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Mente & cervello 84 – Dicembre 2011

Nel recensire questa Rivista dedico ogni volta uno spazio consistente a malattie, sindromi, sciagure di vario genere. È forse triste ma anche inevitabile, visto che il corpomente è “na scarfoglia i cipulla”, vale a dire (la definizione è della mia nonna paterna -Giuseppa-, donna davvero straordinaria) una foglia di cipolla, fragile e sottile, pronta dunque a sbriciolarsi. Mi sono ricordato di quella definizione leggendo la risposta che Leonardo Tondo dà a un lettore che delinea un vero e proprio «ritratto di una depressione»; lo psichiatra scrive infatti che «la depressione si infila spesso nei gangli vitali di una persona, e talvolta è difficile mandarla via perché sembra più congeniale alle nostre emozioni della felicità» (p. 7). Ciò vuol dire che c’è qualcosa che ci attira verso il baratro dello star male, che la prospettiva di esser felici ci spaventa a volte più di una condizione di profonda tristezza. Perché? Rispondere a tale domanda significherebbe comprendere una parte consistente dell’enigma umano. E sospetto che la risposta coinvolga anche quel particolare -e distruttivo- sentimento che è il senso di colpa, il quale secondo molti psicologi ha degli effetti positivi o addirittura necessari per evitare atti di ferocia e di crudeltà. E tuttavia penso che il senso di colpa debba rimanere sempre a livelli bassissimi poiché alla lunga distrugge le relazioni umane, la serenità, le vite. Una ragione di questa sua pericolosa caratteristica sta nel fatto che la colpa è -in modo solo apparentemente paradossale- «un’emozione narcisistica» in quanto «chi si sente in colpa tende a mettere le proprie azioni al centro del mondo» (P.E. Cicerone, 76), attribuendo sempre a se stesso la responsabilità di ogni male, credendosi insomma onnipotente. Ma non basta: provare sensi di colpa verso qualcuno ci autorizza a detestarlo con il conforto di una buona coscienza. In definitiva nutrire eccessivi sensi di colpa vuol dire essere essenzialmente egoisti. Ecco perché chi -come ad esempio Nietzsche- invita a sbarazzarsi di questa orrida zavorra lo fa anche come atto d’amore verso se stessi e verso gli altri. Se ne deduce che le religioni che sul senso di colpa fondano gran parte del loro potere -a partire dall’ebraismo, con la sua storiella di Adamo ed Eva- sono nemiche di ogni concordia.

L’articolo filosoficamente più interessante di questo numero di Mente & cervello è dedicato a un breve resoconto sulla questione del libero arbitrio [il testo si può leggere per intero in inglese sul sito di Nature]. Gli esperimenti neurologici di Libet e di Haynes hanno mostrato come ancora prima «che il soggetto fosse consapevole di aver preso una decisione il suo cervello aveva già scelto» e che dunque «la consapevolezza di aver preso una decisione potrebbe essere nient’altro che un’appendice biochimica, priva della pur minima influenza sulle azioni della persona» (K.Smith, 96). Il dibattito su queste ricerche è amplissimo e intenso; per farsene un’idea consiglio la lettura di Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il problema del libero arbitrio, a cura di De Caro, Lavazza e Sartori, Codice edizioni, 2010. Qui mi limito a rilevare -con l’autrice dell’articolo- che bisogna prima di tutto mettersi d’accordo su che cosa si intenda con l’espressione libero arbitrio: «Alcuni filosofi lo definiscono come la capacità di prendere decisioni razionali in assenza di coercizione. Altre definizioni lo situano in un contesto di natura cosmica: al momento della decisione, e considerando come dato tutto ciò che è accaduto in passato, sarebbe stato possibile giungere a una decisione diversa. Altri restano legati all’idea che ci sia un’ “anima” di natura non fisica a governare le decisioni» (99). Si aggiunga a questo il problema metodologico che nasce dal fatto che gli esperimenti di Libet, di Haynes e di altri neurologi si riferiscono a situazioni di estrema semplicità: «Premere un pulsante o giocare a un videogioco è ben lontano dal preparare una tazza di tè, candidarsi alla presidenza della Repubblica o commettere un delitto» (100). L’ostacolo più grave al dialogo tra filosofi e neuroscienziati è comunque un altro e consiste nel fatto che questi ultimi si attardano spesso -ed è certo singolare- su una concezione dualistica dell’umano. Parlare infatti di una precedenza dell’attività neuronale su quella mentale o viceversa significa rimanere in un ambito nel quale mente e cervello sono distinti; il paradigma cartesiano si mostra così assai più potente e pervasivo di quanto anche i suoi avversari pensino.
La successione cronologica individuata da Libet e Haynes costituisce un importantissimo contributo tecnico sulle dinamiche dell’encefalo ma non può essere assunta a metodo di soluzione  di una questione che va molto oltre la scansione cerebrale e che ha bisogno invece di tutta l’attenzione fenomenologica che soltanto la filosofia può offrire. Bisogna dunque con tranquillità affermare che sul problema del libero arbitrio continuano a dare una plausibile soluzione le argomentazioni di Spinoza e di Schopenhauer. Queste sì capaci di togliere fondamento all’illusione del libero arbitrio.

