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Un riuscito naufragio

La pazza gioia
di Paolo Virzì
Italia, 2016
Con: Valeria Bruni Tedeschi (Beatrice), Micaela Ramazzotti (Donatella), Valentina Carnelutti (Fiamma Zappa), Anna Galiena (Luciana Brogi), Marco Messeri (Floriano Morelli).
Trailer del film

Beatrice Morandini Valdirana è ospite di una struttura di recupero psichiatrico. È estroversa, chiacchierona, elegante, ricca e decaduta, un po’ razzista e molto imbrogliona. Arriva Donatella Morelli, che invece è fisicamente malmessa, riservata, sciatta, senza un soldo.
Per quali ragioni queste due donne siano lì ricoverate, che cosa abbiano commesso, lo si scopre a poco a poco. Sino alla reciproca confidenza dell’«essere nate tristi». Approfittando di una circostanza casuale, fuggono dalla struttura, alla ricerca della felicità perduta e del figlio di Donatella, che le è stato sottratto in quanto giudicata «inidonea alla genitorialità». Si susseguono una serie di avventure, incontri, confronti con amici, genitori, ex mariti e precedenti amanti. La vita pulsa in questa pazza gioia, sino alla fine.
Due attrici in stato di grazia scolpiscono delle figure fragili e forti. Valeria Bruni Tedeschi, in particolare, disegna uno dei suoi personaggi meglio riusciti. Entrambe sono credibili, matte senza essere caricaturali, tenere e insieme violente. Il film dà voce al discorso folle e lo fa con misura, sempre in equilibrio tra divertimento e tragedia.
Nell’atroce mondo in cui siamo gettati, la pazzia è spesso una risposta naturale e inevitabile, pur se perdente. Di questo riuscito naufragio il film sa mostrare anche la gioia.

Creature della notte

Solo gli amanti sopravvivono
(Only Lovers Left Alive)
di Jim Jarmusch
Gran Bretagna-Germania-Francia-Cipro-USA, 2013
Con: Tom Hiddleston (Adam), Tilda Swinton (Eva), Mia Wasikowska (Ava), John Hurt (Marlowe), Anton Yelchin (Ian), Jeffrey Wright (il Dottor Watson)
Trailer del film

Adam vive a Detroit, Eve a Tangeri. Si amano appassionatamente. Lei conosce e legge molte lingue ed è antica amica di Marlowe. Lui compone musica per le chitarre di ogni tempo e luogo. Vivono e viaggiano di notte, prediligono la solitudine, coltivano la bellezza e la scienza. L’arrivo della sorella di lei, più giovane e decisamente viziata, disturba i loro luoghi, infrange i loro equilibri, ma non tocca la quiete profonda che li intesse. Adam e Eve hanno bisogno di procurarsi sangue. È però sempre più difficile trovarne di non contaminato. E forse sono rassegnati a spegnersi nella notte dalla quale sono venuti. Soprattutto Adam è stanco della follia, della stupida ripetitività, della gratuita ferocia degli umani. Ma Eve, saggiamente, gli ricorda che «se dovessimo elencare i crimini che gli zombie hanno perpetrato nei secoli, staremmo qui sino all’alba», l’alba in cui inizia il loro sonno.
Elegante e malinconica metafora dell’arte e dell’artista, della solitudine e dei solitari, della lettura e dei lettori. Metafora intrisa di musiche e di danze. La creatura della notte conosce la morte e sa che cosa è il tempo. Per questo il suo ritmo è così calmo e la sua angoscia così sapiente.

Albertine disparue

La fuggitiva
di Marcel Proust
(Albertine disparue, 1921-22)
Trad. di Franco Fortini
Einaudi, 1978 (1954)
Pagine XV – 321

