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Le ceneri di Pirandello

Leonora addio
di Paolo Taviani
Italia, 2022
Con: Fabrizio Ferracane (delegato del comune di Agrigento), Matteo Pittirutti (Bastianeddu), Daria Marino (Betty)
Trailer del film

Nel filmato che documenta il conferimento del Premio Nobel per la letteratura a Luigi Pirandello (1934), lo scrittore appare piccolo, malinconico, solo. E così infatti descrisse l’evento – come pervaso di solitudine – in una meditazione «sul dolce della gloria e sull’amaro che è costata».
Pirandello voleva rimanere solo per sempre. Stabilì che non si dovesse dare notizia pubblica della sua morte e del funerale, che fosse cremato e le ceneri disperse o, «se non sarà possibile», tumulate «in qualche pietra del luogo dove nacqui». E invece le vicende dei suoi resti furono assai travagliate. L’urna cineraria venne infatti prima tumulata nel cimitero di Roma. Dieci anni dopo la morte (avvenuta nel 1936) venne trasportata con difficoltà in Sicilia. L’aereo destinato a un veloce viaggio da Roma a Palermo non partì perché passeggeri ed equipaggio non volevano viaggiare «insieme a un morto». Dopo il lungo itinerario in treno, sorse il problema della benedizione «di un vaso», cosa che il vescovo non voleva fare. Infine furono necessari quindici anni per la costruzione del monumento funebre nella contrada Caos di Agrigento, monumento e casa di Pirandello che, da quello che so, non sono oggi nelle migliori condizioni.
Non aveva quindi torto lo scrittore a non volere lasciare nulla di sé se non le proprie opere, i personaggi, la disincantata visione delle cose. Leonora addio racconta tutto questo con eleganza formale e tristezza sostanziale. Scorrono le immagini di molti film italiani dedicati alla guerra, alla distruzione, alla morte. Ed è quest’ultimo sentimento, la morte, che sembra prevalere e dominare. Come una lunga malinconia aperta dentro il finire insensato degli eventi.
La seconda parte del film trascorre dal bianco e nero al colore ed è la messa in scena di uno degli ultimi racconti di Pirandello: Il chiodo. Una parte che sembra aggiunta alla prima senza continuità ma che racconta anch’essa del procedere del tempo dentro l’insensatezza e il morire delle azioni e delle passioni umane.
Anche il titolo del film è un’assenza. Infatti dell’omonima novella nulla in esso è presente. Condivido quindi i sei aggettivi che Gianni Canova ha utilizzato per definire quest’opera che sembra proprio non farsi problemi di comprensione e di successo, com’è naturale quando il suo autore è un novantenne che continua a creare in assoluta libertà, per il gusto e il bisogno di farlo: «Un film arcano e misterioso, buffo e solenne, bizzarro e sfuggente». 

Collo

America Latina
di Damiano e Fabio d’Innocenzo
Italia, 2021
Con: Elio Germano (Massimo Sisti), Astrid Casali (Alessandra Sisti), Carlotta Gamba (Laura Sisti), Federica Pala (Ilenia Sisti), Sara Ciocca (bambina), Maurizio Lastrico (Simone), Massimo Wertmüller (il padre)
Trailer del film

Delle due parole del titolo, Latina fa riferimento alla provincia dove accade la vicenda, America è forse un gorgo.
Tenebra è infatti il corpomente di Massimo Sisti, uno stimato dentista, felice della bella moglie e delle sue due bambine/ragazze, proprietario di una grande villa con piscina e con cani, nella piena solitudine delle ex paludi pontine, bonificate ma sempre tristi. La villa ha un grande sotterraneo e qui accade qualcosa che trasforma la vita del Dottor Sisti, lo induce a sospettare di tutti, spezza l’unica amicizia che sembra avere e mette a rischio l’armonia familiare. Massimo fa visita al padre, il quale lo attende su una sedia a dondolo che scricchiola come quella -famosa- di Psycho, disprezza il figlio e gli chiede sempre soldi.
Del padre vediamo soprattutto il collo, illuminato da una lama di luce. E così spesso accade anche agli altri personaggi, sui corpi dei quali i due registi sembrano indulgere con primissimi piani che ne mostrano e disegnano i pori della pelle, i brufoli, il movimento degli occhi e delle orecchie, le bocche mentre consumano e ingurgitano cibo. Lo sguardo sta addosso e dentro ai corpi, come se dalle loro superfici apparentemente lisce ma in realtà colme di varie impurità dovesse scaturire un significato agli eventi sempre più inquietanti e iniqui che si dipanano negli anfratti del tempo, nella chiusura progressiva dello spazio.
Un cinema rigoroso, quello dei fratelli D’Innocenzo, ma che rischia anche il manierismo dello spavento, il compiacimento del fremito. In ogni caso, sia America Latina sia le precedenti Favolacce mostrano in modo lancinante lo squallore delle vite.