Una vita viva

di Battisti-Mogol
da Una giornata uggiosa (1980)

«Se è il caso lottare, più spesso lasciare.
Saper aspettare chi viene e chi va.
E non affondare se si può in nessuna passione
cercando di ripartire, qualcosa accadrà.
[…]
Non temere la notte, non temere la notte,
però amando più il giorno
e partir senza mai pensare a un sicuro ritorno.
[…]
E inventare la vita, una vita viva, una vita viva»

Un programma di vita stoico-spinoziano, questo di Battisti-Mogol, che condivido pienamente: «Nec ridere, neque lugere, neque detestari, sed intelligere» (Ethica, prefazione alla terza parte; Trattato politico, cap. I, § IV).
E in questa comprensione inventare la vita.

De vero arbitrio

La libertà del volere umano
di Arthur Schopenhauer
(Über die Freiheit des menschlichen Willens, 1838)
Traduzione di Ervino Pocar
Laterza, 19882 (1981)
Pagine 152

Inserendosi esplicitamente nella linea che va da Lutero a Hobbes, da Vanini a Hume, da Priestley a Voltaire e soprattutto a Spinoza, Schopenhauer offre una risposta coerente e profonda al problema della libertà del volere.
L’esperienza quotidiana e l’autoscoscienza ci dicono, certo, che noi possiamo fare ciò che vogliamo ma la questione è un’altra: posso anche volere ciò che voglio? Non si cerca la libertà del fare, che è evidente, ma quella del volere. Possediamo la prima forma di libertà (l’actus imperatus) ma non la seconda (l’actus elicitus). Questo è il senso della distinzione spinoziana fra libertà e costrizione: chiamiamo libere quelle azioni che non sono ordinate da una potenza esterna ma vengono imposte dalla natura stessa dell’agente. Azioni che tuttavia rimangono in ogni caso determinate.
Ritenere la volontà un prius senza fondamento è ragionare sul nulla, addirittura sull’impensabile. In realtà, ogni volere e quindi ogni azione si fondano su due elementi: il carattere perenne e la motivazione occasionale. Insieme, essi producono la ferrea necessità dell’agire umano.

Come una palla di bigliardo non può mettersi in moto prima di aver ricevuto un urto, nemmeno l’uomo può alzarsi dalla seggiola prima che un motivo lo attiri o lo spinga: allora però il suo alzarsi è necessario e immancabile come il rotolare della palla dopo l’urto. E aspettarsi che uno faccia qualcosa alla quale non lo inviti alcun interesse è come attendersi che un pezzo di legno si muova verso di me senza che ci sia una fune a tirarlo (p. 89).