Proust_La FuggitivaUno dei momenti assoluti della Recherche è la fuga inaudita e poi la morte di Albertine. Né prima né dopo ho letto qualcosa di così potente e di così vero sulla realtà e sulla percezione dell’abbandono e del lutto. Lentamente e inesorabilmente gli aspetti più caduchi -caste sociali, illusioni, speranze, ambizioni- sembrano dissolversi. Rimangono le potenze che guidano l’opera e l’esistere: la Verità, impossibile da cogliersi; il Tempo, intessuto di memoria e di oblio, «come c’è una geometria nello spazio, c’è una psicologia nel tempo, dove i calcoli di una psicologia piana non sarebbero più esatti, perché non si terrebbe conto del Tempo e di una delle forme che assume, l’oblio» (p. 149)1; la Solitudine, «i legami fra una persona e noi esistono solamente nel pensiero. La memoria, nell’affievolirsi, li allenta; e, nonostante l’illusione di cui vorremmo essere le vittime, e con la quale, per amore, per amicizia, per cortesia, per rispetto umano, per dovere, inganniamo gli altri, noi viviamo soli. L’uomo è l’essere che non può uscire da sé, che non conosce gli altri se non in sé medesimo, e che, se dice il contrario, mentisce» (pp. 36-37) 2.
Questo è la nostra vita, questo è la vita degli umani. Il Narratore ne ha appreso la forza e i segreti attraverso il tempo e la cristallizzazione da esso operata intorno alla sua amata: «Albertine, insomma, come una pietra intorno alla quale sia nevicato, era solo il centro generatore d’una costruzione immensa che passava attraverso il piano del mio cuore» (p. 23)3.
Prima di ricapitolare il ritorno della realtà e il ritorno dell’io, prima di svelare l’inquietante enigma della sua narrazione, Marcel ha lasciato dietro sé debolezze e sogni, ha intagliato -come un sole che al crepuscolo definisce meglio i contorni- disegni vasti, ironici e dolenti; ha scolpito mediante una scrittura colma di strazio e di gelo l’intera bellezza e potenza delle due forze che in un contrappunto costante guidano le vicende degli esseri che pensano: il dolore e l’oblio.
Dalla Recherche si impara a sconfiggere la sofferenza, a trionfarne.

Note

1. «Comme il y a une géométrie dans l’espace, il y a une psychologie dans le temps, où les calculs d’une psychologie plane ne seraient plus exacts parce qu’on n’y tiendrait pas compte du Temps et d’une des formes qu’il revêt, l’oubli» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 2023)

2. «Les liens entre un être et nous n’existent que dans notre pensée. La mémoire en s’affaiblissant les relâche, et, malgré l’illusion dont nous voudrions être dupes et dont, par amour, par amitié, par politesse, par respect humain, par devoir, nous depons les autres, nous existons seuls. L’homme est l’être qui ne peut sortir de soi, qui ne connaît les autres qu’en soi, et, en disant le contraire, ment» (p. 1943)

3. «Bref Albertine n’était, comme une pierre autour de la quelle il a neigé, que le centre générateur d’une immense construction qui passait par le plan de mon coeur» (p. 1933)

(Le mie riflessioni sugli altri sei volumi della Recherche si possono leggere qui: La strada di SwannAll’ombra delle fanciulle in fioreI GuermantesSodoma e GomorraLa prigionieraIl Tempo ritrovato )

Il sorriso e la morte

Teatro Franco Parenti – Milano
Sogno di una notte di mezza sbornia
di Eduardo De Filippo
liberamente tratto da  La fortuna si diverte di Athos Setti
Con: Luca De Filippo (Pasquale Grifone), Carolina Rosi (Filomena), Nicola Di Pinto, Massimo De Matteo, Giovanni Allocca, Carmen Annibale, Gianni Cannavacciuolo, Paola Fulciniti, Viola Forestiero
Regia di Armando Pugliese
Compagnia di Teatro di Luca De Filippo
Sino al 6 gennaio 2015

