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Neuroni e identità

Il Sé sinaptico.
Come il nostro cervello ci fa diventare quelli che siamo
di Joseph LeDoux
(Synpatic Self. How our Brain Become Who We Are, Viking Penguin 2002)
Trad. di Monica Longoni e Alessia Ranieri
Prefazione di Edoardo Boncinelli
Raffaello Cortina Editore, 2010
Pagine 556

Uno degli elementi più discutibili della ricerca neurologica -e medica in generale- sta nell’utilizzo di quelli che anche LeDoux definisce “animali da esperimento”. Una formula chiaramente inaccettabile, che riduce la dignità dell’animale vivente a una cosa. Il retaggio cartesiano di molta neurologia è evidente anche in questa scelta lessicale e nell’estensione per analogia alla mente umana dei risultati di esperimenti attuati su altre specie. Di converso si continua ad applicare agli altri animali l’illogica pretesa di essere come l’Homo sapiens. Dato che tale pretesa è per definizione impossibile da soddisfare, se ne deduce che gli altri animali non abbiano coscienza, consapevolezza, mente. C’è da dire che per fortuna l’autore di questo libro tempera di tanto in tanto simili tesi antropocentriche, come quando scrive che «una volta che si accetta che il Sé di un essere umano abbia aspetti consci e inconsci, diviene facile osservare come gli altri animali possano essere pensati come aventi dei Sé, purché si sia cauti circa quali aspetti del Sé vengano attribuiti a ciascuna specie in questione» (p. 30).

Un altro limite del libro è la prospettiva nel complesso discreta e non olistica nella quale si pone. Vengono infatti narrate in dettaglio le vicende dei neuroni, dei dendriti, degli assoni, delle sinapsi. E si dà quasi per scontato che questo basti per comprendere il Sé. Ora, se è vero che tutti i pezzi e le parti di un motore devono essere attivi e funzionanti affinché si dia il movimento dell’automobile, il moto dell’auto nello spazio è altra cosa rispetto al funzionamento dei singoli pezzi meccanici. Il tutto, come l’empirista Aristotele sapeva, è superiore alla somma delle parti. Sembrerebbe quindi che anche LeDoux sia un riduzionista al pari di molti suoi colleghi. Ma più sopra ho sottolineato il “quasi”. Si tratta infatti di un riduzionismo temperato che ammette come le strutture e le dinamiche neuronali non si pongano in contrapposizione alla mente e al mondo ma con essi si integrino: «per quanto cominciamo a pensare a noi stessi in termini sinaptici, non dobbiamo sacrificare altre modalità di comprensione dell’esistenza» (18); «ritengo che le impostazioni non scientifiche (letteratura, poesia, psicoanalisi) e le scienze non riduzioniste (linguistica, sociologia, antropologia) possano coesistere con le neuroscienze, integrandole» (454).

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Mente & cervello 77 – Maggio 2011