Siddharta

Hermann Hesse
Siddhartha
(1922)
Traduzione di Massimo Mila
Adelphi, 1987
Pagine 169

Siddharta, figlio di un brahmino, conosce e pratica la preghiera e il culto verso gli dèi, ma non se ne accontenta. Diventa un Samana, pellegrino, povero, mendicante. Impara il saper pensare, aspettare e digiunare, ma non se ne accontenta. Incontra e ascolta il Buddha e da lui riceve l’indicazione fondamentale: la santità non sta nelle idee ma nell’essere. Per questo non rimane fra i discepoli del Sublime e s’immerge tra la gente, nei commerci, nella ricchezza. Conosce l’amore di una donna, pratica il gioco e ogni godimento, ma non se ne accontenta. Diventa amico e discepolo di un barcaiolo che sa sentire la voce saggia e senza fine del fiume. Da lui impara l’ascoltare e apprende una serenità senza macchia. Per la prima volta ama e soffre per un essere umano: il figlio, verso il quale «il suo amore, la sua tenerezza, la sua paura di perderlo» si rivelano più forti di ogni meditazione e di ogni sapere (p. 141).
Alla fine di questo itinerario tra le forme molteplici del vivere, Siddharta è diventato ciò che è: un sorriso del mondo, la sapienza dell’unità, la perfezione dell’essere.

E così parve a Govinda, questo sorriso della maschera, questo sorriso dell’unità sopra il fluttuar delle forme, questo sorriso della contemporaneità sopra le migliaia di nascite e di morti, questo sorriso di Siddhartha era appunto il medesimo, era esattamente il costante, tranquillo, fine, impenetrabile, forse benigno, forse schernevole, saggio, multirugoso sorriso di Gotama, il Buddha, quale egli stesso l’aveva visto centinaia di volte con venerazione. Così – questo Govinda lo sapeva –  così sorridono i Perfetti (168).

Su tutto domina una dimensione di totale interiorizzazione. Nella solitudine di colui che cerca, nella sua anima, si svolgono la vicenda, la fatica, la gioia del mondo. A lui si apre lo spettacolo iridescente e sempre uguale della forme e degli umani. Quegli umani che Siddharta insieme ama e disprezza, uomini-bambini (così li chiama) afferrati da passioni, dolori, soddisfazioni per enti ed eventi che agli occhi del saggio rappresentano un gioco.
Gli uomini, i molti, «sono come una foglia secca, che si libra e si rigira nell’aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri, pochi, sono come stelle fisse, che vanno per un loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in se stessi la loro legge e il loro cammino» (93).
A Siddharta, stella variabile e insieme ferma, gli eventi e il divenire rivelano alla fine la loro cifra più nascosta: il senso delle cose non è oltre e dietro di loro ma nelle cose stesse, nel loro tutto, nell’intero del quale è parte anche il tempo come increspatura dell’immobile infinità dell’essere. Ogni cosa è dunque perfetta:

In quell’ora, Siddhartha cessò di lottare contro il destino, in quell’ora cessò di soffrire. Sul suo volto fioriva la serenità del sapere, cui più non contrasta alcuna volontà, il sapere che conosce la perfezione, che è in accordo con il fiume del divenire, con la corrente della vita, un sapere che è pieno di compassione e di simpatia, docile al flusso degli eventi, aderente all’Unità (156).