Luca-De-Filippo-e-Carolina-Rosi-foto-Federico-RivaPasquale Grifone vive modestamente ma vive. In una delle tante notti che lo vedono ubriaco, Dante Alighieri gli regala quattro numeri che lo renderanno ricco. Sono numeri, però, che indicano anche la data della sua morte, che avverrà tra pochi mesi. I numeri escono e la famiglia di Pasquale diventa milionaria. La felicità degli altri non compensa l’angoscia del protagonista, che vive come fosse un condannato a morte. Moglie e figli cercano di tranquillizzarlo ma sono anche ben pronti alla dipartita e non propriamente dispiaciuti. Il giorno stabilito si vestono a lutto e cominciano il loro pianto. Alle 13 in punto Pasquale si sente morire ma non muore. Un medico certifica la sua piena salute. Forse però non sono ancora le 13…
Una farsa, chiaramente, con tutti i colori, le esagerazioni, i movimenti, le battute intessute di grottesco. Ma una farsa che contiene i grandi temi del teatro di Eduardo, vale a dire la solitudine, il sogno, il morire. Il contratto, La grande magia, Questi fantasmi, Le voci di dentro affrontano la morte, la volontà di vivere, la vita onirica e l’esser soli con tutta la radicalità di un umorismo insieme teoretico e plebeo. Qui il tono è lievissimo, i tempi comici sono scanditi e il risultato è di grande divertimento. Ma anche da questa commedia traspare la tragicità della condizione umana. Soltanto un grande drammaturgo può coniugare così bene il sorriso e la morte.

Un'immobilità senza requie

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Il ritorno a casa
(The Homecoming, 1964)
di Harold Pinter
Traduzione di Alessandra Serra
Con: Paolo Graziosi, Alessandro Averone, Elia Schilton, Rosario Lisma, Andrea Nicolini, Arianna Scommegna
Regia di Peter Stein
Sino all’1 dicembre 2013

Il vecchio Max vive in un sobborgo di Londra con i suoi due figli, uno aspirante pugile e l’altro magnaccia, e con il fratello, che fa lo chauffeur. I rapporti tra di loro sono sprezzanti, rancorosi, verbalmente violenti. Una notte torna dopo sei anni dagli Stati Uniti il figlio maggiore, professore di filosofia, con la moglie. Al mattino si scatena la misoginia di questi soggetti dalle vite piatte e senza luce. Ruth sembra la vittima, consenziente ma anche in grado di capovolgere la situazione a proprio vantaggio.
Ancora la famiglia, la sua perversione. Ma l’elemento decisivo è un altro. È una scrittura drammaturgica capace di dire tutto sin dalle prime battute e insieme di svolgere nel tempo il viluppo iniziale di solitudine e di ferocia. I personaggi rimangono sempre gli stessi, nell’immobilità delle loro nature e della loro storia, e però scopriamo sempre qualcosa di nuovo. Personaggi monocordi e schizofrenici, convenzionali e volgari, indifferenti a tutto ciò che non siano i propri bisogni. Nel teatro di Pinter emerge la particolarissima animalità dell’umano. Noi, infatti, non potremo mai possedere l’innocenza degli altri animali, il loro essere d’emblée al di là del bene e del male. Possiamo, invece, situarci al di là del bene e del male, nella sfera dell’oggettività filosofica o in quella del sadismo e del cinismo esclusivamente umani.
Si fa fatica a capire che cosa il pubblico mediamente borghese possa applaudire di una commedia così immorale, che per quasi tre ore conduce lo spettatore dentro i meandri della degradazione. L’abitudine, forse, le convenzioni teatrali. E certamente l’apprezzamento verso una regia capace di porsi al servizio di un’immobilità senza requie.

 

À l’ombre des jeunes filles en fleurs

All’ombra delle fanciulle in fiore
di Marcel Proust
(À l’ombre des jeunes filles en fleurs, 1919)
Trad. di Franco Calamandrei e Nicoletta Neri
Einaudi, 1978 (1949)
Pagine XX- 604

L’adolescenza, «quell’adolescenza che –come scrive Proust in una variante- pur restringendosi, riducendosi ad un esile filo d’acqua spesso asciutto, si prolunga tuttavia talvolta per tutto il corso della vita» (pag. 563), è uno dei temi che percorre il secondo volume della Recherche.
Il Narratore adolescente si introduce alla vita di società, ai salotti mondani, ai “bagni di mare”, ai primi amori, alla solitudine profonda della sua natura, una solitudine tanto naturale quanto necessaria:

Nello stare in sua compagnia, nel conversare con lui non provavo –e, certo, sarebbe stato lo stesso con chiunque altro- nulla di quella felicità che mi era invece possibile raggiungere quando ero senza compagno (336) 1