Il corpo è anche la relazione con lo spazio, la struttura prossemica che segna le diverse distanze alle quali permettiamo agli altri di incontrarci, la «bolla virtuale che circonda ciascuno di noi e dove la gente non penetra abitualmente, salvo per gesti sociali ammessi, come la stretta di mano» (N. Guéguen, p. 27). Penetrare con maggiore o minore facilità nello spazio altrui, permettere che altri entrino nel nostro o proibirlo è una delle manifestazioni più chiare -perché in gran parte involontarie- della “dominanza”, di quel legame di ciascuno con ogni altro umano fatto anche di autorità e che sembra davvero non risparmiare «né le relazioni tra amici né quelle tra familiari o di coppia» (Id., 28).
La “chimica del maschio dominante”, alla quale questo numero di Mente & cervello dedica alcuni articoli, arriva al parossismo storico nel potere totalitario esercitato da alcuni gruppi, come quello nazionalsocialista. Della personalità di Hermann Goering si occupa lo psichiatra Douglas Kelley con il resoconto degli incontri che ebbe col vice di Hitler e Maresciallo del Reich, prima e durante il processo di Norimberga. Le conclusioni a cui Kelley pervenne furono che «Goering e i suoi accoliti fossero persone comuni, e che le loro personalità “potevano ripetersi oggi in qualsiasi paese del mondo”» (J. El-Hai, 53). Questo conferma che spiegare il nazionalsocialismo o qualsiasi altro fenomeno politico con la categoria della “pazzia” è del tutto privo di senso. Gli eventi storici hanno cause economiche, sociali, antropologiche e nessuna interpretazione soltanto psicologica e privata può darne conto.
La tristezza della storia collettiva ha il suo riflesso in quella delle vite individuali. Anche per questo la medicalizzazione della tristezza sotto il nome di “depressione” è in gran parte scorretta e frutto degli interessi delle case farmaceutiche e di alcuni psichiatri, come documenta il libro di Gary Greenberg dedicato alla Storia segreta del male oscuro, recensito da M. Capocci (pp. 104-105). Ai «problemi difficili della vita» si può rispondere, certo, anche con dei farmaci -visto che siamo chimica che cammina- ma soprattutto con quell’«esercizio della saggezza» che aiuti a «fare pace con il proprio passato e a proiettarsi verso il futuro» (K. Baumann e M. Linden, pp. 84-89), visto che siamo tempo che cammina.

 

Cuore di tenebra

di Joseph Conrad
(Hearth of Darkness, 1902)
Trad. di Alberto Rossi
Einaudi, Torino 1989
Pagine XLVI-127

 

Mentre si avanza, una progressiva assenza. Nel procedere dello spaziotempo vengono meno gli eventi, le parole, la luce. L’immenso fiume dal non detto nome introduce alla nebbia fittissima del senso, al buio della comunicazione. È anche questo il segreto di Hearth of Darkness: un’identità di forma e contenuto che nulla lascia fuori di sé ma che nel compiersi sospende la parola
Il comandante Marlow dà inizio, mentre sul Tamigi scende la tenebra notturna, al racconto del suo viaggio nel cuore dell’Africa, alla ricerca dell’avorio e di Mister Kurtz. La narrazione si avvicina in modo progressivo, lento, indiretto al suo obiettivo, esattamente come il procedere del battello per centinaia di miglia sulle acque. Quando, infine, si arriva è al di là del bene e del male che si è giunti. Lungo tutto il viaggio l’aria, il tempo, i giorni scorrono lenti fra luce e tenebre nella massiccia e lontana densità di una foresta impenetrabile, viva e respirante, sacra. Un pellegrinaggio nell’incubo, come se tutto ciò che il Guernica di Picasso racchiude nell’istante atemporale della pittura fosse dilatato nel tempo lungo della narrazione. Che cos’è lo Hearth of Darkness a cui ci si approssima senza mai coglierlo?
È la conquista del mondo. Il demone e il destino dell’Europa. Ai popoli dell’Africa la schiavitù «era giunta addosso come un incomprensibile mistero proveniente di là dal mare» (pag. 23). Lo Hearth of Darkness è quindi quel «lezzo di rapacità imbecille», diffuso da funzionari tanto grotteschi quanto feroci e che «circolava per ogni dove a zaffate, come il fetore d’un qualche cadavere» (35). Ma il predare e sottomettere, la schiavitù e il massacro delle genti africane preesistono agli europei, ebbero inizio già al tempo dell’espansione araba. Hearth of Darkness è qualcos’altro. È l’infinita solitudine dell’uomo, il silenzio e l’oblio che avvolgono ogni anima e ogni vita: «il silenzio di quella terra penetrava dritto in fondo al cuore, col suo mistero, la sua vastità, la realtà stupefacente della sua vita recondita» (40). Una effettiva, e quindi totale, comunicazione fra gli umani è di fatto impossibile. La verità, il significato, la penetrante essenza di un attimo qualunque della vita, non si può trasmettere ad alcuno: «Si vive come si sogna: perfettamente soli» (42). Il silenzio senza traccia delle primordiali età dell’uomo è destinato a richiudersi su qualunque creazione, orma, documento, memoria come l’oceano sul capo di chi annega. Il viaggio verso la tenebra è quindi l’inoltrarsi «nella notte di età che scomparvero lasciando appena qualche traccia, e nessuna memoria» (56).