La differente risposta alla miriade di sollecitazioni e di motivi che l’esperienza offre dipende dalla diversità delle nature umane. Il carattere di ciascuno è, infatti, individuale, empirico (e quindi conoscibile solo con l’esperienza), costante nel tempo, innato: «data un’educazione e un ambiente perfettamente uguali, due bambini rivelano chiaramente caratteri del tutto diversi» (98). Il carattere rappresenta la generale modalità dell’agire, il motivo è la singola causa scatenante. La verità è che operari sequitur esse ergo unde esse, inde operari (118). Non c’è spazio per rimorsi e rimpianti, anche le circostanze apparentemente più casuali sono il frutto di un’infinita serie di concatenazioni. Allorché una di esse incontra un determinato carattere, scaturisce immancabile la scelta, quella scelta e nessun’altra. «Dobbiamo considerare gli avvenimenti con gli stessi occhi coi quali consideriamo lo stampato che leggiamo, ben sapendo che c’era prima che lo leggessimo» (107).
L’accettazione di questa verità è per Schopenhauer la pietra di paragone che permette di distinguere le menti filosofiche dalle altre. Esattamente come per Spinoza e per Nietzsche. Per essi sapere che «tutto ciò che avviene dal fatto più grande al più piccolo avviene necessariamente. Quidquid fit necessario fit» (106) è la premessa della più solida tranquillità.
Tuttavia Schopenhauer lascia un ampio spazio all’agire dell’uomo. Il suo determinismo -come quello, ancora una volta, di Spinoza e di Nietzsche- non ha nulla di fatalistico, passivo, amorfo. Se il carattere è di fatto immodificabile -tanto da spiegare il sistematico fallimento di tutti i moralismi-, c’è un ambito in cui il miglioramento è possibile: esso è la conoscenza. Emerge qui tutto il socratismo di Schopenhauer:

Il carattere è immutabile, i motivi agiscono con necessità, ma devono passare attraverso la conoscenza che è l’intermediaria dei motivi. Essa però ha la capacità di allargarsi nel modo più vario, di rettificarsi continuamente per gradi innumerevoli, e a questo mira ogni educazione. Il perfezionamento della ragione mediante ogni sorta di nozioni e intuizioni diventa moralmente importante in quanto apre l’accesso a motivi dai quali senza di essa l’uomo rimarrebbe precluso (97).

Aiutandoci a capire, Schopenhauer ha allargato lo spazio della nostra libertà. L’operari è necessario ma l’esse è libero perché avrebbe potuto essere diverso: «Tutto dipende da ciò che uno è; ciò che fa risulterà poi da sé come corollario necessario» (146).

Terrore e silenzio

È sempre la solita storia. Nulla il potere teme come la parola che «gli allòr ne sfronda ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue» (Foscolo, Dei sepolcri, vv. 157-158). Spinoza lo comprese perfettamente quando propose che «facta arguerentur, & dicta impune essent (fossero perseguibili soltanto le azioni, e le parole rimanessero impunite)» (Trattato teologico-politico, Prefazione). Non so chi sia Julian Assange, se dietro di lui ci sia qualcuno, quali siano gli scopi della sua azione. Ma sono certo che le accuse che gli Stati gli rivolgono -da quelle private a quelle politiche- sono finalizzate a colpire la libertà di sapere. Sapere chi davvero comanda nel mondo: le banche, la grande finanza di Wall Street, le industrie delle armi, i servizi segreti. Sapere che gli Stati democratici si reggono sulla medesima struttura criminale degli Stati non democratici. Sapere che mantenere i propri sudditi nell’ignoranza è ancora e sempre il vero scopo di chi comanda, poiché è la condizione che permette loro di continuare a comandare e di essere persino apprezzati.
Noam Chomsky, Barbara Spinelli, altri studiosi e giornalisti difendono l’azione di Wikileaks e di quanti cercano di informare sulle reali azioni degli Stati e non sulle parole vuote dei loro rappresentanti. Alcuni dei peggiori governi del mondo -tra essi Stati Uniti, Italia, Russia, Cina- cercano invece di mettere il silenziatore alla Rete, persino definendo “terrorista” Assange. I terroristi sono loro, loro è la guerra, loro il conformismo, loro la finanza che sta distruggendo l’economia e la società europee. Loro è il terrore quotidiano e silenzioso che ci domina.