Ma, in mancanza di una compagnia sopportabile, [Elstir] viveva nell’isolamento, con una selvatichezza che le persone della società chiamavano posa e cattiva educazione, i poteri pubblici spirito di contraddizione, i suoi vicini follia, la sua famiglia egoismo ed orgoglio (431) 2

Noi non siamo simili a costruzioni cui si possano aggiungere pietre dall’esterno, ma a piante che traggono dalla loro propria linfa il nodo successivo del loro fusto, il piano superiore del loro fogliame (512) 3

E, sempre a proposito del pittore Elstir, «la pratica della solitudine gliene aveva dato l’amore» (431) 4 . Anche l’apertura al mondo misterioso, dolce e terribile dei sentimenti è pervasa di un profondo costruzionismo gnoseologico ed esistenziale: «Quell’Albertine era soltanto una sagoma; tutto quel che vi si era sovrapposto era opera mia» (462) 5 ; «Certamente pochi capiscono il carattere puramente soggettivo di quel fenomeno che è l’amore, e com’esso sia una specie di creazione d’una persona supplementare, distinta da quella che porta lo stesso nome in società, una persona di cui la maggior parte degli elementi sono opera nostra» (45) 6

Quando siamo innamorati di una donna proiettiamo semplicemente in lei uno stato della nostra anima; di conseguenza, l’importante non è il valore della donna, ma la profondità dello stato d’animo; e le emozioni che una ragazza mediocre ci dà possono permetterci di far risalire alla nostra coscienza parti più intime di noi stessi, più personali, più lontane, più essenziali, di quanto non farebbe il piacere che ci dà la conversazione di un uomo superiore o anche la contemplazione ammirata delle sue opere (436) 7

Quando si ama, l’amore è troppo grande perché possa trovar posto tutto quanto in noi; s’irradia verso la persona amata, incontra in lei una superficie che lo arresta, lo costringe a tornare verso il punto di partenza, e questo rimbalzo della nostra stessa tenerezza noi lo chiamiamo i sentimenti dell’altro, lo troviamo tanto più dolce di quanto fosse all’andata, perché non sappiamo che proviene da noi (196) 8

In Proust una saggezza immensa svela gli enigmi, le meschinità, lo splendore della società umana, i suoi meccanismi più nascosti, i dolori e le speranze più potenti.
E mentre Odette de Crécy, ormai diventata Madame Swann, così incede nello spazio della pagina e del mondo: «Non meno che dall’apice della sua nobile ricchezza, era dal glorioso colmo della sua estate matura ed ancora così saporita che la signora Swann, maestosa, sorridente e buona, inoltrandosi lungo l’avenue del Bois, vedeva, come Ipazia, sotto il lento incedere dei suoi piedi, volgersi i mondi» (229) 9,  “la petit brigade des jeunes filles en fleurs” sboccia di una vita indeterminata e collettiva, voluttuosa e sorridente, sensuale e candida.

Note

1. «Je n’éprouvais à me trouver, à causer avec lui -et sans doute c’eût été de même avec tout autre- rien de ce bonheur qu’il m’était au contraire possible de ressentir quand j’étais sans compagnon» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 582).

2. «Mais faute d’une société supportable, il vivait dans un isolement, avec une sauvagerie que les gens du monde appellaient de la pose et de la mauvaise éducation, les pouvoirs publics un mauvais esprit, ses voisins de la folie, sa famille de l’égoïsme et de l’orgueil» (p. 651).

3. «Nous ne sommes pas comme des bâtiments â qui on peut ajouter des pierres du dehors, mais comme des arbres qui tirent de leur propre sève le nœud suivant de leur tige, l’étage supérieur de leur frondaison» (p. 710).

