare di inchiesta «organizzazione criminale ed eversiva» – Berlusconi ha chiesto e ottenuto la tessera n. 1816, codice E.19.78, gruppo 17, fascicolo 0625, data di affiliazione 26 gennaio 1978.
Che le enormi somme di danaro necessarie all’inizio della carriera di palazzinaro e di  imprenditore dei media siano arrivati da Marcello Dell’Utri e dunque dalla mafia siciliana [contro ogni (auto)propaganda del sedicente self-made man] è un dato di fatto che il legato testamentario di 30 milioni di € per il faccendiere ed ex-senatore palermitano non fa che confermare.
E soprattutto Berlusconi ha operato una vera e propria trasformazione antropologica degli italiani in videosudditi, pronti a qualunque obbedienza comportamentale, psicologica, politica, sanitaria, mediatica, se enunciata, ripetuta e imposta dalle televisioni sue e di stato. Videosudditi che in questi decenni colonizzati dalle televisioni commerciali, massima espressione dell’americanismo, vanno sempre più mostrando una pervasiva e distruttiva stupidità,  il dominio della bêtise.
L’essenza del berlusconismo intride tutte le forze politiche presenti nell’attuale parlamento italiano, nelle amministrazioni pubbliche, nelle strutture dell’informazione, tutte ormai esemplate sul «Piano di rinascita democratica» di Licio Gelli.
È stato dunque consequenziale che le istituzioni dello stato italiano abbiano reso gli omaggi più imponenti e sfarzosi a questo loro eccellente rappresentante in occasione della sua «purtroppo tardiva dipartita», per usare l’espressione con la quale sul numero dell’ottobre 1976 di A Rivista anarchica (p. 3) Luciano Lanza si riferì alla morte di Mao Zedong, al quale con il passare degli anni e dopo innumerevoli ritocchi il volto di Silvio Berlusconi somigliava sempre più.

Per le differenze

Alain de Benoist
L’impero interiore
Mito, autorità, potere nell’Europa moderna e contemporanea
(L’empire intérieur, 1995)
Trad. di Debora Spini e Marco Tarchi
Ponte alla Grazie, 1995
Pagine 188

Complessi, ritornanti, rizomatici sono i percorsi della storia umana, delle comunità che la vivono, delle idee che la plasmano. Dissolti in Europa gli imperi dopo la Prima guerra mondiale, in particolare con i trattati di Sèvres e di Versailles, l’idea di nazione sembrò vincere e trionfare. In effetti essa ha guidato e costituito la storia contemporanea. Ma se nel XIX la nazione avanzò sullo slancio giacobino e napoleonico – eredi del centralismo delle monarchie assolute, in particolare di quella di Luigi XIV -, nel Ventesimo e Ventunesimo secolo essa sta mostrando sempre più la propria natura oppressiva e reazionaria, non solo nei regimi totalitari dell’Italia fascista e della Germania nazionalsocialista ma anche nell’imperialismo degli Stati Uniti e delle burocrazie europeiste, le quali non condividono nulla dell’idea imperiale, rimanendo invece «nazioni che cercano solamente di dilatarsi attraverso la conquista militare, politica, economica o di altro genere, sino a giungere a dimensioni che eccedono quelle delle loro frontiere del momento» (p. 165). Esempio massimo sono gli USA, che operano indefessamente al fine di «convertire l’intero mondo in un sistema omogeneo di consumo materiale e pratiche tecno-economiche» (166).
L’imperialismo contemporaneo è da ogni punto di vista l’opposto del principio e della struttura imperiali come emergono, ad esempio, nell’Impero romano fondato su un riconoscimento e un rispetto pervasivi delle autonomie locali e delle differenze ideali: di costume, di lingua, di religione. Quest’ultimo elemento costituisce un fattore di civiltà che i monoteismi hanno combattuto, calunniato, dissolto: «L’Impero romano non si richiama a divinità gelose. Ammette quindi gli altri dei, famosi o sconosciuti, venerati dai popoli che riunisce. La tolleranza religiosa è la norma, come del resto in tutto il mondo antico» (145).