[Invito a leggere la motivazione della proposta con la quale Il Fatto quotidiano chiede di firmare per la liberazione di Assange
Invito, inoltre, a leggere un interessante intervento apparso sul sito di Alfabeta2, paradossale solo in apparenza]

Jankélévitch

La morte
di Vladimir Jankélévitch
(La Mort, Flammarion, Paris 1977 [1966] )
Trad. di Valeria Zini
A cura di Enrica Lisciani Petrini
Einaudi, Torino 2009
Pagine XXXVI-474

Tra le tante sciagure dell’esistenza, almeno una ci è stata risparmiata: nessuno conosce con certezza la data del proprio morire. I Greci attribuiscono a Prometeo questo dono. Lo attribuiscono non a caso al titano che regalò agli umani la tecnica. Due modi questi -tecnica e ignoranza del morire- che consentono alla specie di affrontare ogni giorno l’esserci. Di questo mito Jankélévitch afferma che esso «ci concede (…) una modalità del futuro illusoria» (pag. 142).
È un particolare, un veloce passaggio all’interno del fiume di parole che è il libro. Ma è un particolare significativo. L’Autore rifiuta le tante forme di consolazione che cultura, filosofia, scienze hanno inventato per rendere sensata l’insensatezza del non essere più dopo essere stati. Obiettivo polemico continuamente tornante è il Fedone, la tesi che il morire sia un passaggio, tesi che poi diventa -in altre culture- transito verso una pienezza ontologica assai più densa dell’ombra del presente.

No, la morte non è in alcun modo una trasformazione; né una trasformazione minuscola, né una trasformazione più grande, né una trasformazione minore, né una trasformazione maggiore e nemmeno, propriamente parlando, una trasformazione suprema! La morte non è l’abbandono di queste o quelle determinazioni, ma l’abbandono di ogni forma; e non solo è l’abbandono totale della forma, ma anche l’abbandono della sostanza stessa che supporta questa forma e del rapporto stesso di questo supporto, e così via all’infinito. (241)

Per Jankélévitch nel fatto del morire ontologia ed epistemologia convergono sino al punto da costituire, semplicemente, l’impensabile, il nulla, ciò di cui non c’è né esperienza, né parola. «Evento unico e incomprensibile, l’istante mortale elude ogni concettualizzazione» (229), tanto che «la scienza della morte è morta a sua volta nell’istante della sua nascita. Mai ci sarà stato possibile pensare la morte simultaneamente a essa» (371). Perché e come, allora, scrivere quasi cinquecento pagine sulla morte?

Partendo da tali presupposti, esse non possono che oscillare tra la ripetizione prolissa delle stesse tesi; riferimenti all’intuizione letteraria e musicale più che alla teoresi (citato e amato più di ogni altro è Tolstoj, «il più grande genio dell’oggettività» [462], e in particolare il denso e struggente racconto sulla Morte di Ivan Il’ič); antropocentrismi sentimentali che vedono nella nostra specie una sorta di entità privilegiata che dovrebbe essere salvaguardata dalla propria fine; invenzioni lessicali a volte di dubbia utilità; descrizioni banali anche se espresse in modo lirico; svelamenti conclusivi che attribuiscono alla tragedia del morire uno statuto di “semplicità” che tutto il resto del libro sembra negare: «semplice come bere un bicchier d’acqua, così semplice che ci domanderemo, il giorno in cui sapremo, come mai non ci abbiamo pensato prima» (463). Un oscillare tra la morte come necessario attrito della vita e la morte come disperazione, «nero assoluto» (81). E tutto in un tono che vorrebbe essere lucido ma che appare più spesso lugubre.