4. «La pratique de la solitude lui en avait donné l’amour» (p. 651)

5. «Cette Albertine-là n’était guère qu’une silhouette, tout ce qui s’y était superposé était de mon cru» (p. 674)

6. «Sans doute peu de personnes comprennent le caractère purement subjectif du phénomène qu’est l’amour, et la sort de création que c’est d’une personne supplémentaire, distincte de celle qui porte le même nom dans le monde, et dont la plupart des élements sont tirés de nous-même» (p. 375)

7. «Je m’étais mieux rendu compte depuis, qu’en étant amoureux d’une femme nous projetons simplement en elle un état de notre âme; que par conséquent l’important n’est pas la valeur de la femme mais la profondeur de l’état; et que les émotions qu’une jeune fille médiocre nous donne peuvent nous permettre de faire monter à notre conscience des parties plus intimes de nous-même, plus personelles, plus lointaines, plus essentielles, que ne ferait le plaisir que nous donne la conversation d’un hommes supérieur ou même la contemplation admirative de ses œuvres» (p. 655).

8. «Quand on aime, l’amour est trop grand pour pouvoir être contenu tout entier en nous; il irradie vers la personne aimée, rencontre en elle une surface qui l’arrête, le force à revenir vers son point de départ et c’est ce choc en retour de notre propre tendresse que nous appelons les sentiments de l’autre et qui nous charme plus qu’à l’aller, parce que nous ne reconnaissons pas qu’elle vient de nous» (pp. 482-483).

9. «Or, autant que du faîte de sa noble richesse, c’était du comble glorieux de son été mûr et si savoureux encore, que Mme Swann, majestueuse, souriant et bonne, s’avançant dans l’avenue du Bois, voyait comme Hypatie, sous la lente marche de ses pieds, rouler les mondes» (p. 506).

Aracoeli, la madre

Aracoeli
di Elsa Morante
Einaudi, Torino 1982
Pagine 328

 

Elsa Morante (1912-1985) e Carlo Emilio Gadda sono stati i maggiori narratori italiani della seconda metà del Novecento. L’ultimo romanzo della scrittrice è un libro triste e bellissimo nel quale l’io narrante  ricapitola la propria vita dalla nascita sino all’adolescenza, quando una solitudine infinita verrà a spegnere il suo futuro. Da adulto, Emanuele viaggia verso l’Andalusia, nel disperato tentativo di ritrovare le tracce e la presenza di Aracoeli, la madre amata e perduta. Il presente del viaggio si alterna al passato della memoria e crea una sorta di tempo immobile, il cui acme è l’istante dell’incontro onirico ma in qualche modo reale con il «minuscolo sacco d’ombra» (p. 307) in cui la residua energia della madre morta prende estrema ultima forma. E al rimorso del figlio che sente di aver peccato contro l’intelligenza per non aver mai capito nulla della vita, Aracoeli risponde «ma, niño mio chiquito, non c’è niente da capire» (308). È la disincantata parola di un’ombra sul divenire delle vicende umane, alla quale fa da eco nel figlio la constatazione che «tutte le altre storie, o Storie, mortali o immortali» sono immaginarie (327).
La memoria del protagonista germina da una condizione che è «la più nera infelicità terrestre: di esistere vivi dove non c’è nessuno che ci ama» (285) e per contrasto fa rinascere, in un drammatico gioco di colori e di tenebre, la luce felice dell’amore straripante di Aracoeli verso di lui, amore distrutto dai «torvi orienti di quell’epoca maligna» (213) in cui la primitiva forza vitale della madre si muta in una parodia smisurata e insensata, in un rutilante e folle precipizio, come se l’immensa energia dell’esistere non avesse che per scopo la morte, come se l’essere umano altro non fosse che «un grumo di mali più pesante del caos» (169).
Ad Aracoeli va l’adorazione e qualche volta il risentimento del figlio. È in lei che Emanuele vorrebbe svanire: «Ma tu, mamita, aiutami. Come fanno le gatte coi loro piccoli nati male, tu rimàngiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine pietosa» (109). Il romanzo è  intriso di una scrittura struggente, è intessuto di una sofferenza profonda eppure luminosa:

Oggi mi chiedo se quella nuova, piccola belva sanguinaria, perfetta gemella dell’altra, non fosse per caso una sua messaggera postuma, inviata a suggerirmi, col suo pungiglione, il motivo innominato di quel mio pianto. Questa non fu, come l’altra, foriera di pianto; ma certi individui sono più inclini a piangere d’amore, che di morte. (328)

 

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