Il mondo è perfetto, la Necessità lo governa. Sapienza è benedire la vita al di là di ogni passione, pensiero o dottrina. Ciò che va non può andare diversamente, ciò che accade non può in altro modo accadere. Il sorriso del Perfetto è l’ironia stessa di una sapienza senza trascendenze, riscatti, salvezze, senza senso alcuno. Sapienza del vuoto e del nulla che è l’altra parola per l’essere.
Lo stesso disincanto, gaiezza e sorriso di Spinoza. Lo stesso disincanto, gaiezza e sorriso dei Greci.

Corpo / Sguardo

Venerdì 12 novembre 2021 alle 18.00 a Caltanissetta terrò una relazione sull’opera fotografica di Franco Carlisi, in particolare -ma non solo- su Il valzer di un giorno. L’evento si inserisce nell’ambito della mostra in corso presso il Museo Diocesano della città.
L’intervento ha per titolo Franco Carlisi. Il corpo come sguardo.
Il cuore profondo dell’Isola costituisce lo spazio e tempo dell’opera di Carlisi, spazio vissuto in uno dei momenti chiave della nostra identità di siciliani: il matrimonio.
Per noi il matrimonio non è soltanto la ratifica -religiosa o civile- di un legame affettivo; non è soltanto la creazione dunque di una istituzione; non è soltanto la ripetizione di un gesto antico che tutte le civiltà, pur se in modi diversi, conoscono. Per i siciliani il matrimonio è lo squadernarsi di un’antropologia.
L’opera di Carlisi trasforma l’intera corporeità in uno sguardo che esprime festa, narcisismo e potenza, che sia il corpo degli sposi, il corpo di coloro che guardano gli sposi, il corpo del fotografo diventato il suo sguardo che coglie, vede, trasmette e documenta l’anima dei siciliani, la solitudine, la malinconia, il nulla. Dentro la festa.

Androidi animisti

Gli androidi, la scuola, i tramonti
Recensione a: Kazuo Ishiguro, Klara e il Sole (Klara and the Sun, 2021)
Trad. di Susanna Basso
Einaudi, 2021
Pagine 273

in Aldous, 21 giugno 2021

«Lezioni su schermo»; ibridazione tra persone umane e intelligenze artificiali che si chiamano AA, Amici Artificiali; «editing genetico». Non sono gli elementi di una ulteriore fantascienza, di ancora un racconto dedicato al potere conquistato dalle macchine inventate dagli umani e che degli umani tentano di prendere il posto nel dominio sugli enti. Sono invece gli elementi di un testo all’apparenza tradizionale e in ogni caso costruito sulle strutture narrative, i dialoghi, le modalità temporali che hanno fatto del romanzo un genere letterario consolidato e a tutti noto.
I tre elementi -l’istruzione, l’ibridazione, il potenziamento genetico- a un certo punto della trama convergono nel modo più drammatico ed estremo, almeno come possibilità. Il realizzarsi o meno della quale dipende da qualcosa di impensabile in un contesto così tecnologicamente raffinato, da una sorta di «superstizione da AA» nutrita con ferma, fideistica, ingenua ma argomentata convinzione dall’androide Klara. Una fede nell’elemento più universale, materico, fondante la vita e ogni scambio di energia sul nostro pianeta: il Sole. 

[Sullo stesso blog/rivista il suo fondatore, Davide Miccione, ha pubblicato qualche giorno fa un articolo chiarissimo e disvelante sulle politiche scolastiche e formative del Governo Draghi, sul loro fondamento liberista, sulle loro conseguenze devastanti per ogni giustizia sociale, oltre che per l’esistenza di un pensiero critico: The Closing of italian Mind]

«È il nascere che non ci voleva»