Ma c’è di più, assai di più, al di là del rimpianto per la propria caducità. Hearth of Darkness è l’orrore dell’umano, l’umano come orrore. È questa la mortale sapienza alla quale infine Kurtz arriva. Il male dentro di sé, il male in ognuno che desidera, la tenebra della specie più luminosa, il dionisiaco dell’apollineo. La straordinaria eloquenza di Kurtz, i suoi pensieri reconditi, i sentimenti e le sconfinate sue passioni sono sempre e soltanto allusi e mai vengono detti. A esprimere la tenebra c’è solo qualche brandello di disincantata sapienza: la bizzarria della vita e il dominio su di essa del dolore, la ferocia della storia, l’incerta e terribile conoscenza di se stessi, la messe di inestinguibili rimpianti. Solo nell’ultima prova della sua misteriosa eloquenza Kurtz esprime qualcosa di semplice, qualcosa di definitivo. Il suo «sguardo fisso […] era vasto abbastanza da abbracciare tutto l’universo, abbastanza acuto per penetrare in tutti i cuori che battono nella tenebra. Egli aveva tirato le somme -e aveva giudicato, “Quale orrore!”» (112) («his stare […] was wide enough to embrace the whole universe, piercing enough to penetrate all the hearts that beat in the darkness. He had summed up -he had judged. “The horror!”»).
Quest’ultimo grido si riverbera sùbito sul quotidiano, a scanso di ogni esotismo: «Mi ritrovai di nuovo in quella città sepolcrale, irritato alla vista di gente che correva per le strade a rubarsi a vicenda qualche poco di denaro, a divorare quella sua infame cucina, a ingoiare la sua birra impossibile, a sognar i suoi sogni insignificanti e balordi» (113). Un’altra condanna gnostica si è abbattuta sull’umano e ha creato un racconto a volte forse ripetitivo, che continuamente insiste su quella parola Darkness, ma che -cosa davvero unica- dà la sensazione di sfiorare l’eterno: «Risalire lungo quel fiume era come viaggiare all’indietro nel tempo verso i più remoti primordi del mondo, quando la vegetazione tumultuava sulla terra, ed alberi immensi stavano come imperatori» (52).

Il fotografo, le città

Istanbul 05 010
Milano – Fondazione Stelline
Sino al 12 dicembre 2010

Lo spazio, gli spazi. Lo spazio come oggetto e soggetto, contenitore e contenuto, rappresentazione e sostanza. Gli spazi delle città che Gabriele Basilico sa cogliere nella loro natura fisica, di organismo che una volta nato cresce come un corpo vivo. E come un corpo, una città può essere ferita, invecchiare, rigenerarsi, morire.
Istanbul appare in tutta la sua confusa concrezione di legno, cemento, ponti, mare, luci, parabole satellitari. Un formicaio di case che nulla concede all’esotico, alla cartolina, alla storia. Per Basilico, la fotografia documenta e ricrea sempre e solo il presente. Protagonisti assoluti sono dunque e appunto gli spazi urbani, dei quali gli umani sembrano soltanto un epifenomeno.
Lo stesso sguardo il fotografo rivolge alle altre città che visita, come ben documenta il lungo e appassionante filmato che accompagna la mostra. Città soprattutto di mare, coi loro porti infiniti. La costa bretone sembra ampliarsi nel cielo cupo di tempesta; Genova è la potenza delle sue strutture portuali che fanno corona all’immobilità verticale della Lanterna; Beirut appena uscita dalla guerra sembra da lontano una delle tante città mediterranee, coi loro quartieri sventrati dalla pace e non dalle bombe; San Francisco è il conflitto/continuità tra i quartieri industriali dismessi e i tracotanti grattacieli della finanza.
Ma anche una città senza porto, Mosca, è colta nelle sue costanti e nelle trasformazioni, una città decisamente verticale, dove l’ossessione del potere si fa architettura. E l’architetto/fotografo torna poi sempre alla sua città, Milano, della quale lo interessano i quartieri meno alla moda, meno curati ma ricchi di una stratificazione produttiva e antropologica che l’immagine ufficiale cerca di nascondere o addirittura negare.