Non mancano, certo e per fortuna, elementi più interessanti e più spendibili in sede teoretica e quindi esistenziale. Tra questi una efficace sintesi concettuale secondo cui

avendo trattato, a proposito della vita, del mortalis che esprime una proprietà astratta, e del moriturus che designa un futuro e una vocazione, poi, a proposito dell’istante, del moribundus «sul punto di» morire e del moriens «che sta per morire», dovremmo trattare adesso del mortuus, che designa uno «stato» (372-373);

una esatta riflessione sul legame che unisce il morire alle concezioni dualistiche dell’umano, poiché è vero che «se noi vedessimo solo l’uomo vivo in stato di veglia, senza dubbio non avremmo alcuna ragione per distinguere in lui due sostanze da pensare separatamente, o per considerarlo come un composto psicosomatico: infatti, immediatamente noi vediamo un corpo significante, un senso incorporato, un volto espressivo, ma non vediamo mai né un’anima, né una dualità di anima e corpo» (395).

Fecondi sono alcuni passaggi dedicati alla temporalità, argomento evidentemente inseparabile da quello del morire. Jankélévitch individua uno degli elementi peculiari del tempo -rispetto anche allo spazio- nella sua irreversibilità, nel non offrirsi per intero allo sguardo ma nel dover essere percorso in una successione vissuta. E soprattutto Jankélévitch conosce la pervasività del tempo, simile a quella della luce su ogni ente che l’occhio possa percepire:

Ma il tempo non si trascura impunemente: il tempo è quel non-so-che che nessuno vede con gli occhi o tocca con le mani, di cui lo stesso orecchio non percepisce direttamente il fluire, che non ha né forma, né colore, né odore, che nessun pensiero concepisce, che non è né una dimensione, né una forma, né una categoria, che è dunque quasi-inesistente e che è, nonostante questo, la cosa più essenziale di tutte. Se non si prende in considerazione questo fattore invisibile e impalpabile oltre che ineffabile, ci si espone ai più gravi disinganni. (293)

E tuttavia per Jankélévitch -come per numerosi altri filosofi- il tempo rimane un nemico dell’umano, invece che esserne -come è- la sostanza stessa. La conseguenza è che anche Jankélévitch cerca e trova una qualche consolazione al morire. E la individua in una peculiare forma di opposizione alla temporalità: l’eternità dell’essere stati.

In ogni caso, questa è la rivincita, la consolazione e la speranza dei mortali: la morte distrugge il tutto dell’essere vivente, ma non può nichilizzare il fatto di aver vissuto; la morte riduce in polvere l’architettura psicosomatica dell’individuo, ma la quoddità della vita vissuta sopravvive a queste rovine. (…) Si potrebbe dunque dire che la vita eterna, vale a dire il fatto indelebile di essere stato, è un regalo che la morte fa alla persona vivente. (…) Il baleno più fragile, fragile come un fuoco fatuo nella notte, fonda la più incancellabile quoddità: se infatti la vita è effimera, il fatto di aver vissuto una vita effimera è un fatto eterno. (454-456)

Quale sia la differenza tra questa consolazione e quelle che Jankélévitch aspramente condanna non è dato sapere. Da questo libro si esce avendo meglio compreso il senso dell’invito spinoziano: «Homo liber de nulla re minus quam de morte cogitat et ejus sapientia non mortis sed vitæ meditatio est» (Ethica, parte IV, prop. LXVII), che non è un invito a nascondere ma a comprendere il senso del morire nel tessuto inarrestabile e potente della materia/mondo.