Prosegue anche quest’anno l’iniziativa dell’Associazione Studenti di Filosofia Unict dedicata a Filosofia e letteratura. Nei precedenti cicli ci siamo occupati di Proust (2018), Dürrenmatt (2019), Gadda (2020, un solo incontro quasi…clandestino).
Quest’anno parleremo di Louis-Ferdinand Céline. Inizieremo venerdì 12 febbraio 2021 alle 15,30 nella splendida sede del Centro Studi di via Plebiscito 9, a Catania. Converseremo sui primi due romanzi di Céline: Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit, 1932) e Morte a credito (Mort à crédit, 1936).
Non la notte che ci avvolge, non il buio che percorriamo ma la notte che siamo. La potenza della solitudine. L’invincibile muraglia del destino, ai cui piedi si ricade «ogni sera, sotto l’angoscia dell’indomani, sempre più precario, più sordido». Lo studio, l’istruzione che fa l’orgoglio di un uomo e attraverso la quale «bisogna proprio passare per entrare nel cuore della vita; prima, ci si gira soltanto intorno», tanto che non basta essere ostinati e carogne se non si aggiunge la cognizione, la quale soltanto consente di andare più lontano degli altri. Qualunque cosa accada, è da soli che si muore perché la morte è inseparabile dal nostro essere, è l’altro nome dell’individualità, è la prima sostanza e l’ultimo apprendimento: «La verità di questo mondo è la morte».
Tutto questo e molto altro è il Voyage. Una narrazione che va da Parigi al Congo, dal fronte franco-germanico a Detroit, «dalla vita alla morte». Spinta da una inesausta «voglia di saperne sempre di più», intessuta e materiata di un linguaggio senza modelli, insieme gergale ed elegante, immediato e raffinato, sensuale e plebeo senza mai essere volgare.
Una volta entrati nel puro ritmo che è la scrittura di Céline, a poco a poco si penetra –fino a sprofondare- nell’epica allucinazione che è la vita, nel delirio del grumo di tempo che si è, nella comprensione esaltata e senza speranza dell’esistere. Mort à crédit prosegue il viaggio dentro la famiglia, le istituzioni educative, personaggi sognatori e imbroglioni, eloquenti e spregevoli, infimi e grandi.
Tenteremo un confronto tra Céline e Proust e cercheremo di comprendere il nesso tra la morte, l’infinito, il tempo. «Ah, è terribile però…hai voglia d’esser giovane quando t’accorgi per la prima volta…come la gente la si perda per via…compagni che non rivedremo più…mai più…che son scomparsi come tanti sogni…che tutto è finito…svanito…che anche noi ci perderemo così…un giorno ancor molto lontano…ma ineluttabilmente…nello spietato torrente delle cose, delle persone…dei giorni…delle forme che passano…che non si fermano mai…».

«Animali siamo tutti, tutti»

Volevo nascondermi
di Giorgio Diritti
Italia, 2020
Con: Elio Germano (Antonio Ligabue), Pietro Traldi (Renato Marino Mazzacurati), Orietta Notari (Madre Mazzacurati), Francesca Manfredini (Cesarina), Paola Lavini (Pina)
Trailer del film

Dentro un sacco, nel gelo dei campi, nelle stalle svizzere e sulle rive del Po. Un dialetto svizzero-tedesco assai duro e un altrettanto stretto dialetto della bassa reggiana, a Gualtieri. Città della quale era originario l’uomo che gli diede un cognome odiato, che Antonio cambiò in Ligabue. Due madri, una biologica e l’altra adottiva, amate e, in modi diversi, assenti. E sopratutto la potenza creativa che sgorga anche dai corpimente più martoriati, dalla psiche più contorta, solitaria, dispersa.
E poi esplode nei colori sfavillanti, nelle forme espressionistiche, negli animali amati imitati abbracciati, quegli «animali che siamo, tutti, tutti» come Antonio dice a un amico. Dell’animalità è parte anche il desiderio erotico che neppure diventato ricco e famoso dà a Ligabue l’amore, perché le donne sono da lui tanto volute quanto temute. «Follia» è parola che tutto spiega e nulla spiega di una vita così dolente e appassionata, ascetica e ctonia, orgogliosa «sono un artista io, un grande artista!» e umilissima. La vita di uno dei pittori più profondi e radicali del Novecento, le cui tele sono terra, foreste, simboli, morte che divora, forma che rinasce.
Alla persona di Ligabue Elio Germano regala un personaggio estremo e forte, mai patetico, a volte insopportabile a se stesso e agli altri.
Sullo sfondo crepuscolare e abbacinante dei campi e del fiume, del magnifico delta del Po, la vita di Ligabue viene narrata da Giorgio Diritti in modo anche rigoroso, poetico, allusivo, delicato. E molto terrestre.
«Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all’ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore», questa la frase che sta sulla sua tomba.

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