Per Basilico, infatti, la fotografia ha in sé una dimensione sociale essenziale e fondante. Che in lui diventa consapevolezza della non neutralità dello sguardo. Afferma infatti, in un brano della lunga intervista che intesse il film, che «posso fotografare le periferie accentuando il tono drammatico e gli scuri, ma posso invece avere uno sguardo più rispettoso della natura anche solidale di questi spazi». Ha ragione, non esistono luoghi ma solo interpretazioni. Basilico attraversa dunque le città col suo cavalletto sul quale una raffinata macchina analogica si ferma a cogliere, fedele, non soltanto ciò che si riflette nel diaframma ma soprattutto quanto l’occhio dell’artista aveva già colto e costruito.

Il tempo vissuto

Eugène Minkowski
Il tempo vissuto.
Fenomenologia e psicopatologia

(Le temps vécu. Études phénoménologique et psycopatologiques [1933], 1968)
Trad. di Giuliana Terzian
Revisione e cura del testo di Anna Maria Farcito
Introduzione di Federico Leoni
Prefazione di Enzo Paci
Nuova edizione
Einaudi, Torino 2004
Pagine XXXIX-401

Il tempo/spazio costituisce l’esperienza fondamentale dell’umano e del suo stare al mondo, è «per ognuno di noi il problema più vivo, più personale» (pag. 5). Anche per questo la radice profonda e l’espressione immediata delle psicopatologie non può che coinvolgere la sua percezione e rappresentazione. Il distacco dalla realtà, qualunque forma essa assuma, è un distacco dal fondamento temporale della vita umana.

Il patologico, mostrandoci che il fenomeno del tempo e probabilmente anche quello dello spazio si situano e si organizzano nella coscienza malata diversamente da come lo concepiamo di solito, mette in rilievo caratteri essenziali di questi fenomeni che, proprio a motivo della poca distanza che ci separa da essi nella vita passerebbero inosservati o sarebbero considerati del tutto naturali. (8)

Il disorientamento temporale si accompagna quasi sempre a un disorientamento nello spazio; la malattia psichica è anche una rinuncia alla dimensione fondamentale del futuro, a quello slancio verso l’ha da essere il cui rallentamento e diminuzione produce «ora l’impossibilità di liquidare le situazioni presenti, ora il sentimento di una determinazione ineluttabile a opera del passato» (279). Della complessità esistenziale e psicologica, della sua varietà, si perdono le differenze e rimane l’identità; si dissolve il molteplice a favore dell’uno; si perde il tempo nel dominio dello spazio. Nello spazio, infatti, «noi cerchiamo il simile e l’identico, nel tempo viviamo il nuovo e il dissimile» (314-315).
La schizofrenia è in gran parte il risultato di tale dinamica esclusiva ed escludente, che tende ad arrestare lo slancio della vita interiore in «atti senza domani, atti congelati, atti a corto circuito, atti che non tendono a concludere» (265), tanto da poter dire che lo schizofrenico venga «attirato solo da quello che è spazio, che solo così si senta a suo agio, e che fugga tutto ciò che è divenire e tempo» (262).