Il mito dell’impero si fonda per de Benoist nell’impero del mito. A quest’ultimo è dedicata la prima e densa parte del volume. Attraverso un’ampia disamina filosofica e storica, si argomenta la tesi per la quale «Mythos e Logos sono termini assolutamente interscambiabili» (11), tanto che molte ricerche contemporanee in settori disparati – antropologia, letteratura, filosofia, religioni, logica – mostrano la razionalità del mito. Tra gli studiosi più noti, Kurt Hübner e James Hillman. Il primo sostiene che «il mito, lungi dall’essere ‘irrazionale’ possiede al contrario la sua propria razionalità. […] L’uomo non sperimenta mai il mondo direttamente: ogni sua esperienza, compresa quella scientifica, è necessariamente mediata da un universo mentale significante. Il mito quindi forma la struttura di questo universo e niente può dimostrare che questa struttura sia meno legittima di quella proposta dalla scienza» (62-63); da parte sua, Hillman vede nella «ragione solo un’espressione particolare del mito» (63).
Il mito va molto al di là del religioso e dell’etico. Il dominio sempre più pervasivo e soffocante della morale nel nostro tempo rappresenta un sostituto assai povero di comportamenti che sono di per sé misurati poiché regolati su una misura non soggettivistica, non psicologica, non normativa. Questa misura scaturisce non dal religioso o dall’etico ma dal sacro, che è un legame profondo e immediato con la materia come κόσμος, come totalità e dunque come continuità misurata dell’umano rispetto all’intero del quale è parte. Si tratta del contrario della ὕβρις, della dismisura escludente e individualistica diffusa nel mondo mediterraneo dai monoteismi, in particolare da quello cristiano: «Il mondo a questo punto non può più essere intrinsecamente il luogo del sacro. La relazione immediata non è più quella fra l’uomo e la totalità del reale, ma una semplice relazione con qualcun altro, che associa dei soggetti ormai separati» (36).
Monoteismi che a loro volta costituiscono il frutto e insieme il rafforzamento di alcuni elementi del tutto desacralizzanti: «l’individualismo (anima individuale, salvezza individuale), la dissociazione inaugurale nel dualismo dell’essere creato e dell’essere increato, il rifiuto del tempo circolare o ciclico e l’adesione ad una concezione della storia unilineare e vettoriale» (35).
La dimensione sacrale e mitica, invece, è intessuta di una ripetizione che implica sempre la differenza. E «in questo sta il senso di ogni metafora cosmica, fondata sul regolare alternarsi di opere e giorni, delle età e delle stagioni. Il ritorno periodico della primavera è il ritorno di una forma, ma non di un contenuto: è sempre la stessa stagione, ma è sempre un’altra primavera. L’immagine chiave, in questo caso, non è tanto il cerchio quanto la spirale o la sfera, poiché la possibilità di superare nasce dalla stessa ripetizione; e la rigenerazione del tempo nasce dal ricorso a ciò che è al di là del tempo» (25).
Il principio imperiale ha soprattutto questo in comune con l’ontologia mitica: un gioco senza fine di Identità e Differenza, per il quale che si tratti di dèi o di umani «l’identità degli altri, lungi dall’essere una minaccia per la nostra identità, fa parte di ciò che permette a tutti noi di difendere le nostre rispettive identità contro il sistema globale che cerca di ucciderle» (175).

L’Europa, luogo e spazio di origine di queste dinamiche, potrà sopravvivere alla sua sempre più evidente insignificanza politica e geostrategica soltanto se rispetterà le differenze tra i popoli e le comunità che la compongono e l’identità della loro storia mediterranea, se saprà dunque «tornare nella luce del mito» (74), nel chiarore della filosofia greca.

Le libertà

È il senso dei giorni, è la condizione delle scienze, è l’eredità degli eventi e delle idee che hanno reso luminosa l’Europa, è il desiderio, l’impegno, la lotta per le libertà del corpo sociale e di conseguenza degli individui che ne fanno parte. A questo patrimonio stiamo rinunciando con miopia, incoscienza, stanchezza, rassegnazione, irresponsabilità.
Anche per questo il numero 27 (settembre 2022) di Vita pensata dedica alle libertà una riflessione molteplice e unitaria, che ruota intorno ad alcuni grandi pensieri della filosofia europea: Kant, Foucault, Fichte, Nietzsche, Rousseau, Proust; che difende la scuola e l’università in quanto luoghi nei quali può e deve svilupparsi un atteggiamento critico verso l’informazione e il potere. Se non lo fanno scuola e università, chi potrà mai garantire la libertà dai dogmi dell’autorità politica, religiosa, mediatica, finanziaria?
Al dominio e alle sue tentazioni di morte opponiamo il nostro essere pervasi di un amore spericolato e insieme lucido verso il vivere liberi. Un amore che ci fa vedere quanto e come le tendenze dispotiche che attraversano il corpo politico collettivo sono in questi anni talmente vaste e profonde da far sì che la libertà che riusciremo a conquistarci non sarà mai troppa.

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