Il discorso vero

di Celso
(Αληθής Λόγος)
A cura di Giuliana Lanata
Adelphi, Milano 1987
Pagine 253

celso

Il testo di Celso (II sec. ev) -il cui titolo greco potrebbe essere tradotto anche come Il vero Logos– è giunto a noi perché Origene ne riporta numerosi brani allo scopo di confutare le accuse che lo scrittore rivolge al cristianesimo. Questa edizione curata da Giuliana Lanata è esemplare per correttezza filologica e cura della traduzione.
La molteplicità delle critiche di Celso può essere ricondotta ad alcune direttrici di fondo: difesa del paganesimo nei confronti della esclusiva pretesa salvifica che la nuova fede rivendica per sé; conferma della struttura deterministica e formale del mondo contro l’antropocentrismo e il materialismo cristiani; consapevolezza della incorporeità e serena imperturbabilità del divino platonico, i diversi nomi del quale e le differenti forme di culto scaturiscono tutti dalla stessa matrice. Il cristianesimo viene ricondotto alla misura di un culto che da un lato trae le sue cose migliori dalla grande tradizione sapienziale del mondo antico, dall’altro la adatta alla infima origine sociale e al fanatismo della maggior parte dei suoi adepti.
La fede nella resurrezione dei corpi appare al platonico Celso come una «pura e semplice speranza da vermi» (V, 14; pag. 108). Offrendo «sconsideratamente il loro corpo alle torture e alla crocifissione», i cristiani mostrano di «non amare la vita» (VIII, 54; p. 156), in ciò fedeli al loro maestro, privo di ogni lievità e autoironia: «e poi, quali azioni nobili e degne di un Dio ha compiuto Gesù? Ha disprezzato gli uomini, li ha derisi, ha scherzato su quel che gli accadeva?» (II, 33; p. 75). In tal modo, ciò che per i cristiani era ed è il privilegio di un Dio che si fa uomo, soffre e si immola, costituisce per Celso, e per il mondo di cui egli è espressione, la massima assurdità.
Altrettanto assurdo appare a Celso l’antropocentrismo che intesse l’intera tradizione prima giudaica e poi cristiana, nei confronti della quale il libro IV della sua opera pronuncia parole molto chiare. Ai cristiani i quali affermano che Dio avrebbe fatto l’intero universo per l’uomo, il filosofo risponde che «l’universo non è stato generato per l’uomo più che per gli animali privi di ragione» (IV, 74; p. 102). A conferma osserva che mentre gli umani devono inventarsi e costruirsi gli strumenti di caccia, altri animali ne sono dotati in misura superiore e innata. Aggiunge poi che «se gli uomini appaiono superiori agli esseri privi di ragione perché hanno costruito le cità e si sono dati una struttura politica e delle magistrature e dei governi, anche questo non significa nulla, perché altrettanto fanno le formiche e le api. […] Orbene, se uno guardasse verso la terra, quale gli apparirebbe la differenza fra quello che facciamo noi e quello che fanno le formiche o le api?» (IV, 81 e 85; pp. 103–104).
La conclusione è tanto logica quanto inevitabile: «Dunque l’universo non è stato fatto per l’uomo, e d’altronde nemmeno per il leone o per l’aquila o per il delfino, ma perché questo mondo, in quanto opera di Dio, risultasse compiuto e perfetto in tutte le sue parti» (IV, 99; p. 106).
A questo livello, nessuna conciliazione è possibile tra il cristianesimo e il mondo antico. Come Luciano, Spinoza e Nietzsche, Celso ha individuato la reale debolezza teoretica di questa fede, divenuta però la sua paradossale e ambigua forza pragmatica, consolatrice ed emotivamente coinvolgente: la bizzarria di una forma del divino davvero troppo umana. E tuttavia, radicato com’è nella scissione ebraica, nella coscienza infelice che separa terra e cielo, finito e infinito, il cristianesimo è una delle ragioni più profonde dell’angoscia di vivere che attanaglia gli europei non più “antichi”. Il testo di Celso lo dimostra.

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