Se una caratteristica primaria del tempo è il divenire incessante di questa “massa liquida” (Bergson) che sta ovunque intorno e dentro all’io e che plasma l’«io-qui-adesso» (258) del corpo umano, i processi morbosi consistono anche e proprio nel ridurre tale struttura a una immobilità densa e senza futuro, nella quale i ricordi tendono ad assumere sempre più la figura deformata della persecuzione e di una infinita tristezza. La memoria, infatti, non si limita a registrare l’accaduto ma lo reinventa di continuo. La malattia mentale è una reinvenzione parziale, statica, deformata sino all’allucinazione.
Di contro, gli stati d’equilibrio -sempre fragili- della psiche consistono nel mantenimento della «innata solidarietà spazio-temporale» che è «paragonabile a quella della solidarietà organico-psichica» (22). Ha quindi ragione Heidegger, (del cui libro del 1927 Minkowski afferma comunque di non aver potuto discutere) a definire il tempo come avvenire-essente stato-presentante, «gewesend-gegenwärtigende Zukunft» (Sein und Zeit, § 65, p. 916 dell’edizione Mondadori 2006) e il futuro come «il fenomeno primario della temporalità originaria e autentica» (Ivi, § 65, pp. 925-927).

Secondo Minkowski, infatti, c’è un’asimmetria tra passato e futuro: «l’avvenire vissuto ci è dato incontestabilmente in modo più primitivo del passato. Esso reca con sé nella vita il fattore creatore, di cui il passato sembra essere interamente privo» (39). Ogni raggiungimento apre ad altri obiettivi, ogni luogo dispiega nuovi itinerari, ogni qui è un oltre. Dove ciò non accade il corpo è diventato salma. Perché anche questo è il tempo vissuto, «una riserva eterna e inestinguibile di forze, senza la quale non si potrebbe vivere» (76).

I testi che compongono il libro furono redatti lungo una ventina d’anni e a volte emergono differenze e ripetizioni. Il fondamento è tuttavia sempre chiaro e unitario, radicato com’è nelle tesi bergsoniane e husserliane dei dati immediati della coscienza e delle visioni d’essenze. La prima parte è un Saggio sull’aspetto temporale della vita, la seconda mette alla prova i postulati teorici mediante il confronto con numerosi casi clinici. Il risultato è un testo che offre conferma anche empirica della ricchezza teoretica ed esistenziale della temporalità fenomenologica.

Guerra e pace

La pace è un istante, la guerra è sempre. L’illusione della pace è il cadavere del pensiero. Il parmenidismo applicato ai rapporti umani -individuali e collettivi- è in realtà una necrofilosofia. La stasi è una consolazione per i deboli di cuore, per coloro che hanno timore della vita e del suo pulsare. Il tempo -il pólemos che scorre sempre e non si ferma mai- è per quanti accolgono la grandezza e il dolore del divenire. Certo, oltre il tempo si dà ancora essere. Ma è l’Indicibile.

Calder. La materia aria

CALDER
Roma –  Palazzo delle Esposizioni
Sino al 14 febbraio 2010

D’aria e di fil di ferro sono fatte le prime sculture di Alexander Calder, quasi impalpabili eppure materiche. A rappresentare animali, volti, eventi, miti (splendidi davvero Ercole e il leone e Romolo e Remo). Poi l’invenzione dei Mobiles, sculture non germinate dalla terra ma arrivate dal cielo. Opere che il vento muove e che sono dunque ogni volta rinnovate nello spazio. Vi si affiancano le grandi Stabiles come il magnifico Tree che sembra trasformare in vita l’inorganico.
Più lieve è il mondo, più aerea la bellezza da quando questo tra i massimi scultori di sempre ha sradicato le opere dalla loro morta fissità e le ha rese movimento, gioco, volo. Come il grande mobile appeso al tetto e intitolato a una data: Le 31 Janvier. C’è qualcosa di ancestrale e di profondo in queste opere, come la rivelazione di ciò che la materia è davvero: non sostanza, sostrato, permanenza, costanza, ma spazio che si dilata, apre, trasforma, cangia, splende, a dire la propria identità col tempo.
Una sezione della mostra espone le fotografie dedicate a Calder da Ugo Mulas, nelle quali il «gigante bambino» è una cosa sola con le sue opere, con l’aria.

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